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Non c’è più tempo: di galera si muore

Le carceri ormai non sono solo luoghi di privazione della libertà personale, al loro interno anche diritti inviolabili come la salute e la dignità devono essere abrogati in nome della “certezza della pena”.

03 Maggio 2024 - 09:37

Di galera si parla poco e male

Di carcere si parla a spizzichi e bocconi e spesso a vanvera. La frequenza con cui si dedica un po’ di tempo su quello che avviene dietro alle sbarre non ha una periodicità precisa, quasi sempre a fissare l’attenzione sulle nostre patrie galere sono episodi di violenza e di soprusi contro le persone detenute che “rubano”, per un paio di giorni, un po’ di spazio sui giornali o qualche servizio in tv, poi si ritorna al perverso oblio quotidiano.

A quelli che si dichiarano preoccupati fanno sempre da contraltare i tanti (troppi) ambasciatori di quel populismo penale che ha sguazzato, a livello trasversale, negli ambienti della politica istituzionale, negli sguaiati talk show delle reti televisive, nelle sedi dei giornali mainstream. In quei contesti il garantismo (per i deboli) è la tossina malvagia che va estirpata e l’allineamento sulla chiacchiera da bar “stanno troppo bene… altro che galera, le carceri italiane sono hotel a quattro stelle… l’unica cosa da fare è buttar via la chiave” lo si trova sul volume della voce (sempre urlato).

Per questi soggetti il carcere e la severità della pena sono concepiti come una forma di vendetta della società contro chi delinque, come la giusta afflizione fatta pagare al malvivente che rassicura il cittadino perbene. Per questa credenza collettiva i diritti civili nelle prigioni dovrebbero essere abrogati in nome di una non meglio precisata “certezza della pena”.

Una simile contrapposizione la si vide nelle lunghe settimane dello sciopero della fame di Alfredo Cospito contro il regime speciale del 41 bis. Se quello che si produsse lo si vuole chiamare dibattito, va detto che, a livello di governo della giustizia, non si produsse nessun cambiamento.

Il “Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani degradanti” (organismo del Consiglio d’Europa) chiese una serie di interventi alle autorità italiane riguardo ad alcune misure restrittive in carcere tra cui l’abolizione dell’isolamento diurno e il riesame della gestione dei detenuti sottoposti al regime del 41 bis. Nello specifico, il Comitato sollecitò che i detenuti al 41 bis potessero trascorrere almeno quattro+ ore al giorno fuori dalle loro celle; più visite e il permesso di effettuare almeno una chiamata al mese. Nessuna risposta istituzionale dai palazzi governativi arrivò. Del resto, una legislazione in materia di diritti umani per la popolazione detenuta è sempre stata invisa ai partiti di destra (ma non solo).

In queste settimane si è tornato a parlare di carcere a partire dalla vicenda di Ilaria Salis. Molte persone sono rimaste colpite nel vedere questa donna, calpestata intenzionalmente nella sua dignità, ammanettata ai polsi e alle caviglie, trascinata con le catene nell’aula di un tribunale ungherese, in carcere da più di un anno e con il rischio di una pena pesantissima per avere manifestato contro un raduno neonazista nel paese del sovranista Orban. Il disgusto che hanno prodotto (giustamente) quelle scene di violenza repressiva nei confronti di una cittadina italiana in terra di Ungheria non è stato altrettanto forte rispetto a una serie di episodi drammatici avvenuti nelle prigioni italiane, in questi casi gli occhi sono rimasti chiusi, o gli sguardi si sono girati da un’altra parte, di fronte ad abusi perpetrati da uomini in divisa nei confronti di persone detenute in vari istituti.

Le violenze contro i detenuti

L’ultimo caso, in ordine di tempo, riguarda i fatti che si sono verificati all’Istituto per minori Beccaria di Milano.

Si tratta di episodi avvenuti tra il 18 novembre 2022 e il 19 marzo 2024, la denuncia è stata fatta dal Garante dei detenuti del capoluogo lombardo. Tutte le vittime sono minorenni e hanno riferito di maltrattamenti, pestaggi, colpi alla testa e al petto, ferite ai genitali, o di ragazzi lasciati nudi per giorni in isolamento. Tutti casi di vere e proprie torture. Avvenimenti supportati da referti, intercettazioni e video. Violenze ripetute e sistematiche, che descrivono il clima che si viveva nell’istituto e il senso di impunità di cui si facevano forti gli agenti accusati delle azioni criminali.

Da anni l’Associazione Antigone denunciava le condizioni della struttura, ma era difficile immaginare tanta inconcepibile brutalità a danno di minorenni.

Del resto, episodi di torture, atti di violenza fisica e morale, pestaggi erano già avvenuti, un po’ a macchia di leopardo, in diversi parti del territorio nazionale, nelle celle o nei corridoi di diversi istituti. Quelli che hanno visto aperture di inchieste e segnalazioni sugli organi di informazione fanno parte di questo lungo elenco: tra marzo 2017 e settembre 2019 a Torino, 11 agosto 2018 a San Giminiano, 3 agosto 2019 a Monza, 6 aprile 2020 a Santa Maria Capua Vetere, 27 aprile 2022 a Bari, 3 agosto 2022 a Biella, 3 aprile 2023 a Reggio Emilia, 11 agosto 2023 a Foggia, 18 marzo 2024 di nuovo a Foggia.

Tutti i sindacati, più o meno grandi, della polizia penitenziaria, hanno sempre sostenuto e coperto gli agenti inquisiti. Quale possa essere il loro approccio al problema lo si può riscontrare in uno degli ultimi comunicati del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria): “Nelle carceri della Nazione serve, forte ed evidente, la presenza dello Stato, che non può tollerare questa diffusa impunità, e servono provvedimenti urgenti ed efficaci!… Per ristabilire ordine e sicurezza va attuata davvero quella tolleranza zero verso quei detenuti violenti che, anche in carcere, sono convinti di poter continuare a delinquere nella impunità assoluta!… Servono regole ferree… servono provvedimenti urgenti ed efficaci!”.

Sicuramente attenti ad appelli di questo tipo sono stati alcuni deputati di Fratelli d’Italia che hanno presentato una proposta di legge per abrogare il reato di tortura. La tesi adombrata da questi parlamentari è sicuramente “negazionista”, infatti nella proposta n. 623, presentata alla Camera dei Deputati, si legge: «Le pene previste per il reato [di tortura] sono chiaramente sproporzionate rispetto ai reati che puniscono nel codice attualmente tali condotte (percosse, lesioni, minacce, eccetera) e non giustificate dall’andamento della situazione criminale in Italia; non risulta infatti che ci sia una recrudescenza di reati e di abusi in genere commessi da appartenenti alle forze dell’ordine nell’esercizio della loro funzione tale da giustificare l’introduzione di un nuovo reato».

E’ indubbio che il reato di tortura sia sgradito ai partiti sovranisti, il problema non sono solo le catene ai polsi e ai piedi in Ungheria ma, in generale, l’approccio all’universo carcerario: garantismo incondizionato per gli agenti di polizia penitenziaria, principio che, al contrario, viene escluso per gli altri.

Invece, nelle considerazioni finali del rapporto del “Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti”, dopo la visita effettuata in quattro carceri italiane, oltre allo stato di sovraffollamento degli istituti penitenziari si aggiungono le denunce per maltrattamenti dei detenuti “da parte del personale della Polizia penitenziaria”.

Il “nodo alla gola” dei suicidi

In poco più di un anno, da gennaio 2023 a marzo 2024, nelle carceri italiane è stata raggiunta la soglia tragica di “quota cento” delle detenute e dei detenuti che si sono suicidati. Di fronte a questa situazione, l’associazione Antigone ha intitolato il suo annuale rapporto sui penitenziari del nostro paese “Nodo alla gola”. Lo ha accompagnato con un dossier in cui si sostiene: “Ogni caso di suicidio ha una storia a sé, fatta di personali sofferenze e fragilità, ma quando i numeri iniziano a diventare così alti, non si può non guardarli con un’ottica di insieme”.

Anche l’Unione Camere Penali Italiane ha preso posizione sulla gravissima situazione. In un suo comunicato dello scorso 19 aprile si parla degli “strumenti atroci con cui ci si dà la morte in carcere”: “Lenzuola e bombole di gas, strumenti che consentono solitamente ai detenuti di procurarsi il cibo e il sonno, quel poco che assicura il minimo della sopravvivenza, divengono gli strumenti atroci con cui ci si dà la morte. L’ultimo terribile suicidio nel carcere di Como prolunga quella interminabile lista che pesa oramai come un macigno sulla coscienza dell’intero Paese”.

La nota delle penaliste e dei penalisti italiani prosegue rimarcando la gravità del momento: “In una perdurante indifferenza questo terribile elenco continua ad allungarsi proiettando la sua ombra futura verso la cifra mai raggiunta di oltre novanta suicidi in un anno. L’universo carcerario, abbandonato da troppo tempo a sé stesso, e alla sua troppa disperazione, ha bisogno di cure immediate, di urgenti misure che proteggano la vita e la dignità di tutti i detenuti, necessita di un nuovo patto con la società all’interno della quale vive”.

L’Unione delle Camere penali italiane ha, infine, denunciato anche “l’insufficienza e l’inidoneità di tutte le proposte formulate dal Governo rispetto a una soluzione immediata ed efficace della crisi”.

Pure per Antigone l’ambiente carcerario acuisce situazioni di pregressa difficoltà: “le biografie di chi si è tolto la vita raccontano situazioni di grandi marginalità. L’età media è di quarant’anni, con ben 17 suicidi commessi però da giovani tra i 20 e i 29 anni. Il tasso è significativamente maggiore nelle persone detenute di origine straniera (in totale 42) e avviene soprattutto a ridosso dell’ingresso in struttura o in scadenza di pena: almeno nove persone erano entrate in carcere solo da una manciata di giorni e come minimo 15 avevano una pena residua breve o erano prossime a richiedere una misura alternativa… In carcere ci si toglie la vita ben 18 volte di più rispetto che all’esterno”.

La sofferenza psichica in carcere

Se per i suicidi i numeri che esprimono i dati di cui abbiamo parlato rappresentano il livello di drammaticità, molte delle ragioni stanno nella sofferenza psichica di cui soffrono tante persone recluse. Quelle detenute e quei detenuti che si sono tolti la vita, in sostanza, erano già malati: tossicodipendenti, pazienti psichiatrici, persone che avevano più volte tentato il suicidio, fuori e dietro le sbarre.

Nel 2023, secondo Antigone, si sono registrati 16 atti di autolesionismo ogni 100 carcerati/e. L’associazione ha più volte sottolineato l’inadeguatezza del sistema penitenziario rispetto a questo problema, soprattutto se si parla di quei detenuti fragili, che soffrono di patologie psichiche o sono dipendenti da sostanze che avrebbero bisogno di percorsi di cura e di una presa in carico che il carcere non riesce a garantire, anche a fronte del numero bassissimo di ore di supporto psicologico e psichiatrico che sono previste: “Spesso la terapia consiste nel mettere il detenuto in isolamento e annichilirlo con gli psicofarmaci. La presa in carico dei sofferenti psichici negli istituti di pena è troppe volte assente, mancano prima di tutto gli psichiatri”. Ma ci sono pure pochi psicologi e gli educatori sono ridotti ai minimi termini. Le risorse sono estremamente limitate e non c’è all’orizzonte un’inversione di tendenza. Dati recenti testimoniano che il 40% della popolazione detenuta assume psicofarmaci, a conferma dello stato di tensione psicologica in cui vivono queste persone. Ma attestano anche il fatto che attraverso una somministrazione così massiccia di tranquillanti e ansiolitici viene praticata una sorta di strategia del controllo.

In numerosi istituti di pena sono carenti i servizi igienici e gli spazi collettivi, una condizione per altro documentata dal “Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani degradanti” che ha chiesto all’Italia di rispettare i servizi basilari essenziali e quindi che “le finestre siano riparate”, “i radiatori funzionino”, garantire il miglioramento della fornitura dell’acqua calda. Le condizioni di salute precarie di cui sono affetti molti reclusi non sono compatibili con la congiuntura perenne in cui versano le italiche prigioni, a partire, in primo luogo dalle carenze dei centri medici penitenziari.

Gli Ospedali psichiatrici giudiziari vennero chiusi il 31 marzo 2015 (in base alla legge 81/2014), nella nostra regione ce n’era uno a Reggio Emilia. L’Emilia-Romagna è stata una delle prime Regioni a dotarsi di strutture sanitarie alternative agli Opg dopo la loro chiusura. Il loro posto avrebbe dovuto essere preso dalle Rems, strutture sanitarie inserite in un programma di riabilitazione gestito dai Dipartimenti di salute mentale delle Ausl di residenza, in stretto contatto con l’autorità giudiziaria.

A Bologna ne venne aperta una in via Terracini: vi entrarono persone che arrivavano dall’Ospedale psichiatrico giudiziario; altre sottostavano a misure di sicurezza, dichiarate socialmente pericolose e incapaci di intendere e di volere al momento in cui avevano commesso il reato (i cosiddetti folli rei). Ma la maggior parte giunsero alla Rems dal carcere.

In un rapporto di Antigone del 2022 si affermava che al 30 novembre 2020, le Rems in Italia erano 31 e ospitavano 551 persone, in gran parte uomini.

Qualche tempo fa la Rems di Bologna è stata chiusa e le persone che erano ospitate sono state trasferite nella nuova struttura di Reggio Emilia che, con i suoi 30 posti, accoglie donne e uomini con problematiche psichiatriche, autrici e autori di reato e socialmente pericolosi/e, da tutta la regione.

Potremmo definirla una “goccia d’acqua” nel mare magnum della sofferenza psichiatrica/giudiziaria.

Il sovraffollamento amplificato dall’aumento di pene e sanzioni

Negli ultimi tempi si è ripreso a parlare di sovraffollamento degli istituti penitenziari. La media è del 118% della capienza occupata, ma in alcuni casi si arriva a molto di più.

Andiamo con ordine: quando fu nominato ministro della giustizia Nordio le detenute e i detenuti erano 55.835. Un anno dopo nelle carceri italiane le presenze arrivano a 58.987 persone, più di 3.000 in soli 12 mesi. Al 31 dicembre 2023, i detenuti presenti negli istituti di pena sono 60.166. Con gli attuali ritmi di crescita, a fine 2024, la condizione sarà drammatica. Progressivamente ci si sta avvicinando ai numeri che nel 2013 provocarono la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’uomo per aver trattato in maniera indegna e degradante le persone recluse, non garantendo lo spazio minimo vitale di tre metri quadrati a persona.

Se gli istituti diventano sempre più affollati la causa dipende dalle conseguenze degli interventi del governo Meloni: solo nel 2023 sono state introdotte 25 nuove fattispecie di reato o per molti di quelli esistenti sono state aumentate le pene.

L’elenco inizia con la legge sui rave party e le pene più severe previste per chi li organizza. Poi c’è il decreto Cutro, che prevede l’aumento delle pene per gli scafisti fino a 30 anni; nel 2022 erano stati arrestati 253 scafisti e 94 trafficanti, per un totale di 347 persone nel corso del 2023 sono stati emessi provvedimenti restrittivi contro “425 scafisti, trafficanti e favoreggiatori nell’ambito del contrasto all’immigrazione clandestina e alla tratta di esseri umani”.

La lista prosegue con la norma sulla violenza agli operatori medici e al personale sanitario; c’è anche il nuovo reato di omicidio nautico, con pene e aggravanti per chi provoca lesioni gravi o morte di persone al timone di un’imbarcazione. Pene esemplari sono previste pure per chi aggredisce i professori. Un’attenzione particolare merita il decreto Caivano, con le sue numerose implicazioni sul sistema penitenziario. Si alzano le pene per lo spaccio di lieve entità: c’è la possibilità di arresto in flagranza e di custodia cautelare in carcere (sia per gli adulti che per i minorenni); per i soli minorenni viene potenziata la facoltà di arresto in flagranza per il reato di “porto d’armi od oggetti atti ad offendere” e si inaspriscono le pene, aumentandole da due a quattro anni. Si introduce la pena fino a due anni di reclusione per i genitori di un minore in età di obbligo scolastico, nel caso di dispersione assoluta e fino ad un anno in caso di elusione dell’obbligo.

Senza dimenticare una serie di disegni di legge, come la proposta di portare a cinque anni di carcere chi esalta condotte illegali sul web o quella che introduce nuove pene da due a sette anni per tutelare la proprietà contro l’occupazione abusiva di immobili.

E, infine, l’articolo di un decreto sicurezza approvato dal Consiglio dei ministri che introduce il crimine di rivolta carceraria, una vera e propria minaccia contro tutta la popolazione detenuta. Il nuovo articolo 415-bis del codice penale punisce fino a otto anni di carcere: “Chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più persone riunite, promuove, organizza, dirige una rivolta”.

In questo contesto pensare che possa avere qualche chance di approvazione la proposta di legge Giachetti-Bernardini è un puro miraggio. Il progetto che è all’esame del Parlamento mira a decomprimere il fenomeno del sovraffollamento, migliorando le condizioni minime di vita nelle carceri, prevedendo “la detrazione di pena, ai fini della liberazione anticipata, da 45 a 60 giorni per ogni semestre di pena scontata”. Un ulteriore punto è quello che “prevede per i due anni successivi alla data di entrata in vigore della legge l’ulteriore elevazione della detrazione di pena ai fini della liberazione anticipata da 60 a 75 giorni”. Sconto calcolato ogni sei mesi, importante “perché sarebbe introdotto con il principio della retroattività”. La Lega respinge la proposta in toto, i 5 Stelle la cassano su molti punti, altrettanto fa Fratelli d’Italia, possibilità di passare bassissime.

Mai così tanti minori in carcere: gli effetti del decreto Caivano

La data del 15 settembre 2023 verrà ricordata a lungo. Con la firma del governo Meloni del cosiddetto decreto Caivano, con l’aumento delle pene previsto e con la possibilità di disporre l’arresto per fatti di lieve entità legati agli stupefacenti, si è prodotto, anche in fase cautelare, un ingorgo negli Istituti penali per minorenni (Ipm) che non si vedeva da anni. Inoltre, ha aumentato la possibilità di trasferire i ragazzi maggiorenni dagli Ipm alle carceri per adulti. L’utilizzo sproporzionato della custodia cautelare rovescia l’intera struttura del Codice di procedura penale minorile del 1988, producendo un innalzamento spropositato degli ingressi in carcere.

Le conseguenze delle misure introdotte da questo provvedimento saranno devastanti sul sistema della giustizia minorile, sia per quanto riguarda l’aumento del ricorso alla detenzione sia sulle caratteristiche dei percorsi di recupero. Al netto del fatto che il numero di reati commessi è rimasto uguale a quello che fu riscontrato nel 2015.

Il decreto Caivano enfaticamente annunciava “misure di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa”, in realtà ha inasprito l’azione penale senza investire nella formazione e nell’accompagnamento alla crescita dei ragazzi che vivono in situazioni di disagio. L’idea del governo che punire sia il modo migliore per rieducare ha fatto tracimare in una cultura punitiva, ingannevole e socialmente dannosa.

Si tratta dell’ennesima iniziativa emergenziale del governo delle destre, le cui politiche aspirano a risolvere tutti i problemi sociali con la repressione e la criminalizzazione dei comportamenti considerati devianti. Anziché intervenire sui servizi per la tossicodipendenza e sull’educazione nelle scuole, si sono inasprite le misure producendo più arresti di minori che consumano sostanze psicotrope e spesso sono coinvolti di striscio nello spaccio.

Nel 7° rapporto di Antigone sulla giustizia minorile si attesta che “a metà gennaio del 2024 i ragazzi, minori e giovani adulti, detenuti nei 17 istituti penali per minorenni del nostro paese erano 496; le donne 13, il 2,6 per cento dei presenti, e gli stranieri 254, cioè quasi la metà. I detenuti ‘definitivi’ erano 156 (numeri analoghi all’anno prima), mentre le persone in misura cautelare sono passate da 243 a 340: la crescita degli ultimi dodici mesi è fatta quasi interamente di ragazzi minorenni e in misura cautelare. Sono oltre dieci anni che non si raggiungeva una simile cifra. Gli ingressi in Ipm sono in netto aumento. Se sono stati 835 nel 2021, ne abbiamo avuti 1.143 nel 2023, la cifra più alta almeno negli ultimi quindici anni. I ragazzi in Ipm in misura cautelare erano 340 nel gennaio 2024, mentre erano 243 un anno prima, segno evidente degli effetti del decreto Caivano…”.

In un’inchiesta della rivista “Altraeconomia” si certifica che anche negli Ipm il consumo di psicofarmaci è elevato. Dai dati che emergono dall’inchiesta, fatta dal mensile in collaborazione con Antigone, risulta che che la spesa pro-capite in antipsicotici è molto simile a quella delle strutture per adulti: la spesa nelle carceri per adulti è di circa 24,5 euro a detenuto per questa famiglia di farmaci (dati 2022); negli Ipm invece è di circa 19 euro.

Secondo Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, “negli Ipm c’è un clima da pronto soccorso e gli operatori non riescono a dare risposte adeguate. Abbiamo trascurato queste strutture negli ultimi anni e ne paghiamo le conseguenze”.

Inoltre, negli ultimi due anni, diversi istituti del Sud Italia hanno dovuto rimediare alla carenza di posti negli istituti del Centro-Nord. Ad essere trasferiti sono stati regolarmente ragazzi di origine straniera: i cosiddetti “minori non accompagnati”. Questa scelta dell’amministrazione penitenziaria ha portato a molte proteste, con atti di autolesionismo e piccoli danneggiamenti delle strutture.

Al minorile di Bologna raddoppiate le presenze, aumentate le sofferenze

La visita dell’associazione Antigone effettuata nei mesi nel carcere minorile del Pratello, ha confermato le criticità che erano già emerse quando il numero dei reclusi era passato da 22 a 40, in seguito dell’ampliamento della capienza regolamentare della struttura, avvenuto all’inizio del 2022. Dal rapporto dell’associazione emerge anche un aumento di accessi e prese in carico al Serdp (il servizio dipendenze patologiche) e ai servizi psichiatrici e di supporto psicologico.

Viene segnalato un aggravamento delle condizioni di sofferenza dei ragazzi reclusi, suffragato dai dati dell’aumento, nel 2023, “sia delle prime visite al Serdp (140), sia delle prese in carico del Servizio (19)”. Risultano aumentate anche “le prese in carico dei servizi di supporto psicologico (40 maggiorenni e 70 minorenni) e le prese in carico dei servizi psichiatrici (32)”.

Rispetto al tema del sovraffollamento, si legge che “all’inizio dell’anno il trend è nuovamente in aumento”. A questo si affianca il problema della “carenza di personale, insufficiente a rispondere all’esigenza di garantire e promuovere progetti educativi, formativi e di sostegno individuale che garantiscano a ciascun detenuto un graduale reinserimento sociale post-pena”. Per quanto riguarda il clima generale, “permane l’impressione che l’istituto si regga su un modello di vita carceraria più compartimentato e rigido che in passato”, con “la separazione sui due piani tra minori e giovani adulti (18-25 anni) che sembra aver provocato una maggiore disregolazione dei comportamenti dei minori”.

Nel dossier di Antigone si registra anche un aumento “delle disposizioni di custodia cautelare” in seguito dell’emanazione del cosiddetto decreto Caivano. Dal rapporto emerge “un aumento di ingressi in Centri di prima accoglienza (Cpa) anche rispetto alla commissione di reati di furto semplice e resistenza a pubblico ufficiale”. Nell’inchiesta dell’associazione rimangono inoltre “significativi gli ingressi dovuti ad aggravamento delle misure”: nella visita effettuata “più della metà dei presenti (23)” erano detenuti in custodia cautelare e sei presenze erano dovute “ad aggravamento della misura del collocamento in comunità, con alcune recidive”.

La situazione che Antigone ha riscontrato è una inversione di tendenza rispetto “al decremento costante dell’incidenza degli ingressi in Cpa per fermo e arresto dal 2007 al 2021”, per l’associazione sembrano saltati i “principi cardine di adeguatezza delle misure e residualità della pena che avevano orientato il trend degli anni precedenti”.

Insomma, anche al Pratello il cambiamento del clima, derivato dalle direttive politiche del governo, è piuttosto evidente.

Il carcere della Dozza al limite del collasso

Alla Dozza a sconvolgere ancora di più una situazione tante volte denunciata come esplosiva sono state le morti di due detenute avvenute alla fine di marzo (una per suicidio, l’altra deceduta per “cause naturali”). Subito dopo, sempre nel reparto femminile, c’è stata la presa di posizione dell’Unità operativa di Psichiatria forense del dipartimento di Salute mentale dell’Ausl: “Le detenute affette per lo più da patologia psichiatrica severa, sono recluse in un ambiente limitato e con minime interazioni sociali dove sono limitate profondamente le attività riabilitative implementabili dal personale sanitario in servizio e in tale contesto si sono visti aumentare gli episodi di tensione, irritabilità e impulsività”.

L’Ordine degli avvocati di Bologna ha chiamato in causa il sindaco Matteo Lepore, che “ha la responsabilità della salute di tutti i cittadini, perché sappia che a Bologna c’è un luogo dove le vite valgono molto meno di altri luoghi della stessa città e si spengono per mancanza di speranza… e dove vi sono condizioni non degne di un Paese civile”.

L’ultima visita effettuata dall’associazione Antigone alla Casa circondariale di Bologna ha permesso di rilevare che nel carcere della Dozza si registrano 854 presenze (773 uomini e 81 donne), a fronte di una capienza regolamentare di 500 posti: “Il numero complessivo delle presenze è in netta crescita se si considera che solo da dicembre ad oggi si è registrato un incremento di circa 50 unità. Alto, inoltre, è il numero delle persone con condanna definitiva pari a 467, rispetto alle quali ci viene riferito che sono molte le persone che devono scontare pene brevi”.

Per quanto riguarda i “problemi strutturali”, nella nota dell’associazione si legge: “I locali doccia sono tutti gravemente insalubri: vi sono diffusi problemi di muffa verde sulle pareti e sui soffitti, muri fortemente scrostati e privi di intonaco, canalette di scolo danneggiate. Ci viene riferito di un recente intervento di manutenzione straordinaria alla caldaia, tuttavia al momento della visita mancava l’acqua calda in tutto il reparto maschile. Ci viene riferita la sospensione dei lavori di ristrutturazione dei locali docce a causa del sovraffollamento penitenziario che non consentirebbe di procedere alle necessarie chiusure temporanee degli spazi interessati dai lavori”.

Non risulta migliore la situazione delle celle: “Il mobilio appare tendenzialmente vetusto, inoltre alcuni materassi si presentavano ammuffiti. Le finestre non permettono un adeguato isolamento dall’esterno, tanto che in alcuni casi entrava l’acqua piovana (questo anche all’interno di un locale dell’area sanitaria)”.

Nel reparto femminile viene segnalata “la presenza di due donne con due bambini di pochi mesi al seguito che hanno fatto ingresso da pochi giorni e sono collocate nella sezione nido”.

Sulla situazione del carcere di via del Gomito è intervenuta anche la Camera Penale: “Nelle visite periodiche che il nostro Osservatorio ha svolto all’interno del carcere, tra le quali l’ultima pochi giorni fa, congiuntamente con il Consiglio dell’Ordine di Bologna, sono state constatate, oltre all’allarmante dato delle presenze tra i reparti maschile e femminile, le drammatiche condizioni delle sezioni collocate nel secondo piano giudiziario, che, ai nostri occhi, è apparso come ‘discarica sociale’, dove sono collocati per lo più stranieri senza alcun collegamento familiare o sociale, e dove risultano anche precarie le condizioni igienico sanitarie delle docce comuni, aree malsane con piastrelle e pareti ammuffite e maleodoranti. I detenuti passeggiano avanti e indietro nei corridoi delle sezioni, sopraffatti dall’abulia ed abbandonati a loro stessi, a dispetto della funzione rieducativa della pena, che appare sempre di più un concetto astratto invece che un dettato costituzionale che è e dovrebbe fungere da faro nell’ambito dell’esecuzione della pena”.

Nell’ultimo rapporto sulle carceri in Emilia-Romagna, sulla casa circondariale di Bologna, Antigone ha scritto che è “pesantemente sovraffollata… al 163,5%”. Nel suo rendiconto, l’associazione rimarca che “le condizioni di detenzione non dipendono solo dal numero delle persone ristrette e dalle loro caratteristiche, ma anche da come sono ristrette… l’orientamento di alcune prigioni (ad esempio Reggio Emilia e Bologna) è che si sta virando verso un irrigidimento delle condizioni di detenzione”.

Appare invece “parzialmente rientrata l’emergenza, segnalata nel 2022, rispetto alle pesanti carenze negli organici del personale sanitario”, così come “risulta ridimensionato, per effetto dei recenti concorsi, anche il drammatico sotto-organico registrato l’anno scorso tra gli educatori”.

Tra i problemi più gravi, Antigone cita il fatto che “tutte le docce comuni sono umide e con i muri gravemente ammuffiti”, la presenza di “topi e scarafaggi segnalata in diverse sezioni”, la scarsa qualità del vitto e l’impossibilità di usufruire di lavatrici lamentate dai detenuti. In generale, si legge nel report, “abbiamo riscontrato una situazione particolarmente disomogenea tra le sezioni: il clima appare più disteso in alcuni reparti a ‘trattamento avanzato’, mentre una situazione decisamente più problematica si percepisce in alcuni spazi destinati al ‘trattamento ordinario’, con diverse celle che appaiono completamente buie e silenziose”.

A più riprese la Camera Penale ha rimarcato la gravità della situazione: “E’ evidente che qualunque tentativo di ‘ridurre il danno’ da parte dell’Amministrazione penitenziaria locale non può che sottolineare la necessità di un intervento urgente della politica e delle Amministrazioni anche locali, che affronti il tema della dismissione di edifici fatiscenti, inadatti ad applicare un regime decoroso di vita penitenziaria, la cui manutenzione è dispendiosa e spesso inutile, e di aprire spazi meno avvilenti all’espiazione della pena, laddove davvero necessaria e non sostituibile con misure altre, e di dotare questi spazi di personale adeguato. Non basta affermare che in carcere forse non si scende sotto lo spazio minimo vitale dei 3 mq a persona detenuta: chiunque ha il potere e il dovere istituzionale di vigilare e di intervenire vada a constatare qual è lo stato attuale della detenzione nel carcere della Dozza (come altrove), e agisca di conseguenza… A fronte di quanto rilevato, dobbiamo ricordare che ogni istituto detentivo è un luogo di privazione della (sola) libertà personale e non certo degli altri diritti inviolabili dell’uomo, quali la salute e la dignità”.

Non c’è più tempo

Hanno ragione i combattivi avvocati bolognesi: “Non c’è più tempo! Chiediamo alla politica provvedimenti urgenti per alleggerire la pressione nelle carceri, alla magistratura di cognizione una prudente applicazione delle misure cautelari in carcere; chiediamo alla magistratura di Sorveglianza maggiore coraggio nel concedere misure alternative alla detenzione, e chiediamo a tutte le Istituzioni coinvolte, anche del territorio, di adottare ogni utile provvedimento per fermare questa inarrestabile cronaca di morti annunciate e di farlo ora!”.

Il populismo penale, negli anni dominante, ha trasformato il diritto penale nello strumento primario di risoluzione dei conflitti. Un simile strumento è la constatazione del fallimento di quel ruolo proattivo che dovrebbero avere la politica e la gestione pubblica del territorio, ma è anche l’ennesimo segnale in cui nella società diventano sempre più centrali “l’idea della detenzione” e l’aumento dell’area del controllo.

Senza dubbio c’è una buona parte della società che sa poco la situazione nelle carceri, e non sa quasi nulla dell’emarginazione e dell’abbandono che che vi regnano.

Così come sono pochi i giornalisti a cui interessa documentare la situazione all’interno delle istituzioni penitenziarie, per questo le iniziative, le battaglie, le denunce delle associazioni e delle realtà collettive che le portano avanti vanno sostenute.

Sono tanti i luoghi comuni che vanno avversati… Prendiamone uno sentito tante volte: “se andrai in galera, te le porto io le arance”… Eh no, le arance, così come sono, non passano i controlli. Devono essere sbucciate una per una, poi vanno divise a spicchi e messe un in un contenitore trasparente per essere controllate… Forse così, ma non è sicuro, potranno arrivare…