Il settore della ristorazione, la cui esplosione è legata alla “vocazione turistica” che la città ha intrapreso, produce “lavoro povero” e supersfruttamento, riempie le tasche a pochi, dà paghe da fame alle tante persone che ci lavorano.
Pur essendo passato qualche mese, l’immagine è ancora nitida: durante una manifestazione sindacale che doveva terminare in piazza Santo Stefano il corteo, per entrare in piazza, si è dovuto predisporre in fila indiana perché quasi tutto il terreno calpestabile della strada che dal Palazzo della Mercanzia porta al sagrato delle Sette Chiese era occupato dai tavolini dei tanti locali che pullulavano nella zona.
Un secondo flash riguarda la giornata dello scorso 22 dicembre: dai sindacati di categoria Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs è indetto uno sciopero delle lavoratrici e dei lavoratori dei pubblici esercizi, della ristorazione collettiva, commerciale e del turismo per il mancato rinnovo dei contratti nazionali scaduti nel 2019. Sono oltre un milione le lavoratrici e i lavoratori coinvolti nella vertenza, dipendenti delle 350.000 imprese del settore, tra bar, pub, ristoranti e tavole calde, fast food, pasticcerie, mense, spacci aziendali e dalle aziende di fornitura pasti preparati e mense che operano prevalentemente in regime di appalto in ospedali, scuole, fabbriche e uffici.
L’astensione dal lavoro è riuscita abbastanza bene per quanto riguarda le mense collettive di aziende e scuole, la partecipazione ai cortei (secondo fonti sindacali) è stata più alta che in altre occasioni, ma dello sciopero in città non si è vista nessuna traccia, salvo qualche cartello su alcuni locali o esercizi commerciali in cui si annunciavano possibili disagi per via di una “annunciata agitazione sindacale”.
La data del 22 dicembre, vicinissima alle festività natalizie, era stata scelta in prospettiva dei numeri elevati da vero e proprio boom turistico (già in corso o prevedibilmente in arrivo). Probabilmente veniva auspicata una copertura mediatica superiore all’effettivo fastidio prodotto sulle/i consumatrici/ori che, alla fin fine (concretamente), non si sono accorti di questa protesta.
QUEL CONTRATTO DI LAVORO SCADUTO DA TEMPO
Non abbiamo cognizione se le associazioni padronali, dopo questa giornata di lotta, abbiano cambiato il loro atteggiamento che si è concretizzato, fino ad ora, in un rifiuto netto alle richieste di aumenti salariali (rapportati a un calcolo dell’inflazione misurata con l’Indice IPCA, cioè comparata a livello europeo), considerando il rinnovo del Contratto come una variabile esclusivamente dipendente dai loro interessi economici e organizzativi. Infatti, durante i primi incontri, i rappresentanti delle imprese hanno avanzato alcune proposte che, se accettate, produrrebbero un forte impatto negativo sulle già scarne retribuzioni delle lavoratrici e dei lavoratori. In materia di scatti di anzianità hanno avanzato una sterilizzazione dei loro effetti su tredicesima e quattordicesima mensilità; hanno prospettato una riduzione dei permessi retribuiti (i cosiddetti ROL che vengono concessi alla/al dipendente per assentarsi dal luogo di lavoro durante l’anno, senza dover specificare il motivo dell’assenza e senza vedersi decurtato il salario). Nelle intenzioni dei rappresentanti delle imprese ci sarebbe anche la riduzione del periodo di proroga nel rapporto tra infortunio e malattia; a cui vorrebbero aggiungere la revisione in peggio del preavviso e dei contratti di apprendistato.
Un pacchetto di proposte che vorrebbe sbattere ancora più in basso, fino quasi ad umiliarli, lavoratori e lavoratrici che, nei settori della ristorazione e della distribuzione, percepiscono già paghe che le/i spingono dentro le sacche di “lavoro povero” (quello remunerato talmente poco da non permettere di superare la soglia di povertà), impedendo loro di vivere dignitosamente e caricandole/i di affanni, ansie e sofferenze.
IL LAVORO POVERO NELLA RISTORAZIONE
Una recente ricerca fatta dall’Ires-Cgil dell’Emilia-Romagna, per redigere una mappa del “lavoro povero” nella nostra regione, ha rilevato che, a fronte di una retribuzione media di 92,30 euro al giorno per una/un operaia/o manifatturiero, per un addetto della ristorazione si arriva a 72,10 euro lordi che si abbassano a 66,8 se la dipendente è una donna e calano fino a 57,10 euro lordi giornalieri se il contratto di lavoro è a tempo determinato. E nell’inchiesta si parla di retribuzioni medie che mettono insieme quelle di una/o chef, di una/un cameriere, di una/un barista o di una/un lavapiatti… Immaginiamo perciò la miseria che si possono mettere in tasca le figure professionali che stanno ai livelli più bassi. Se poi ai salari da fame aggiungiamo i contratti precari, o non regolari, se non addirittura inesistenti, si va ben oltre la normale “oscenità sociale”.
Incrociando diverse inchieste e ricerche nel settore della ristorazione e delle attività ricettive nel nostro Paese, il nero e il sommerso arrivano a numeri smisurati: si parla, a livello nazionale, di 500.000 persone impiegate in condizioni di lavoro irregolare (con quanto ne consegue anche in termini di evasione fiscale). Un altro dato significativo è che il 70% delle segnalazioni di denunce legate all’Ispettorato del lavoro riguarda questi settori.
LE MOLTEPLICI FORME DI IRREGOLARITÀ
Le forme di irregolarità sono molteplici: si va dal prolungamento dell’iter di assunzione all’uso di studentesse/i che lavorano in nero per mantenersi agli studi; dallo sfruttamento dei ragazzi e delle ragazze delle scuole alberghiere durante il percorso di alternanza scuola-lavoro (per fare esperienza e formazione dovrebbero affiancare la/il lavoratrice/ore e invece molto spesso si ritrovano a occupare posti vacanti, lavorando gratuitamente) alle richieste di part time a 25 ore settimanali che in realtà diventano turni lavorativi di 40 o, addirittura, 50 ore.
Tra i bar, i pub, le pizzerie, le trattorie e i piccoli ristoranti l’uso del lavoro a chiamata, a Bologna, è molto diffuso. Da diverse denunce di lavoratrici/ori si è appreso che i gestori, utilizzando il contratto a chiamata, spesso segnano meno ore lavorative di quelle effettive e il resto che spetterebbe alla/al dipendente viene dato in nero. Per legge, la tipologia contrattuale del lavoro a chiamata non dovrebbe superare il 20% del totale delle/i dipendenti, ma in tanti locali in città la percentuale è molto più alta e si sono affinati modi “artificiosi” per fare risultare i dipendenti “in regola” se arriva un controllo dell’Ispettorato del lavoro.
In più di un caso c’è stato un uso fraudolento dei giorni di prova, alla fine dei quali alle/i “candidate/i” viene dato il ben servito senza nessun compenso, poi si passa ad utilizzarne altri alle medesime condizioni. Durante il periodo del Covid c’è stato chi, tra i gestori dei locali, attivava gli ammortizzatori sociali per le/i proprie/i dipendenti, facendole/i ugualmente lavorare ma pagandole/i con i rimborsi della Cassa integrazione. E se andate a chiedere come venivano gestiti i voucher (che, come si sa, non coprono malattia, maternità, assegni familiari e disoccupazione) avrete un’altra conferma come in questo settore ci sia un apporto assolutamente svantaggioso tra stipendio e orari; le tante voci che si sentono descrivono un lavoro che restituisce un salario insufficiente per vivere dignitosamente, ma, al tempo stesso, chiede alle persone occupate sacrifici pesanti, con condizioni di lavoro molto gravose per turni e orari. Insomma, è fuor di dubbio che, nel nostro Paese, il mercato della ristorazione metta in atto dinamiche lavorative basate sullo sfruttamento che con l’etica c’entrano molto poco.
I SALARI DA FAME
Se poi, dal punto di vista salariale, si fa un raffronto con Paesi come la Francia, la Germania e la Svizzera non occorre possedere particolare acume per rendersi conto che in Italia le lavoratrici e i lavoratori sono sottopagate/i.
Ci si domanda perché tante/i ragazze/i fuggono all’estero, la risposta la si può trovare in questo esempio: quest’estate una catena alberghiera tedesca proponeva (per otto ore al giorno, per cinque giorni la settimana) stipendi da 1.800 euro al mese, un contesto che in Italia è inimmaginabile.
Un’altra questione di una certa rilevanza è esplosa con la Brexit. Molte/i giovani italiane/i che erano andate/i in Gran Bretagna per lavorare in pub e ristoranti, dopo l’uscita dell’Uk dall’Ue, sono stati obbligate/i, loro malgrado, a una “fuga di rientro”. Tornate/i in Italia, cercando un’occupazione simile, forti di un “curriculum di livello alto”, si sono scontrate/i con una realtà che è quella che abbiamo poc’anzi descritto. Se hanno trovato posto in un locale, si sono rese/i conto che, rispetto all’esperienza e alla preparazione accumulate all’estero, la retribuzione e la mole di lavoro erano assolutamente inadeguate.
LA GAVETTA E I SACRIFICI
Le/i proprietarie/i si lamentano che i giovani hanno sempre meno voglia di fare fatica e di dedicarsi alla “gavetta”, ma, al tempo stesso, fanno finta di non sapere che l’offerta delle imprese è quanto mai umiliante, perché propone, a fronte di un enorme monte ore, una paga che difficilmente supera i 1.100 euro mensili (nelle retribuzioni “più interessanti”). Le/i padrone/i dicono che se una/un cameriera/e prende poco è perché, a differenza di un tempo, le mance (che erano una parte importante dello stipendio) oggi sono in caduta libera, le somme sono sempre meno consistenti. Qualcuno propone l’introduzione della “mancia obbligatoria”, come se il pagamento (adeguato) di chi lavora non fosse un “dovere” di chi fa impresa.
Ma dove finisce il “principio della gavetta” e dove inizia il diritto ad un lavoro che venga remunerato in proporzione alla qualifica e allo sforzo è difficile da definire?
Ad essere puntigliosi ci sarebbe anche un appiglio giuridico: l’articolo 36 della Costituzione sancisce il diritto a una “retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto e sufficiente a garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
In un contesto costituzionale di questo tipo, il contratto collettivo di categoria avrebbe dovuto divenire il parametro di riferimento della retribuzione “costituzionalmente adeguata”.
Che questo sia qualcosa di effettivo, soprattutto di questi tempi, è difficile da dimostrare.
Le/i datrici/ori di lavoro (così come vengono democraticamente chiamati oggi giorno) non hanno mai optato per una “spontanea” applicazione dei contratti collettivi alle/i proprie/i dipendenti (quanto mai in un settore come quello della ristorazione, composto da 350.000 imprese e da un variegato ventaglio di sottoinsiemi). E’ sempre stata una questione di rapporti di forza in uno storico conflitto tra “capitale e lavoro”, è da lì che sono sempre scaturiti i risultati più o meno favorevoli ai diritti dei lavoratori. E, attualmente, l’asse della bilancia di questi rapporti non propende verso i bisogni della forza lavoro. Perciò la contrattazione collettiva, di per sé, non è stata in grado di salvaguardare i salari dei lavoratori. C’è stata una sua oggettiva difficoltà a sostenere la dinamica salariale e in diversi settori è cresciuta la cosiddetta “povertà lavorativa”.
E’ UNA QUESTIONE DI SOPRAVVIVENZA
Non è una questione di gavetta o di sacrifici, ma per le lavoratrici e i lavoratori della ristorazione è una questione di sopravvivenza: consideriamo il costo degli affitti in una città come Bologna, come è pensabile che un o una dipendente di un pub o di una trattoria possa viverci con uno stipendio che si aggira sui mille euro al mese (poco sotto o poco sopra a seconda dei casi)?
Poi inizia ad emergere tra tante ragazzi e tante ragazze anche una questione “culturale”, affiora sempre più una domanda: a un certo punto della vita è normale che esca fuori un bisogno di stabilità (in tutti i sensi); per quanto tempo si potrà durare con orari tanto flessibili, o con i fine settimana sempre impegnati? E, a fronte di questi sacrifici, c’è la negazione per retribuzioni minimamente decenti, a uno stipendio che sia utile per soddisfare bisogni primari. Perché avere qualche sabato di riposo sembra essere una bestemmia? Perché reclamare il rispetto degli orari e delle mansioni come prevederebbe il contratto ed essere trattati da esseri umani, piuttosto che da dipendenti assoggettati, viene considerato un’utopica illusione? Perché tutto questo deve essere un miraggio e non un desiderio “concreto” di futuro?
LE GRANDI DIMISSIONI
La sociologa Francesca Coin nel suo libro “Le grandi dimissioni” parla dei cambiamenti del mercato del lavoro nel nostro Paese: «L’Italia da un Paese basato su una struttura manifatturiera e industriale, è diventato un Paese fortemente terziarizzato. In alcune aree del Paese l’apertura di ristoranti e bar ha sopperito all’assenza di impiego, anche se si tratta di attività che, in un caso su due, falliscono entro cinque anni. In sostanza, abbiamo assistito a un generale impoverimento della struttura produttiva, del lavoro e del tessuto sociale, in un deterioramento complessivo delle condizioni lavorative a cui è andata di pari passo accostandosi una forte e diffusa cultura antisindacale. La crescita delle dimissioni volontarie è un esito di questa situazione, che è, a tutti gli effetti, una situazione emergenziale».
Citando il XXI Rapporto annuale dell’Inps, Coin sostiene che il settore della ristorazione è quello in cui il 65% dei lavoratori risulta “lavoratore povero”, un vero e proprio controsenso andare a lavorare per restare poveri: «Nel 2021 il 20% dei percettori di Reddito di cittadinanza aveva un lavoro. Si tratta di persone che hanno percepito il Reddito di cittadinanza in modo stabile e avevano, nello stesso tempo, una posizione lavorativa attiva. La maggior parte di questi, scrive il rapporto Inps, lavorava come dipendente del settore privato e il 22% lavorava nella ristorazione. Sono persone che ricevevano un reddito così basso che non riuscivano a uscire dalla povertà neanche lavorando. Uno dei nodi proprio è questo: per anni abbiamo pensato che i lavoratori poveri fossero costretti a tenersi stretto il lavoro a ogni costo, perché non avevano alternative. Ma quando la retribuzione del lavoro scende sotto certe soglie, la contropartita che offre è così bassa che chi lo lascia non ha molto da perdere».
LE DIFFICOLTA’ A TROVARE PERSONALE
In un crocevia con le tesi di Coin, c’è un altro filone di pensiero (in qualche modo contrapposto a quello della sociologa militante): è quello degli imprenditori che si lamentano per le difficoltà a trovare cameriere/i, personale di sala, bariste/i, aiuti cuoche/i, facendo finta di stupirsi dei i dati del ministero dell’Istruzione che parlano di una disaffezione verso i corsi degli istituti alberghieri.
Ma evidenziando il problema lo descrivono come soprattutto come un atteggiamento delle/i giovani «non più propensi ai sacrifici e alla gavetta». Le/i padrone/i dei locali tirano dritti per la loro strada: «E’ insito nel mondo della sala e della cucina non terminare sempre alla stessa ora o lavorare la sera fino a tardi… La ricerca del personale nella ristorazione è un problema momentaneo… Noi, in fase di assunzione continueremo a puntare sulle qualità umane dei nostri collaboratori… caratteristiche come umiltà, onestà, sana ambizione, rispetto, flessibilità, affidabilità, sacrifici legati alla gavetta, impegno e costanza… Queste doti bisogna possederle, le qualità tecniche invece si possono apprendere e migliorare…».
Quello che le/i proprietarie/i fanno finta di non capire è che le persone che “accettano le loro condizioni”, e che spesso accettano pure di farsi calpestare qualsiasi diritto, lo fanno perché il bisogno di reddito è talmente alto che “non osi rinunciare a qualsiasi opportunità di lavoro”. Si crea così una sorta di silenzio assoluto, un livello di omertà molto forte, su condizioni lavorative disagiate e precarie, in cambio di quel minimo di “opportunità salariale”.
LE DENUNCE DI SOPRUSI E SFRUTTAMENTO
Non è un caso che le denunce sulle situazioni di supersfruttamento o di abuso che si verificano nei luoghi di lavoro siano sempre avvenute attraverso modalità “esterne”, la paura delle/i dipendenti di essere licenziate/i non ha mai permesso loro di essere le/i protagoniste/i delle segnalazioni.
Parliamo di alcune esperienze avvenute negli anni passati, come quella del collettivo “Padrone di merda”, passato all’attenzione della cronaca e della repressione giudiziaria per i blitz in maschera bianca che per alcuni mesi presero di mira diversi esercizi commerciali del centro storico di Bologna. Le attiviste e gli attivisti, muniti di megafoni e videocamere, inscenavano manifestazioni di protesta davanti a locali o negozi, attaccando i titolari per avere pagato in parte o non pagato per niente dipendenti e collaboratori. In un caso, in sede civile, le contestazioni del collettivo produssero una pronuncia del Tribunale del lavoro, che ingiungeva il proprietario di rimborsare le somme dovute a una dipendente. In diversi altri casi la magistratura rivolse accuse, denunce e misure cautelari contro alcuni componenti del collettivo per diffamazione, violenza privata, travisamento e imbrattamento.
L’altra iniziativa, portata avanti da un gruppo denominatosi “Bologna del lavoro” che aprì una pagina su Facebook per dar vita a una campagna per segnalare i locali non in regola. “A Bologna si mangia e si beve sui diritti dei lavoratori”, si leggeva sul profilo del gruppo. Il compito della campagna, in un settore dove la sindacalizzazione era quasi nulla, era quello di raccogliere denunce contro il lavoro irregolare e sottopagato, creando una lista di quelli che sfruttavano i propri dipendenti utilizzando in via prioritaria contratti a chiamata e pagamenti in nero L’obiettivo era delineare i ristoranti che si comportavano in modo etico. E, al tempo stesso, stendere di una “lista nera” dove inserire ristoranti e trattorie da “bollino rosso”.
Si voleva in questo modo dare voce a tutti quelle/i cameriere/i, lavapiatti, bariste/i, aiuto cuoche/i e varie/i dipendenti nel settore della ristorazione, vittime silenti di un precariato agghiacciante che li relegava in un lavoro mal retribuito e sfruttato. La pagina Facebook vide l’adesione di diverse centinaia di persone.
L’AUTOTUTELA COLLETTIVA CHE NON C’E’
Di attività sindacali vere e proprie o di autotutela collettiva, come per esempio è stato il movimento dei riders delle aziende di delivery (consegne a domicilio di cibo e bevande), nel settore non se ne sono viste molte. Oltre ai rinnovi dei contratti nazionali (che però hanno sempre segnato uno scarsissimo supporto conflittuale), chi si è rivolto ai sindacati della categoria lo ha fatto per avere un appoggio legale per fare ricorsi al Tribunale del lavoro.
Porsi dunque la questione di come una massa così grande di lavoratrici e lavoratori (disgregata e scomposta, frazionata in piccole e piccolissime unità produttive) possa dotarsi di strumenti di rappresentanza e di organizzazione per sostenere proprie rivendicazioni è una cosa necessaria anche solo per fare sentire le voci sempre strozzate dalla paura di tante persone sfruttate.
La ripresa dopo tanto tempo del dibattito sul “reddito di base” o la necessità di un salario minimo, di una legge a difesa dei minimi salariali, è qualcosa di utile utile, sia per sostenere i settori più in difficoltà ma anche per battersi per un rialzo generalizzato delle retribuzioni, che nel nostro Paese sono al palo da anni (relegando l’Italia negli ultimi posti di una “scala retributiva” europea).
LA CITTA’ A VOCAZIONE TURISTICA
Ma per chiarezza va anche detto che le forze politiche del centrosinistra che sostengono in parlamento la proposta di legge per il salario minimo a nove euro lordi all’ora, sono le stesse che a Bologna, così come in altre città dove sono al governo nei Comuni, hanno sostenuto politicamente e amministrativamente, la trasformazione spinta di questo territorio in “città a vocazione turistica”, con tutte le conseguenze nefaste che questa scelta si è portata dietro: dall’invasione di B&B e Airbnb all’allineamento del costo degli alloggi ai prezzi degli affitti turistici, dal proliferare del “lavoro povero” e del supersfruttamento nel settore della ristorazione e dell’accoglienza turistica alla mutazione sempre più progressiva di Bologna in una città aperta solo a chi se la può permettere.
Secondo una ricerca Ebintur, il turismo nei prossimi anni sarà sempre più un motore di crescita e, nelle previsioni a medio termine, ad ampliarsi saranno gli alberghi (30,3%), le altre strutture ricettive (28,6%) e la ristorazione (28,4%).
Che tutto questo riempa ancora di più le tasche di pochi è certo, che faccia il bene della comunità è tutto da dimostrare.