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Il mercato non è mai la soluzione

Inchiesta sull’emergenza abitativa a Bologna (prima puntata): l’assenza delle varie amministrazioni comunali, gli affittacamere e gli strozzini, gli immobiliaristi ciellini, il potere immobiliare della Chiesa, le multinazionale dello student housing.

28 Ottobre 2022 - 10:58

Il perdurante disagio sociale prodotto dall’emergenza abitativa in questa città non è colpa del destino cinico e baro, non è stato causato da una calamità: a Bologna negli ultimi decenni non ci sono state alluvioni disastrose o terribili terremoti.

Se trovare una casa in affitto sotto le Due Torri è ormai impossibile per una studentessa fuori-sede, per un giovane lavoratore proveniente da altre regioni d’Italia, per un operaio migrante, per una famiglia con redditi da lavoro dipendente, la responsabilità è di chi, di volta in volta, è subentrato al governo cittadino e ha proseguito nelle politiche abitative degli esecutivi precedenti.

E’ una storia che si riproduce da ormai cinquant’anni e dalla quale nessun pubblico amministratore che ha seduto o siede a Palazzo d’Accursio si può sottrarre.

Zero in condotta lo denuncia da anni

Nel giugno del 1997, in un’inchiesta su Zero in condotta, scrivevamo: «Il Comune di Bologna risulta latitante almeno da un ventennio. L’ultima politica di intervento pubblico sul problema casa risale agli anni ‘70 quando l’allora assessore Cervellati “ordinò” il risanamento del centro storico. All’epoca, il Comune investì nell’acquisto dei tanti immobili degradati, si sobbarcò i costi di ristrutturazione, mantenendo in locazione gli inquilini originari. Con l’esplosione del terziario, il centro storico iniziò il suo percorso di trasformazione verso una, più propriamente definibile, grande vetrina. La conseguente fase speculativa lasciò i vecchi inquilini con un’amara sorpresa: “normali” abitazioni divenivano di lusso mentre altre venivano destinate ad uso ufficio o comunque non abitativo. Tutti coloro che non potevano permettersi una più agiata sistemazione dovettero scontrarsi, nel migliore dei casi, con un aumento generalizzato dei canoni d’affitto».

In quel servizio si parlava del fatto che il nostro Paese, all’epoca (ma è così ancora oggi), deteneva il primato per la più bassa incidenza di patrimonio pubblico fra gli altri membri dell’Unione Europea. Questo si traduceva, in Emilia-Romagna, con un’offerta pubblica di alloggi Erp che si aggirava su un misero 6%-7% sul totale degli alloggi.
Veniva poi reso noto che un censimento del 1991, effettuato dal settore Pianificazione e Controllo del Comune di Bologna sulle abitazioni, dava uno specchio preciso delle dinamiche demografiche che erano presenti in città: mentre diminuiva il numero di famiglie, era in aumento quello degli appartamenti abitati da non residenti, lavoratori e studenti fuori-sede.

Le politiche economiche degli anni ‘90 poi fecero il resto, implementando la “produzione di casi sociali” tra cui emergevano i lavoratori d’immigrazione extraeuropea, le donne sole con figli a carico, gli anziani, in particolare quelli che avevano subito l’esodo coatto dal centro storico degli anni ‘70/’80 (che con l’esplosione del terziario aveva subito una trasformazione speculativa da luogo di residenza a “grande vetrina”). In quegli anni, inoltre, cominciarono ad essere sempre più frequenti i casi di profonda emarginazione, legati a fenomeni sociali come le tossicodipendenze, il disagio mentale, le povertà estreme.
Quella fu anche l’epoca della “deregulation” e del libero mercato che doveva, a tutti i costi, superare la nefasta (per i proprietari) legge sull’equo canone e, infatti, ci fu l’introduzione dei cosiddetti “patti in deroga” (tipi di contratto, secondo cui l’ammontare del canone era concordato tra il proprietario e l’inquilino, con quest’ultimo con un potere contrattuale pari a zero). Quello che si produsse fu un aumento generalizzato degli affitti. Anche un’indagine sul disagio abitativo a Bologna, condotta dal Sunia nel 1996, confermava questo dato rivelando che, nel bando per gli alloggi Erp, la forte incidenza del canone d’affitto – circa il 30% – sul reddito costituiva il motivo più diffuso nelle richieste di un alloggio pubblico.
 Di fronte a questa situazione, l’amministrazione comunale che rimase in carica fino al 1995, l’unica cosa che fece per affrontare il dilagante disagio abitativo fu l’inaugurazione di un sistema di semplici “pubbliche relazioni”: uno sportello cittadino di segnalazione di casi sociali dal quale ci si poteva aspettare nient’altro che un po’ di compassione.

Con l’avvento della seconda giunta Vitali, l’assessorato alla casa fu incorporato nell’urbanistica, e l’assessore Laura Grassi, a cui venne data la delega, cercò di limitare l’attività dello sportello, proponendo la mera gestione dell’esistente, con una fiducia smisurata nei meccanismi del libero mercato. Grassi sosteneva che potevano essere raggiunti grandi risultati attraverso un ampliamento delle concessioni edilizie. La sua tesi era che incentivando i costruttori e sciogliendoli dai vincoli di un rigido piano regolatore, si poteva garantire un notevole abbassamento dei prezzi delle abitazioni, facendo diventare reale un obiettivo come la casa in proprietà per tutti. Dal principio della pianificazione che concepiva il suolo come bene pubblico a gestione collettiva si passò alla pratica dell’edilizia concordata, incarnata nei Piani Integrati di Intervento che cedevano ai privati e alla loro inevitabile logica di profitto la gestione del problema abitativo e del deturpamento dell’ambiente. In quegli anni vennero costruiti in media di 500 nuovi appartamenti all’anno, ma quasi nessuno di questi venne destinato all’affitto sociale o all’edilizia popolare.
Quella impostazione urbanistica che produsse obbrobri urbanistici, come il Duc Fiera (con gli effetti ancora oggi visibili di “Porta Europa”), Borgo Masini e via Larga, non fu frutto del caso, né tantomeno della mano invisibile del mercato, ma discendeva da un accordo tra il ceto politico e i poteri forti della città, in primo luogo i costruttori, ben rappresentati dai colossi cooperativi del mattone.

Centro-sinistra / centro-destra / centro-sinistra: non è mai cambiato nulla

Le scelte dell’Ulivo furono “cementificate”, è proprio il caso di dirlo, dalle politiche della giunta Guazzaloca nei suoi cinque anni di governo, dal 1999 al 2004. E forse non è un caso se sull’urbanistica si assistette a convergenze preoccupanti tra la giunta di centro-destra, parte dell’opposizione diessina e la Provincia, governata dall’Ulivo, che diede il nulla osta a una serie di operazioni edilizie non necessarie e che ubbidivano solo a interessi speculativi: un esempio su tutti, le due torri dell’Unipol, nell’ex area della Barbieri e Burzi, in via Larga.

Nel frattempo, nella graduatoria Erp (bando 2000/2003), su 5.705 domande valide, solo 1.373 (il 24%) trovarono una risposta; 4.332 nuclei familiari rimasero in lista d’attesa senza sbocco.

La giunta Guazzaloca, pur avendo sempre negato l’esistenza di una “emergenza abitativa” in città, in un documento dell’assessorato alla Casa del luglio 2003, dovette ammettere: «A Bologna le famiglie con redditi minimi e bassi sono del tutto escluse dal libero mercato dell’affitto in quanto i canoni sono superiori ai redditi stessi o incidono per una percentuale tale che non consente di destinare il reddito residuo agli altri consumi. Le famiglie con redditi medio-bassi possono accedere al mercato solo per alloggi di taglio piccolo. Con redditi alti e medio-alti è possibile accedere al mercato locativo solo per alloggi di taglio piccolo e medio. Gli alloggi grandi sono inaccessibili anche per i redditi alti, in quanto il canone medio annuo rappresenta il 39% del reddito complessivo».

A partire da questi elementi, la giunta Cofferati, insediatisi nel 2004, annunciò all’inizio del mandato di “prendere il toro per le corna”. Infatti, nell’accordo sottoscritto, tra il Comune e i sindacati, prima dell’approvazione del Bilancio 2004, si parlava della realizzazione di 1.500 posti letto per studenti e 3.000 alloggi per l’edilizia convenzionata con affitto a canone calmierato. Non si vide niente di tutto questo, ben presto il “sindaco sceriffo” abbandonò questi propositi e si concentrò, nell’ambito della sua campagna di “moralizzazione e legalità”, a colpire alcune decine di occupazioni di alloggi Erp vuoti da anni.
 Venne a più riprese alimentata la favola che le occupazioni toglievano la casa ai legittimi assegnatari. La storia del movimento della casa a Bologna dimostrava il contrario: era stato così per la grande occupazione del Pilastro del 1971 fatta da famiglie meridionali, quella dei due palazzoni di via Stalingrado nei primi anni novanta da parte di migranti di origine magrebina, quella di via Rimesse (poi via del Pallone e via Altura) del 1998 da parte di famiglie di immigrati, quella di un grande immobile privato in via Saffi 17 , quella del 2002 del Ferrhotel da parte dei rom rumeni cacciati dal Lungoreno.
La dimostrazione che non erano le occupazioni a portare via la casa a chi ne aveva diritto, ma l’ignavia dei governanti, risultò lampante nel corso del mandato Cofferati dove si passò dai 643 alloggi vuoti dell’inizio agli 850 della fine del mandato (con tutte le occupazioni tolte di mezzo).

Il caso di “mister residence”: uno strano modo di fare il benefattore

Chi era stato al governo della città si era sempre limitato a ragionare sul fatto che il 70% della popolazione bolognese era rappresentato da proprietari di casa e, in tal modo, si costruì un muro di indifferenza nei confronti del restante 30% che non la possedeva.

Sul finire degli anni novanta, la fascia degli esclusi e dei dimenticati dalle politiche di welfare si fece sempre più ampia: agli immigrati si aggiunsero i nuclei familiari monoreddito, le giovani coppie, gli anziani rimasti soli, i giovani senza possibilità di certificazione del reddito, i lavoratori e gli studenti fuori-sede.

Tutti questi soggetti, non trovando una adeguata risposta pubblica, erano spesso costretti a situazioni alloggiative vergognose che contribuirono ad alimentare la rendita speculativa.

A Bologna, in quegli anni, ci fu chi sul bisogno abitativo dei soggetti sociali più deboli lucrò in totale libertà.

Il caso più eclatante è sicuramente quello di Marzaduri, il re degli affittacamere, il “mister residence” della Bolognina che, acquistando interi palazzi in via Barbieri, via Spada, via Andrea da Faenza, via Tibaldi e in via del Ravone creò un vero e proprio impero dell’affitto “anomalo”.

Dopo aver sfrattato i vecchi residenti, in quelle centinaia di alloggi creò il maggior numero di posti letto possibili. Marzaduri arrivò a locare come dimora anche le cantine e riuscì nell’intento di ricavare il massimo profitto da ogni centimetro quadrato di superficie, affittando dai sottotetti agli scantinati. Facendosi pagare lautamente il posto letto mise sul mercato sistemazioni abitative precarie e malsane, con gradi di disagio inconcepibili per “abitanti normali”.

Per molti (soprattutto ex studenti fuori sede) il cognome Marzaduri è stato sinonimo di affarismo e speculazione. Questo signore, nel corso degli anni, si specializzò in locazioni di camere e appartamenti per studenti universitari, costruendo un “inattaccabile” sistema di intermediazione capace di produrre quote elevatissime di reddito.

A dispetto delle evidenze, Marzaduri era convinto di esercitare una funzione di tipo sociale, sostituendosi all’istituzione pubblica, rispondendo a un bisogno reale (la mancanza di case), con con l’obiettivo di produrre ricchezza per sé.

Per intenderci… Marzaduri era un dritto, il suo motto era: “Noi non siamo santi, lavoriamo per vivere, ma non strozziamo nessuno”. La sua attività fu diverse volte soggetta ad “attenzioni” da parte dell’autorità giudiziaria, ma le decine di ricorsi effettuati da suoi inquilini per ottenere l’applicazione dell’equo canone, non ottennero mai nessun risultato.

Numerosissime furono le diffide, le ingiunzioni, i provvedimenti di sospensioni dei lavori fatti all’interno dei locali, le oblazioni con ammenda, ma Marzaduri la fece sempre franca: i contratti “misti tipo residence” della sua agenzia Modernabitat risultarono sempre regolari.

Ogni volta che si andò in causa i giudici riconobbero l’inapplicabilità dell’equo canone, in quanto lui e la sua agenzia si configuravano come gestori di residence. Il “benefattore” riuscì sempre a dimostrare che nel costo della retta d’affitto la quota relativa ai servizi prestati (un rotolo di carta igienica, qualche posata e qualche piatto) superava quella per la vera e propria locazione d’immobile.

Questo fu il modo, “assolutamente legale”, attraverso il quale “mister residence” riuscì a far sì che appartamenti sottoposti a equo canone rendessero molto di più affittandoli a tanti soggetti (meglio se studenti) con contratti misti “tipo residence” (con durata limitata e temporanea, rinnovabile di mese in mese durante lo stesso anno accademico, per la cui disdetta era necessario un preavviso di tre settimane). In Italia all’epoca non esisteva una legislazione relativa ai residence e non era necessaria una licenza di affittacamere per ospitare in locali di proprietà privata (muniti di abitabilità) delle persone.

Ci fu un lungo contenzioso che durò quasi 20 anni e solo nel mese di giugno del 2011 si concluse con la revoca dell’abitabilità alle cantine che venivano affittate dall’immobiliarista come alloggi.

Il primo giornale a parlare delle vicende riguardanti Marzaduri fu Mongolfiera nel 1991, qualche anno dopo Zero in condotta riprese più volte il caso con ripetuti servizi e articoli, per la stampa quotidiana l’affittacamere della Bolognina non fu mai elemento di interesse e sugli episodi che lo videro protagonista l’attenzione fu molto scarsa.

Le residenze collettive e gli imprenditori immobiliari ciellini

Un aspetto dell’emergenza abitativa mai preso seriamente in considerazione è quello delle residenze collettive. Si tratta di una questione da sempre osteggiata da tutte le amministrazioni comunali che si sono succedute al governo della città negli ultimi dieci lustri. C’è sempre stata una scarsissima attenzione o, addirittura, tante giunte hanno contrastato l’apertura di strutture abitative pubbliche a carattere collettivo.

A metà degli anni novanta, a fronte di una legge regionale che dava contributi per la realizzazione di studentati, il Comune di Bologna, per bocca dell’allora assessore all’Urbanistica Ugo Mazza, dichiarò che i privati erano più capaci del pubblico a realizzare e gestire strutture collettive, quindi, da parte dell’Amministrazione comunale venne sostenuto un progetto per un Collegio Universitario in via Sacco (nel quartiere San Donato), realizzato dalla Fondazione Ceur (vicina a Comunione e Liberazione). Naturalmente il Comune ci mise l’area, la Regione i soldi per la costruzione e la Ceur fece fruttare la gestione incassando le rette degli studenti che non erano, se così si può dire, del tutto “economiche”.

Si può affermare, senza il timore di essere smentiti, che quella curiosa joint venture, in cui il pubblico ci metteva i soldi e le aree e il privato gestiva e incassava, rappresentò la fortuna degli “imprenditori dell’abitare ciellini”, tra cui spiccò Maurizio Carvelli.

Carvelli, negli anni ’80, era uno studente fuori-sede iscritto alla Facoltà di Economia Commercio. Durante gli studi universitari, insieme ad altri suoi amici di Comunione e Liberazione, fondò la cooperativa Nuovo Mondo (che aveva come finalità la costruzione e la gestione di studentati) e divenne un elemento di punta della Compagnia delle Opere.

Nel 1991 costituì, insieme a docenti e imprenditori, la Fondazione Ceur (Centro Europeo Università e Ricerca), di cui è tuttora Ceo, che realizzò il primo studentato privato in Europa. Successivamente la fondazione venne riconosciuta e accreditata come rete di collegi d’eccellenza dal Ministero Istruzione Università e Ricerca ed entrò a far parte della Conferenza dei Collegi Universitari di Merito.

A metà degli anni novanta Carvelli costituì pure la Fondazione Falciola, anche questa organizzazione aveva come finalità l’intervento sulla residenzialità universitaria. Il suo ispiratore, Monsignor Pier Giorgio Falciola faceva parte dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi. Pur essendo ispirati ai Carmelitani Scalzi, gli aderenti alla Fondazione Falciola, sin dalla sua costituzione, misero le scarpe in diversi luoghi. Infatti, dal 1995, la fondazione iniziò a condurre e amministrare su scala nazionale studentati e complessi immobiliari di varia tipologia gestionale; inoltre, sul mercato degli affitti, reperì posti letto, appartamenti e altri tipi di alloggio per studenti universitari e lavoratori.

Nell’archivio dei partecipanti del Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione su Maurizio Carvelli c’è scritto: “Imprenditore, primo operatore privato non profit nel settore dei collegi universitari e nell’edilizia universitaria residenziale italiana”. Invece, sulla rete “Linkedin” il nostro si presenta così: «Sviluppo il business della ospitalità e della formazione degli studenti universitari e della residenzialità temporanea, sia impostando operazioni immobiliari in proprietà o proponendomi come gestore di proprietà altrui, fondi di investimento, proprietari».

Su “Tempi”, il settimanale di Comunione e Liberazione, in un’intervista, Carvelli è consapevole dell’aiuto ricevuto dal “pubblico” e spiega la sua strategia: «Le Fondazioni Ceur e Falciola hanno avuto uno sviluppo grazie a un percorso di sussidiarietà, ciò è accaduto attraverso lo Stato che ha finanziato il pubblico, ma anche il privato attraverso la legge n.338 del 2000. Questa idea sussidiaria considera il privato come partner, non come nemico».

Nel libro/inchiesta “La lobby di Dio”, di Ferruccio Pinotti (ed. Chiarelettere), invece, Maurizio Carvelli viene descritto come il tessitore di una trama che non si spiegherebbe senza la forza di Comunione e Liberazione, del suo braccio economico, la Compagnia delle Opere, e delle fondazioni vicine al movimento, come Ceur e Falciola. Pinotti racconta delle sbaraccate di soldi pubblici distribuiti “legalmente” alle fondazioni cielline, non attraverso appalti pubblici, ma per il principio di sussidiarietà. Sicuramente la legge che ha fatto le fortune degli “imprenditori immobiliari ciellini” è stata la n. 338 che prevede il cofinanziamento da parte dello Stato per interventi rivolti alla realizzazione di alloggi e residenze per studenti universitari.

Nel 2007 la partnership tra Fondazione Ceur e Fondazione Falciola ha dato vita al brand Camplus, dieci anni dopo la Fondazione Falciola è stata incorporata per fusione nella Ceur.

In un’intervista del 2019, rilasciata a Sette (il settimanale della diocesi bolognese) , Carvelli dichiara «Camplus a Bologna è presente con oltre 1.500 posti letto per studenti, divisi nelle strutture Camplus College e Camplus Apartments, ai quali si aggiungono gli oltre 750 posti letto che Camplus gestisce negli appartamenti per conto dei proprietari privati».

Nell’arco di 30 anni di attività la Fondazione Ceur ha registrato nei suoi collegi a marchio Camplus più di 9.000 presenze di studenti universitari in 11 città italiane e due in Spagna, diventando la leader indiscussa del settore.

Sono diverse le “soluzioni residenziali” che Ceur, attraverso il marchio Camplus, gestisce a Bologna: si va dalle Residenze Universitarie (Camplus Mazzini, via Emilia Levante 10 – Camplus Valverde, via Valverde 14 – Camplus Zamboni, via Berlinguer 4) ai Collegi Universitari di Merito (Camplus Alma Mater via Sacco 12, Camplus Bononia, via Sante Vincenzi 49/51 – Camplus San Felice, via San Felice 113), ai Camplus Living (Camplus Living San Giovanni in Monte Collegio Erasmus, via De’ Chiari 8 – Camplus Living Carpentiere, via del Carpentiere 52 – Camplus Bologna San Vitale, via Carpentiere 30/32 – Camplus Bologna San Giuseppe, via San Donato 175 – Camplus Bologna Malpighi, piazza Malpighi 12).

In questi anni tutto è filato liscio, gli amministratori comunali hanno aperto le strade a queste “soluzioni abitative”, mentre il numero dei posti letto negli studentati pubblici, rispetto al numero degli studenti fuori-sede presenti in città, ha continuato ad essere ridicolo.

Sono arrivati finanziamenti statali, regionali e concessioni comunali, con l’appoggio dell’Università. A livello politico quasi mai nessuno si è posto delle domande su questo strapotere ciellino. Quando qualcuno ha sollevato la questione, subito gli assessori di “sinistra” si sono giustificati dicendo: «Se c’è un interesse pubblico, le istituzioni sosterranno i privati… anche perché, in questo campo, sono meglio del pubblico».

Le residenze cattoliche e il “potere immobiliare” della Chiesa

Oltre agli aiuti “delegati” delle istituzioni pubbliche, gli “imprenditori ciellini” si sono rafforzati anche attraverso una rete cattolica di residenze collettive già ben radicata in città. Solo inventariarne l’elenco fa percepire come il “potere immobiliare” della chiesa sia equiparabile al “potere temporale” della Bologna papalina durante lo Stato Pontificio.

Si parte dalle “residenze per entrambi i sessi” (Chiesa Universitaria San Sigismondo, via San Sigismondo 7 – Collegio universitario Villa San Giacomo, via S. Ruffillo 5 a San Lazzaro di Savena).

Si continua con quelle “maschili” (Centro San Salvatore, via del Volto Santo 1 – Cgv Studentato delle Missioni, via Sante Vincenzi 45 – Collegio universitario San Tommaso, via San Domenico 1 – Studentato universitario G. Duns Scoto, via D’Azeglio 92 – Convitto universitario Beata Vergine di San Luca, via Jacopo della Quercia 1 – Residenza universitaria Torleone, via Sant’Isaia 79, un collegio di merito maschile gestito dalla Fondazione Rui legata all’Opus Dei; si legge nel suo sito: nella vita di residenza lo spirito di Opus Dei si manifesta nella proposta di attività di formazione spirituale e dottrinale cristiana).

L’elenco delle residenze “femminili” è il più lungo (Fondazione Pisp, varie sedi – Ancelle del Sacro Cuore di Gesù, via Santo Stefano 63 – Figlie della Carità Canossiane, via Sant’Isaia 63 – Convitto Madonna di San Luca, via Remorsella 10 – Residenza universitaria Santa Elisabetta delle Sorelle dei Poveri di Santa Caterina, via Nosadella 30 – Comunità Santa Caterina di Bologna, via della Torretta 23/a – Francescane dell’Immacolata, via Santa Margherita 12 – Missionarie del lavoro del Cuore Immacolato di Maria, via Tambroni 26/28 – Protezione della Giovane di Bologna, via Santo Stefano 45 – Sorelle Minime della Carità di Maria Addolorata, via Galliera 65 – Istituto Zoni, via San Giacomo 13 – Convitto universitario Istituto Sacra Famiglia, via Sante Vincenzi 36 – Istituto Santa Dorotea, via Irnerio 38 – Istituto Santa Giuliana, via Mazzini 90 – Convitto San Giuseppe, via Zanolini 40 – Convitto Giovanna D’Arco, via Santo Stefano 58 – Casa San Francesco Saverio, via Castiglione 43 – Figlie di Sant’Anna, via Piave 2).

Tutto questo “ben di dio”, è il caso di dirlo, va sommato con il “più che dignitoso” patrimonio afferente all’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero (che fa capo alla Curia bolognese). Si parte con gli immobili in locazione: 760 alloggi, 380 posti auto, 60 negozi, 130 magazzini, 20 uffici. Si aggiungono i terreni agricoli in locazione: 2.000 ettari di terreno seminativo coltivato; 1.200 ettari di bosco. E non mancano pure le aree a vocazione edificatoria residenziale situate in 15 comuni, per una superficie territoriale di circa 160 ettari.

Poi ci sono le proprietà dirette dell’Arcidiocesi e quelle distribuite tra fondazioni, confraternite, congregazioni, missioni, opere diocesane, seminari.

Una vera e propria città nella città, tutta di proprietà della Chiesa, che potrebbe usare lo stesso acronimo utilizzato per l’Edilizia residenziale pubblica: in questo caso Acer starebbe per Azienda case ecumeniche religiose.

Ma non è tutto, nel 2022 si è costituito un raggruppamento molto particolare tra il Convento di San Giuseppe Sposo di Maria (che è in via Bellinzona 6 ed è la sede dei Frati Minori Cappuccini), la Fondazione Carisbo e l’Università. Con un usufrutto trentennale l’Ateneo di Bologna avrà accesso a un bando per l’edilizia universitaria previsto dalla Legge n. 338/2000. La Fondazione Carisbo si impegna con due milioni e 400.000 euro a farsi carico degli oneri sia di progettazione della trasformazione di parte del Convento in residenza universitaria, sia della progettazione e della ristrutturazione di altri spazi del Convento ad uso esclusivo dell’Ordine religioso. Per i Cappuccini dell’Emilia-Romagna il progetto è in linea con la loro missione di “aiuto e vicinanza nei confronti di chi ha più bisogno” , “attenzione al territorio”e “mantenere la presenza religiosa e aprirsi alle nuove generazioni”. I frati avranno il loro convento nuovo e probabilmente anche le rette degli studenti ospitati.

Il tema della laicità sembra non essere una questione importante per la “città più progressista d’Italia”, basta mettere ogni tanto le bandiere arcobaleno alle finestre di Palazzo d’Accursio e tutto si tiene insieme.

I nuovi arrivi delle multinazionali dell’housing

Ormai sono decine gli studi e le indagini che hanno confermato che tra i primi fattori di difficoltà nella ricerca di un alloggio per gli studenti universitari a Bologna figurano, oltre al costo ormai inaffrontabile degli affitti, le pessime condizioni delle camere, l’affollamento e spesso la mancanza di arredi adeguati.

Negli ultimi quattro anni i fuori-sede sono passati da 36.000 a 41.000, la domanda di alloggi è cresciuta. Il numero degli appartamenti disponibili però è diminuito a causa dell’aumento delle case affittate ai turisti. Sempre meno posti letto ma sempre più studenti, il risultato è che trovare alloggio è diventato quasi impossibile. In più, per gli studenti in condizioni disagiate ci sono poco più di 1.600 posti letto negli studentati pubblici gestiti da ErGo (il numero dei posti letto è pressoché lo stesso dal 2004). Il caso limite si è verificato nel 2020, quando gli studenti idonei in graduatoria erano 2.791 e il numero di posti letto disponibili era solo di 1.620.

Se per suore, preti, frati e chierichetti alloggi e posti letto rappresentano un buon affare, di fronte al sottrarsi dell’iniziativa pubblica, un ampio spazio per il business immobiliare rimane appannaggio delle multinazionali dell’housing.

Mancano poche settimane all’apertura del gigantesco alveare in cemento armato alto 53 metri, sedici piani per 513 alloggi singoli, che sorgerà nell’area dell’ex Fervet in via Serlio, di fronte al Dopolavoro Ferroviario, dove un tempo c’era il centro sociale ex Fabbrika. L’opera mastodontica e smisurata sarà adibita a studentato ed è stata realizzata da “Stonehill group” (azienda inglese, specializzata nel settore delle residenze per studenti) con un investimento di 30 milioni di euro. Il progetto è stato eseguito ispirandosi al modello anglosassone: un edificio immenso, una gestione centralizzata con tante camere per permettere una “economia di scala”. Solitamente Stonehill acquista un’area edificabile (questa inizialmente era destinata a un progetto di edilizia convenzionata), costruisce l’immobile, vende l’edificio ad altri (spesso a fondi d’investimento privati), poi c’è chi gestisce la struttura ed incassa le rette. Dopo la Germania, l’Austria e l’Ungheria per Stonehill quella di Bologna è la prima piazza italiana.

C’è da sperare che il modello anglossassone non sia imitato anche nei costi: in Gran Bretagna, in studentati di questo tipo, una stanza con bagno costa in media 200 sterline alla settimana (circa 225 euro).

All’interno del quartiere Navile, sempre nelle vicinanze dei binari delle aree ferroviarie, in un territorio che un tempo era il grande rione operaio della Bolognina, ha piantato le fondamenta e si sta sviluppando una rete di insediamenti destinati allo “student housing”.

Dopo Milano, Bologna sembra essere la città per questo tipo di mercato immobiliare. E, del resto, le porte a questi “benefettori” le aveva spalancate l’amministrazione comunale un po’ di anni fa. Durante il mandato del sindaco Merola, l’assessora all’urbanistica Valentina Orioli (oggi nella Giunta Lepore con le deleghe a Nuova mobilità, infrastrutture, vivibilità e cura dello spazio pubblico) in un’intervista sostenne: «Sento dire che ci occupiamo solo di alloggi di lusso per studenti, ma vorrei dire che tutte le case per studenti devono essere belle e adeguate ai target europei. Poi il privato agisce con un’ottica da investitore, ovviamente, ma trovo molto positivo che esista questo mercato».

Infatti, gli inglesi non sono stati i soli ad avere messo gli occhi sul mercato degli alloggi per studenti in città. In via Fioravanti, nell’edificio che era stato sede dirigenziale della Telecom, nel luogo che fu scenario di una grande occupazione abitativa (promossa nel 2014 da Social Log), a distanza di cinque anni dallo sgombero delle 280 famiglie che vi abitavano, l’ex Telecom ha riaperto con una veste che di “sociale” ha ben poco. The Student Hotel, ideato dalla omonima catena immobiliare-alberghiera olandese, è una struttura a organizzazione mista che prevede la presenza di turisti per brevi soggiorni, di lavoratori negli spazi di coworking e di 180 studenti per soggiorni più lunghi. Al momento della sua inaugurazione i prezzi per lo Student Hotel partivano da 420 euro al mese per un posto in una camera doppia e da 590 euro per una singola. Quello di Bologna, dove ci sono in tutto 361 camere, è il sedicesimo hotel del gruppo che è presente in città come Amsterdam, Berlino, Parigi, Firenze, e Vienna.

Recentemente The Student Hotel è stato rinominato The Social Hub per rispecchiare meglio l’offerta di “ospitalità ibrida”. La multinazionale olandese, con 11.000 camere in tutta Europa, con 2,1 miliardi di euro nell’ultimo round di finanziamento, ha dilatato il proprio portafoglio ricettivo con 25 nuove proprietà nel vecchio continente. Tutto questo lo hanno comunicato da Amsterdam lo scorso 13 ottobre. Charlie MacGregor, Ceo e fondatore di The Social Hub, ha così commentato: «Siamo davvero orgogliosi di annunciare l’evoluzione della nostra azienda insieme all’apertura delle nostre nuove proprietà in Spagna. Abbiamo cambiato il nostro nome in The Social Hub per mettere l’impatto sociale al centro di tutto ciò che facciamo».

Mah, mai come in questo caso, l’uso “furbo” delle parole serve a coprire un’operazione che ha al centro il business per chi la promuove. E’ bene ricordare che, a livello europeo, dal 2007 al 2017 il giro d’affari delle aziende di student housing è passato da 720 milioni di euro a 7.000 milioni di euro. Per ricordare quanto l’interesse verso il “residenziale studentesco” sia consistente, basta guardare il Pnrr. Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza si parla infatti di uno stanziamento di un miliardo di euro destinato al Ministero dell’Università e della Ricerca per dare una spinta incentiva ai posti letto per studenti universitari, con il coinvolgimento di investitori privati.

Ritornando a Bologna, è bene ricordare uno dei primi progetti privati per studenti e non solo. Si tratta di We_Bologna, un ostello-studentato con 96 posti letto situato in via Carracci, anch’esso vicino alla stazione. L’intervento avvenne tramite il recupero dell’ex Ferrhotel (in prossimità di una delle nuove uscite della stazione dell’Alta Velocità) che venne trasformato in una struttura ricettiva. Fu reso possibile grazie al fondo immobiliare Erasmo, gestito da “Fabrica Sgr” (partecipato al 60% dal Fia (Fondo Investimenti per l’Abitare), gestito da Cdp Investimenti Sgr e, al 40%, dal Fondo Aristotele sottoscritto da Inps. Il progetto fu di Gastameco (una società privata italiana che ha nel suo core-business la realizzazione di ostelli, residenze per studenti e pensionati), che è anche il gestore della struttura.

Tra i progetti in divenire c’è quello approvato nel mandato dalla giunta Merola scorso in via Muggia. L’area è quella dove un tempo aveva sede il centro sociale Livello 57, era di proprietà di Rfi (in origine “Ex Oma”),ed è situata tra Borgo Masini e il fascio dei binari, confinante dal lato est col ponte di via Stalingrado. Il Poc (Piano Operativo Comunale) prevede la realizzazione di un edificio privato a destinazione mista, alberghiera e di ristorazione, con abitazioni temporanee per studenti, oltre a 2.000 metri quadri di servizi ricreativi, culturali e sportivi. La società firmataria dell’accordo è l’Hotel Porta Mascarella srl.

Per ultimo, poteva mancare a Bologna il “vivere in co-living”? Certamente no, capitale delle mode, anche nella nostra città questa tendenza che ha preso piede a New York e a Londra, ha trovato ospitalità a “Dove vivo Campus – Bologna Mover”, in via Mario Fantin 15. Il co-living è un condominio composto da vari appartamenti di diverse metrature e da una serie di spazi comuni quali parcheggio, lavanderia, locali per il coworking, connessione wi.fi condivisa. Anche la struttura bolognese fa capo a una piattaforma che in Italia gestisce nove campus e 2.500 proprietà con soluzioni abitative diverse, per un totale di 13.000 posti letto. Nel sito è in bella mostra la filosofia del gruppo: «Guardiamo al futuro strizzando l’occhio al mondo. Il nostro obiettivo è quella di offrire un’ospitalità che ricordi lo stile dei campus americani, nei quali è possibile studiare e vivere senza perdere tempo con le problematiche degli affitti tradizionali».

Sulla pagina Facebook di “Dove Vivo Campus”, però, il commento di un’utente non è della stessa idea: «La mia tapparella è completamente rotta da ormai un mese e nonostante le numerosissime segnalazioni ancora non hanno fatto nulla!! Vivo al buio e sono costretta a fare smartworking in cucina dove passano tutti i coinquilini. Non posso vivere nella mia stanza poiché questa agenzia non esegue la manutenzione che promette ma per prendere i soldi dell’affitto non hanno problemi».

Il mercato non è la soluzione

Che la soluzione ai problemi della popolazione studentesca siano i nuovi studentati di lusso, che hanno prezzi inaccessibili per la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze, lo può pensare qualcuno che siede ancora sui banchi di Palazzo d’Accursio. Nella realtà, però, le cose stanno in ben altra maniera e la situazione si sta spingendo verso estremità molto distanti: da una parte ci sono gli studenti con un reddito basso che hanno accesso (non tutti, perché i posti sono troppo pochi) agli studentati convenzionati, dall’altro quelli che si possono permettere le residenze studentesche private di lusso, e in mezzo ci stanno gli studenti con famiglie di reddito medio, che devono affrontare il mercato privato sempre più proibitivo, sia per costi sia per mancanza di alloggi in quanto le piattaforme di sharing economy come Airbnb hanno fatto razzia di appartamenti privati.

Stando ai dati del sito “Inside Airbnb”, nello scorso mese di settembre sulla piattaforma che gestisce gli “affitti brevi” i punti rossi che corrispondono ad altrettante offerte di camere e appartamenti privati sono ben 3.685 concentrati soprattutto nei rioni Cirenaica, Bolognina e Saragozza. Altri due dati importanti sono che il 70% dei puntini rossi corrispondono ad appartamenti interi e che gli host più attivi non riguardano semplici privati (come avrebbe dovuto essere per le piattaforme di home sharing), ma veri e propri pacchetti di alloggi gestiti da vere e proprie società di property management. La fine dell’emergenza pandemica ha rinvigorito un’esplosione dell’Airbnb-trend in forme diverse dalle sue modalità originaria e dove le offerte di interi appartamenti hanno ampiamente superato quelle di singole camere.

In passato le modalità di locazione per gli studenti, passavano attraverso l’affitto a camera o a posto letto e non a metro quadro, spesso con affitti in nero o con forme poco chiare di accordo, come contratti scritti ma non registrati, a voce, o in (falso) comodato. Tutte queste furberie da parte dei proprietari hanno alimentato situazioni di speculazione, di strozzinaggio e di rendita parassitaria che hanno drogato fortemente il mercato dell’affitto in città, mettendo in circolo appartamenti di scarsa qualità abitativa. Anche nei decenni passati per uno studente o una studentessa fuori-sede con alle spalle una famiglia di reddito medio c’era da sudarsi il “diritto” a una camera in affitto con i sacrifici della famiglia e lavoretti in nero nel circuito del “terziario precario”, oggi la bolla speculativa che avvolge il mercato immobiliare è talmente avvolgente che trovare un posto letto che non sia a “vocazione turistica” è diventato impossibile.

Di questi tempi sono tanti (troppi) i segnali che certificano come il mantenimento di un/una fuori-sede a Bologna impone uno sforzo economico che molte famiglie non riescono a sostenere.

Che la situazione sia drammatica è attestato anche da una denuncia che la Caritas fece qualche tempo fa: «Tanti studenti arrivano all’Università grazie a delle borse di studio che poi perdono perché non riescono a stare al passo con gli esami. Alcuni poi perdono anche l’alloggio e così si trovano spesso costretti a recarsi alle nostre mense e, in alcuni casi, finiscono per qualche tempo a dormire in stazione».

E il delegato del rettore Condello che fa appello alla solidarietà dei bolognesi, immaginando una gestione di aiuto emergenziale simile a quella organizzata per i soccorsi alla popolazione ucraina? Beh, meglio non commentare, se queste sono le idee di chi dovrebbe affrontare i problemi, c’è da stare freschi (se non all’addiaccio).

Che i “buoi siano scappati” sembra essersene accorto anche il sindaco Matteo Lepore, che si è fatto promotore insieme ai primi cittadini di Firenze e Bergamo di un appello al Governo affinché sia aprrovata una norma nazionale che permetta ai Comuni di intervenire per porre un freno alla proliferazione degli affitti turistici brevi. Ma quelli che cercano di chiudere in ritardo la “stalla”, molto spesso, lo fanno per nascondere le proprie magagne. Infatti, la “vocazione turistica” che ha già trasformato radicalmente la città è stata voluta e favorita dalla amministrazione precedente, nella quale l’attuale sindaco, tra le diverse deleghe da assessore, aveva anche quella al turismo.

E un po’, tra le righe, se ne vanta quando dice: «A Bologna è difficile trovare casa anche perché vogliono tutti venire a vivere qui… Bologna si sta facendo carico di altre persone che vanno via da altre città: molti giovani italiani, prima di andare a Londra o da altre parti, si fermano da noi».

Ma Bologna è una città universitaria più che da qualche decennio, i centenari passati dalla sua fondazione sono diversi. E’ mai possibile che da almeno cinquant’anni, da quando l’università è diventata di massa e decine di migliaia sono stati i fuori-sede arrivati sotto le Due Torri, le varie amministrazioni che si sono succedute non abbiano mai deciso di programmare e poi realizzare politiche dell’accoglienza adeguate per gli studenti?

Il mercato e solo il mercato è stato il regolatore dei bisogni originati dai flussi demografici di chi veniva a studiare e poi a lavorare qui. Sono stati gli affittacamere e gli strozzini prima, gli “imprenditori delle residenze private” e le multinazionali dello student housing poi, a dare risposte inadeguate alle necessità abitative della popolazione studentesca e a riempire all’inverosimile le proprie tasche. Il pubblico si è completamente sottratto dalle responsabilità di adottare le scelte necessarie per non alimentare diseguaglianze sempre più macroscopiche.

E a proposito di differenze e disparità, la casa è sicuramente la cartina di tornasole del dumping sociale che si è determinato con le trasformazioni dei comparti produttivi del nostro territorio.

La metamorfosi turistica di Bologna non solo ha prodotto la “bolla degli affitti brevi” ma ha portato in città anche lavoro povero, precario e malpagato, Quello che avviene a livello lavorativo in bar, ristoranti e locali della movida è sotto gli occhi di tutti.

La metamorfosi logistica di Bologna realizzata dalle grandi piattaforme della distribuzione di merci e prodotti si fonda sul supersfruttamento di migranti costretti a una condizione di semischiavitù.

Anche il settore “storico” della metalmeccanica ha scelto di tenere nelle aziende madri progettazione e collaudo, mentre tutta la produzione meccanica e il montaggio dei componenti vengono fatti nelle fabbrichette dell’indotto da lavoratori giovani immigrati da altre regioni italiane o da altri paesi, con bassi salari, zero diritti e mancanza di attività sindacale.

Tutto questo lavoro dipendente, dal punto di vista salariale, ha scarsissima considerazione sia nelle aziende in cui opera, ma ancora di più sul terreno dell’offerta abitativa. Il mercato immobiliare queste persone non le prende nemmeno in considerazione dato lo scarso o scarsissimo reddito. La loro condizione abitativa molto spesso è peggiore di quella degli studenti.

Come contraltare a questa situazione di grave disagio sociale ci sono le migliaia di turisti che riempiono gli alloggi delle piattaforme Airbnb, e ci sono gli arrivi di manager e dipendenti da alti salari legati all’apertura di nuove imprese della “alta tecnologia”. Questi ultimi soggetti, invece, sono molto appetibili per il mercato dell’acquisto dai brokers immobiliari.

Insomma, la logica del mercato è che la casa la si propone a chi ha i soldi, chi non ce li ha ripassi…

Nella prossima puntata: le politiche abitative del Comune, l’edilizia residenziale pubblica, l’edilizia convenzionata, il patrimonio immobiliare delle Asp