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Strage, la sentenza è “un punto fermo”: D’Amato e Gelli sono i mandanti

La Corte d’Assise ha pubblicato le motivazione della pronuncia con cui un anno fa condannò in primo grado all’ergastolo l’ex militante di Avanguardia nazionale Paolo Bellini, figura che “conferma il collegamento tra l’azione della manovalanza neofascista e l’eterodirezione occulta e il finanziamento da parte di centri di potere”.

06 Aprile 2023 - 17:38

“L’ipotesi sui ‘mandanti’ non è un’esigenza di tipo logistico-investigativo, ma un punto fermo”. È un passaggio della motivazione della sentenza di condanna pronunciata un anno fa della Corte d’Assise sull’attentato che il 2 agosto 1980 causò 85 morti alla stazione Centrale.

La strage, scrivono i giudici, “ha avuto dei ‘mandanti’ tra i soggetti indicati nel capo di imputazione”, cioè i capi della P2 Licio Gelli e Umberto Ortolani, quello dell’Ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato, il senatore del Msi Mario Tedeschi, tutti e quattro deceduti, “nomi e cognomi nei confronti dei quali il quadro indiziario è talmente corposo da giustificare l’assunzione di uno scenario politico, caratterizzato dalle attività e dai ruoli svolti nella politica interna e internazionale da quelle figure, quale contesto operativo della strage”. Prosegue la Corte: “si è finalmente giunti a porre un punto fermo che considera la strage del 2 agosto 1980 come il momento conclusivo, sia pure sui generis e atipico rispetto ai momenti precedenti, della cosiddetta ‘strategia della tensione'”, ed è “ormai appurato che gli esecutori materiali non agivano nel vuoto di strategia e fuori dai contesti politici nazionali e probabilmente internazionali”. Gli esecutori “erano strettamente collegati a chi la strage aveva deciso, agevolato e finanziato”, e “l’inserimento della strage in un contesto assai più ampio della semplice azione dello ‘spontaneismo armato’ finisce con l’aggiungere senso a quell’azione e al ricorso, anch’esso strumentale, alla manovalanza fornita dall’estremismo nero”. Le cause dell’attentato “vanno trovate nella complessa realtà politica di quegli anni”, ma “qui abbiamo accertato che Gelli, la P2, i servizi segreti e quel centro occulto di potere coagulatosi intorno a D’Amato avevano gestito e destinato ingenti somme di denaro all’esecuzione di un fatto che gravi e convergenti indizi indicano nella strage di Bologna”.

Sulla figura di Paolo Bellini, l’ex militante neofascista di Avanguardia nazionale condannato come esecutore della strage, per la Corte “si deve ritenere raggiunta la prova che fece parte del commando che eseguì materialmente la strage del 2 agosto 1980, con mansioni esecutive e di raccordo con gli altri concorrenti”, cioè i componenti dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar), altra organizzione neofascista dell’epoca, Francesca Mambro, Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini (tutti e tre già condannati in via definitiva) e Gilberto Cavallini (condannato in primo grado)”, ma non solo: per i giudici si intravede “come il numero delle persone coinvolte nell’organizzazione dell’atto terroristico fosse davvero importante”. Dopo avere passato in rassegna le evidenze raccolte in fase dibattimentale, la Corte scrive che la figura di Bellini è “la conferma del collegamento tra l’azione della manovalanza neofascista e l’eterodirezione occulta (e il finanziamento) da parte di centri di potere che quella manovalanza riuscivano a controllare e indirizzare attraverso una serie di mediazioni”. La corte ritiene certa anche la partecipazione alla fase esecutiva dell’attentato di Sergio Piccifuoco, deceduto a marzo 2022, soggetto proveniente dalla criminalità comune ma la cui “militanza nella destra terroristica deve ritenersi pienamente provata”.

Infine, dalle motivazione emerge che rischiano di essere indagati per frode in processo penale, e per falsa testimonianza i tre tecnici della Polizia scientifica di Roma Fabio Giampà, Stefano Delfino e Giacomo Rogliero, che nell’ambito delle indagini che hanno portato all’imputazione di Bellini hanno lavorato su un’intercettazione ambientale risalente al  18 gennaio 1996 in  cui il leader veneto di Ordine nuovo (ancora un’altra formazione neofascista), Carlo Maria Maggi, parlando della strage del 2 agosto con la moglie e il figlio, dice “ma in pratica già qua nei nostri ambienti… erano in contatto con il padre di ‘sto aviere… e dicono che portava una bomba”, affermando inoltre di essere sicuro del coinvolgimento di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti nell’attentato. Incaricati solo di ripulire l’audio, andarono oltre il loro compito e ne esaminarono il contenuto, scrivendo poi nella loro relazione che “all’esito del filtraggio la parola ‘aviere’ doveva essere invece intesa come ‘corriere’, conclusione assolutamente distonica rispetto a quelle del perito nominato dall’Autorità giudiziaria milanese (in un altro processo, ndr) e dal consulente della Procura generale”. Ma ciò che “appare ancora più sorprendente è che la conclusione della Polizia scientifica trova secca smentita alla luce dell’esperienza diretta della Corte d’Assise, che ascoltando in aula e in Camera di consiglio la registrazione il 29 ottobre 2021 ha potuto distintamente udire che la parola pronunciata da Maggi era pacificamente ‘aviere’ e non ‘corriere'”

Per i giudici “ci si deve domandare anzitutto perché e per ordine di chi l’abbiano fatto”, visto che “appare singolare e forse anche paradossale che abbiano, senza esserne richiesti, esaminato di iniziativa il contenuto della conversazione”. Ciò che, secondo la Corte, “induce gli interrogativi più inquietanti”, è il contenuto della frase che hanno estrapolato: non più ‘il padre di ‘sto aviere’, ma ‘lo sbaglio di un corriere’. Questo perché, ricordano i giudici, “nell’ambito delle diverse varianti che caratterizzarono la cosiddetta ‘pista palestinese‘ si giunse ad ipotizzare che la strage fosse stata determinata dall’esplosione involontaria (‘lo sbaglio’) di un ordigno detenuto da un incaricato dei palestinesi in transito a Bologna (‘un corriere’)”.