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Quelli che… buttiamo via la chiave / Parte III

Approfondimento realizzato da Zeroincondotta dopo le rivolte che in piena emergenza coronavirus sono scoppiate nelle carceri di tutta Italia, compresa la Dozza di Bologna. In questa terza parte: il ruolo della magistratura di sorveglianza e quello dei Garanti dei detenuti.

25 Marzo 2020 - 11:43

La diffusione drammatica del coronavirus ha investito anche le carceri italiane, sono esplose rivolte sono morti 13 detenuti. L’emergenza sanitaria sortisce l’effetto di rafforzare lo stato d’eccezione, a spese dei più deboli, repressione e contenimento sono ancora la ricetta. L’urgenza di una campagna per l’amnistia, l’indulto e per misure alternative alla detenzione.

Quella che segue è la terza parte dello speciale realizzato da Zeroincondotta.

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La magistratura di sorveglianza

Nei giorni successivi alle rivolte l’organo di rappresentanza dei magistrati di sorveglianza (Conams), sottolineando anche il “rischio rebound del contagio penitenziario sull’intero sistema nazionale e sulla salute collettiva dei cittadini” ha fatto uscire un documento “nella prospettiva – di esclusiva competenza delle autorità politiche – di un piano ragionato, ordinato e non indiscriminato di scarcerazioni che almeno riporti il sistema penitenziario entro la sua capacità regolamentare, con strumenti ordinari e straordinari sia nel campo delle misure cautelari sia in quello delle misure alternative alla detenzione”. Il Conams si è poi offerto di collaborare per redigere un piano di “misure serie e celeri di prevenzione e di contenimento della diffusione virale nelle carceri”.

Antigone questa presa di posizione l’aveva sollecitata: “Ci rivolgiamo ancora a tutti i magistrati di sorveglianza, anche attraverso le loro rappresentanze, affinché capiscano la situazione drammatica di questo momento e facciano uno sforzo nella concessione di misure alternative. Evitiamo che le carceri diventino luoghi di tensione e di sofferenza estrema, facciamolo nel nome dei diritti dei detenuti, dei loro parenti, ma anche del personale penitenziario”.

Ma ci sono altri, soprattutto avvocati impegnati nelle associazioni che sostengono i diritti dei detenuti, che rimangono convinti che il Conams, pur con colorature garantiste, pur con la presenza di singoli magistrati illuminati, nella sostanza rimanga un organismo pro sistema carcerario. A sostegno di questi ragionamenti viene portata la posizione del Conams a difesa della riforma del 41 bis nel 2009.

L’istituto della magistratura di sorveglianza venne istituito dalla legge 26 luglio 1975, n. 354, la cosiddetta “Riforma penitenziaria”, che poi venne rimodulata dalla cosiddetta “Legge Gozzini” del 1986 (insieme alla legge 194 sull’aborto e allo Statuto del lavoratori, è stata una delle leggi più contrastate dalla quasi totalità del sistema politico, per l’eccessiva liberalità). Si trattava è bene ricordarlo di una riforma penitenziaria che in qualche modo intendeva rispondere al movimento di lotta delle carceri dei primi anni Settanta.

Il compito dei magistrati di sorveglianza, lo dice la stessa denominazione, è quello di “sorvegliare” l’esecuzione delle pene, di vigilare sull’organizzazione degli istituti di prevenzione e pena, e prospettare al ministero della Giustizia le esigenze relative alla rieducazione e alla tutela dei diritti di quanti sono sottoposti a misure privative della libertà.

La magistratura di sorveglianza si occupa inoltre della concessione e revoca delle misure o pene alternative alla detenzione in carcere (affidamento in prova ordinario e particolare, semilibertà, liberazione anticipata, detenzione domiciliare, liberazione condizionale, differimento della esecuzione delle pene).

Cose di non poco conto, e se la situazione nelle carceri in questi anni si è aggravata a dei livelli insostenibili anche questo organismo ha le sue responsabilità, subendo largamente le suggestioni del clima giustizialista e manettaro che si è vissuto nel paese.

Soprattutto sulla concessione delle misure alternative, quando lo si è fatto, si sono dilatati abbondantemente i tempi per l’autorizzazione dei provvedimenti, rispetto a quelli previsti dalla legge. Soprattutto le decisioni sono state influenzate più che dai comportamenti tenuti dai soggetti durante la detenzione, dal loro approccio con il reato commesso (per il quale hanno già ricevuto una condanna definitiva che ha già tenuto conto di questo). Molto spesso il Tribunale di sorveglianza è diventato un quarto grado di giudizio dove il “pentimento attivo” del condannato diventa elemento discriminante nella concessione della misura alternativa. Poi ci sono state le influenze da retorica salviniana, sarebbe bene fare una verifica sulle disparità di trattamento tra detenuti italiani e detenuti stranieri (a parità di pena scontata e diritto alla misura alternativa).

La legge pone al magistrato di sorveglianza l’obbligo di andare frequentemente in carcere e di sentire tutti i detenuti che chiedono di parlargli, che questo mandato sia stato portato avanti in maniera adeguata rispetto agli organici dei tribunali è tutto da dimostrare. Un esempio concreto, tra i tanti che si possono fare: nel mese di dicembre sono andati in pensione i due magistrati del Tribunale di sorveglianza (un evento che si programma per tempo) e, fino alla fine di febbraio, non erano stati sostituiti. Quindi, tutte le nuove istanze dei tenuti non si sono potute presentare.

Un’ultima cosa: si blatera tanto di sicurezza in questi anni, si dice che il “buttare via la chiave” è l’approccio giusto rispetto a delinquenti che usciti dal carcere ricadono in recidiva per il 75%. Perché nessuno si è preso la briga (e avrebbe dovuto farlo la magistratura di sorveglianza anche a tutela del suo lavoro) di verificare di quanto si riduce questa percentuale per i detenuti in misura alternativa attivati in percorsi di reinserimento seri?

 

Il Garante dei detenuti

In queste settimane, rispetto a quello che è successo nelle carceri italiane, in tanti si sono chiesti dove erano i “Garanti delle persone private della libertà”, una figura di garanzia dei diritti dei detenuti che molti paesi europei prevedono da tempo. In Italia il percorso avviato fin dal 1997, prima coi Garanti comunali, poi in alcune regioni con quelli regionali e, poi, alla fine del 2013, con l’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.

Il Garante è un organismo indipendente che ha il compito di monitorare i luoghi di privazione della libertà (oltre al carcere, le celle di sicurezza di polizia, i centri di detenzione per i migranti, le residenze per le misure di sicurezza).

Compito del Garante è individuare eventuali criticità e proporre soluzioni per risolverle. Inoltre, presso le istituzioni totali sulle quali esercita il proprio controllo, il Garante nazionale ha il compito di risolvere quelle situazioni che generano occasioni di ostilità o che originano reclami proposti dalle persone ristrette, mentre i reclami giurisdizionali sono compito del magistrato di sorveglianza.

Il Garante, dunque, dovrebbe operare per il rispetto della dignità di chi è privato private della libertà personale, svolgendo anche attività di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani e cercando di avvicinare la comunità locale al carcere.

Ha perciò tutte le caratteristiche della stonatura la dichiarazione del Garante nazionale, nei giorni delle proteste: “I detenuti per primi devono capire che va interrotta questa catena di eventi, perché nuoce a tutti, per primi a loro, che già vivono in condizioni difficili. Gli va anche fatto capire che c’è un impegno concreto per salvaguardare la loro salute. Il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ha formato una task force di cui faccio parte anche io per affrontare la questione”.

Insomma, il Garante entra nella task force del ministero e questo fatto dovrebbe essere la “garanzia” che Bonafede è uno che si impegna per i diritti dei detenuti… C’è da stare freschi (al fresco)…

In molti si sono domandati perché mai tanti Garanti non hanno detto nulla dopo le giornate dell’8/9/10 marzo. L’Associazione Bianca Guidetti Serra il 18 marzo ha scritto una lettera ai Garanti dell’Emilia-Romagna e a quello nazionale chiedendo se hanno svolto visite nelle carceri della regione per verificare le condizioni di salute e di incolumità dei detenuti nelle giornate successive alle proteste. La missiva chiede anche di verificare “lo stato di salute e di incolumità dei detenuti trasferiti e che non siano stati attuati nei confronti dei detenuti trattamenti crudeli, inumani e/o degradanti”. Infine l’associazione ha chiesto di avere informazioni sullo “stato delle misure di prevenzione igienico/sanitaria adottate nelle suddette carceri a fronte dell’emergenza coronavirus”.

Insomma, si tratta di iniziative che i Garanti avrebbero dovuto fare senza essere “esortati”, ma se le sollecitazioni qualcuno le fa, significa che qualcosa o diverse cose non hanno girato come dovevano.

(continua)