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Speciale / Chiedi alla polvere: [mappa aggiornata + foto]

La mappa degli spazi sgomberati e poi rimasti abbandonati a Bologna. Indirizzi, date e immagini per un’inchiesta su come viene davvero affrontato il tema degli spazi in città tra retorica legalitaria, fantomatici “progetti” e politichese spinto.

07 Marzo 2013 - 11:20

“C’è già un progetto”. Frase sentita chissà quante volte. Di gran lunga è il pretesto più utilizzato quando c’è uno spazio occupato che si intende sgomberare. L’immobile in questione potrebbe essere abbandonato da secoli. La polvere accumulata al suo interno potrebbe aver raggiunto il mezzo metro di altezza. La proprietà, pubblica o privata, potrebbe anche averne dimenticato l’esistenza. Eppure, non appena qualcuno fa saltare i lucchetti e gli ridà vita, improvvisamente salta fuori che “c’è già un progetto”. Di conseguenza gli occupanti devono immediatamente lasciare l’edificio, con le buone o le cattive, altrimenti “il progetto” rischia di subire imperdonabili rallentamenti. E “il progetto” non può aspettare, “il progetto” è praticamente pronto, “il progetto” porterà benefici incalcolabili. Poi, se tutto ciò non bastasse, c’è sempre l’armamentario di argomentazioni che ogni solerte funzionario e/o amministratore è sempre pronto a sparacchiare con tono greve: “occupare è illegale”, “occupare è pericoloso”, “occupare è violento”, “occupare toglie diritti a chi ha più bisogno” e così via. Se c’è “il progetto”, però, si fa prima: la celere sgombera, la Digos denuncia, il manovale mura porte e finestre. A questo punto, “il progetto” ha di nuovo via libera. Ma…

Ma quasi sempre, per le stesse ragioni misteriose per cui era spuntato fuori dal nulla, “il progetto” sparisce. E l’asilo (preferibilmente nido)? La sala multi-poli-plurifunzionale? Il ricovero per cerbiatti feriti? Niente. Il più delle volte, l’immobile torna semplicemente all’abbandono: metri quadrati su metri quadrati di locali polverosi, anni su anni di silenzio.

Poche settimane fa, con il caso dell’ex conservatorio di Santa Marta si è riproposto alla perfezione il lungo  copione appena descritto. Troppo presto per dirlo? Sarà, ma ci si potrebbe scommettere con relativa tranquillità: passeranno altre ere geologiche prima che gli enti pubblici interessati combinino davvero qualcosa. Se va bene. Nel frattempo, proprio le evoluzioni del caso del Santa Marta hanno spinto il Comune a fare una promessa precisa: la pubblicazione sul web della mappatura di tutti gli spazi vuoti presenti in città, pubblici e privati, così da favorirne un nuovo utilizzo. Bisogna crederci? Succederà davvero? E quanto ci vorrà?

Noi, intanto, abbiamo pensato di realizzare un’altra mappa: quella che segnala gli spazi occupati, sgomberati e da quel momento tornati all’abbandono risultando tuttora inutilizzati (oltre ad alcune occupazioni temporanee, terminate senza un intervento delle forze dell’ordine ma comunque utili allo scopo di questo approfondimento). Veri e propri “buchi neri” densi di miopia politica e cattiva amministrazione. Un lavoro di inchiesta che può essere aggiornato e completato, se ci verranno segnalati altri casi che possono rientrare nella stessa casistica, pensato per dimostrare come viene davvero affrontato il tema degli spazi in città tra retorica legalitaria, “progetti” da mediocre prestigiatore e politichese spinto. Numero civico per numero civico, data per data, immagine per immagine.

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leggi il testo completo dell’inchiesta e guarda la fotogallery:

CHIEDI ALLA POLVERE

La mappa degli spazi sgomberati e poi rimasti abbandonati a Bologna

Un tempo a Bologna abbattere i muri era segno di apertura, di ricerca di nuovi orizzonti, di battaglia di libertà. Da alcuni decenni, in quasi tutte le città italiane, in questa in particolare, sgomberare spazi e case occupate ed erigere muri è diventato un sport nazionale per “sindaci sceriffi”, rettori universitari e questori.

“Ripristino della legalità” o “Restituzione alla legalità” sono gli aforismi più citati dopo gli interventi “a norma di legge”. Di sgombero in sgombero, i tutori dell’ordine si lucidano gradi e stellette, togliendo dalla vista della gente perbene quello che ai loro occhi appare disordinato, estremo, irrispettoso, degradato: insomma illegale.

In virtù della tanto decantata “legalità”, fatta di appalti assegnati al massimo ribasso, di imprese farlocche fallite a metà dell’opera, di soldi buttati e di cantieri bloccati o infiniti, quegli spazi sono stati vuoti per anni. E dopo le evacuazioni forzate, a suon di manganelli, sono tornati vuoti e inutilizzati, per restarci a lungo.

Il 26 ottobre 2007 gli attivisti del Livello 57, da più di un anno senza spazio, dopo l’ennesimo sgombero subito dichiararono: «Con lo sgombero dell’ex asilo della Manifattura Tabacchi di via Stalingrado 86 che noi avevamo occupato tre giorni fa, dando vita a “Open the space”, le forze di polizia hanno compiuto l’ennesima azione immorale, riconsegnando alla polvere, al degrado, allo sfruttamento della prostituzione, ai topi, allo spaccio e alla speculazione edilizia questo posto. Noi, in soli due giorni, avevamo liberato lo spazio dai rifiuti e disinfettato la maggior parte della struttura. Stavamo cominciando a recuperarne il giardino e a ripristinare il collegamento con l’acqua. Erano 15 anni che questo posto era abbandonato. Non c’è alcun bisogno di sindaci sceriffi con i poteri speciali, che continuano a dilapidare risorse pubbliche incrementando gli organici di polizia e carabinieri. E’ sufficiente smettere di chiacchierare e di farsi pubblicità sulla nostra pelle… Bisogna rimboccarsi le maniche e lavorare… Questo è quello che abbiamo fatto e che continueremo a fare nonostante l’ignorante cecità di quei partiti e di quelle istituzioni che hanno dimostrato di non avere a cuore l’interesse pubblico. Per questo lo vogliamo dire ad alta voce: lo sgombero di stamattina non sarà forse illegale, ma sicuramente è del tutto immorale».

Parole “sante”, idonee e ancora valide per tutte le altre situazioni che, con la nostra inchiesta, abbiamo voluto toccare. Ed è, infatti, da via Stalingrado 86 che abbiamo deciso di cominciare il nostro giro. Sulla strada ci sono ancora i graffiti disegnati cinque anni fa sul cancello in ferro dell’entrata. Alcuni dei capannoni occupati sono stati abbattuti, gli altri sono in uno stato di abbandono e incuria indicibile. Del progetto della Regione per il Polo Tecnologico non si hanno più notizie da tempo, l’intera area è avvolta da un generale stato di deterioramento, come un cadavere in via di putrefazione.

Rimanendo nel perimetro della Manifattura Tabacchi, cinquanta metri più avanti, in via della Manifattura 7, ci sono una palazzina e un edificio, un tempo probabilmente adibito a mensa. Porte e finestre sono tutte tassativamente murate, nel parcheggio davanti all’entrata c’è un giro continuo di auto guidate da personaggi bavosi che avvicinano ragazzini, per lo più stranieri, che si prostituiscono. I due immobili furono occupati nel mese di gennaio del 2004 dal collettivo di Vag61. L’azione, a carattere comunicativo, fu fatta per denunciare il modo indecente con il quale l’Agenzia del Demanio e i Monopoli di Stato tenevano i propri immobili in disuso.

Qualche tempo prima i vertici del Ministero delle Finanze avevano ordinato lo sgombero dell’ex Dopolavoro dei Monopoli di Stato di via Azzo Gardino 61 (da qui l’acronimo di Vag61), occupato il 6 dicembre 2003. Il posto, collocato nell’area culturale della Manifattura delle Arti, era vuoto da anni. L’occupazione durò 23 giorni, poi, i carabinieri effettuarono l’irruzione. Si disse che lo spazio avrebbe dovuto diventare il deposito dei cedolini delle giocate del Totocalcio. Sono passati più di 9 anni e le finestre e le porte della palazzina sono ancora lì tutte murate.

Sempre in via Azzo Gardino 61, proprio a fianco del primo Vag, c’è l’ex cinema Embassy, anch’esso di proprietà dei Monopoli di Stato. Era abbandonato da tempo quando, il 2 marzo 2007, il collettivo MetroLab, dando il via alla campagna “Rumori metropolitani”, lo “liberò”. Gli occupanti rimasero dentro alcuni giorni, poi la polizia intervenne. Con uno stratagemma rientrarono ma, dopo poche ore, fu di nuovo sgombero, questa volta con innalzamento del muro.

Il cinema Embassy fu di nuovo occupato il 22 novembre 2008, nell’ambito della giornata di lotta sugli spazi sociali “ Reclaim the Street”, dal Laboratorio Crash, in risposta al sequestro che la Magistratura aveva ordinato per lo stabile di via Zanardi 106 che Crash aveva occupato in precedenza. Anche questa occupazione durò poche ore, alcuni attivisti si arrampicarono sul tetto, ma poi dovettero desistere. Da allora, tutto è sbarrato e murato. All’interno, per renderlo inutilizzabile, l’ex cinema è stato sventrato, sono stati tolti arredi e poltrone.

Anche il giardino retrostante agli immobili di via Azzo Gardino 61, che il Dopolavoro dei Monopoli utilizzava per iniziative estive, è abbandonato da più di 15 anni.

L’edificio industriale di via Zanardi 106, di proprietà di una società privata, era stato occupato da Crash il 6 ottobre 2007 al termine di un corteo indetto contro i ripetuti sgomberi che il collettivo aveva subito nei mesi precedenti e per la difesa degli spazi autogestiti. I capannoni furono sgomberati il 26 novembre 2008, dopo un provvedimento di sequestro preventivo richiesto dalla Procura della Repubblica. A più di quattro anni di distanza la struttura è ancora vuota e inutilizzata. Per fortuna, sulla facciata, fanno ancora bella mostra i grandi murales di Blu che coprono la vergogna dei muri innalzati su porte e finestre.

A 72 ore dallo sgombero di via Zanardi 106, sempre nel quartiere Navile, ma dalle parti della Bolognina, in via Donato Creti 24, il Laboratorio Crash occupò i capannoni dell‘ex Bologna Motori, di proprietà dell’imprenditore/playboy Paolo Pazzaglia, padrone anche del locale notturno “La Capannina” e di diverse strutture industriali abbandonate della zona come le ex Officine Cevolani, diventate, nel corso degli anni rifugio “abusivo” di tanti senza tetto. La cosa curiosa è che mentre, a Bologna, il Pazzaglia chiudeva fabbriche e licenziava operai, a Roma ebbe gli onori della cronaca rosa per un “Party anticrisi con rito esorcistico” di cui fu l’organizzatore: “Non la solita festa frivola e salottiera, ma uno spaccato sociale preoccupante e ben tratteggiato… con alcuni maiali rinchiusi in un recinto per rappresentare il degrado morale della politica italica… con una donna in tunica bianca e fascia tricolore dentro una bara, a metafora di un paese moribondo… e poi tutti a divertirsi per esorcizzare i timori e le ansie del grave frangente economico-istituzionale”.

Quando, dopo pochi giorni, chiese lo sgombero dell’immobile di sua proprietà, qualche malalingua sostenne che temeva che le “feste trash”, che nei centri sociali iniziavano a prendere piede, potessero oscurare il suo “White trash”, popolato da un esercito di sguaiati personaggi che dell’ostentazione della marca facevano il loro stile di vita.

Insomma, il 3 dicembre 2008, arrivò la polizia chiamata da Pazzaglia. Dopo aver buttato fuori i ragazzi che erano all’interno, al primo cenno di sit-in davanti all’immobile gli agenti cominciarono a manganellare, rompendo qualche testa. Nel frattempo, una squadra di fabbri e muratori era già al lavoro per saldare i portoni e murare gli ingressi. Da notare che il capannone sgomberato era vuoto da 5 anni, ne sono passati più di 4 e chissà per quanto altro tempo rimarrà abbandonato.

Via Donato Creti è da una vita un’area industriale in disuso. Alcuni anni fa si diceva che l’intero comparto sarebbe stato interessato a un cambio di destinazione d’uso, con un processo di urbanizzazione che avrebbe dovuto già essere attivato da tempo. Al di là degli sgomberi non si è visto nulla. Ne sono testimonianza, nella parte finale della strada, via Donato Creti 36, verso via Stalingrado, alcuni vecchi capannoni che furono occupati, per una TAZ, il 5 dicembre 1998, durante “Catch the Space”, una street parade promossa dalla “Piattaforma 2001 Odissea negli Spazi”, composta da diverse realtà sociali e culturali cittadine. Quei fabbricati erano vuoti da una quindicina d’anni, ne sono passati altrettanti, chissà per quanto tempo ancora resteranno così.

Se dovessimo premiare la categoria degli “sgomberatori di immobili che devono essere tenuti vuoti”, le Poste Italiane (comparto di Bologna) si meriterebbero il gradino più alto del podio.

La vicenda ha del paradossale. Si era nel 1991, il censimento ratificava che, nel territorio bolognese, erano 22.325 le abitazioni non occupate e non utilizzate. In quel periodo iniziarono in città le prime occupazioni di spazi sociali. Le nuove correnti della controcultura underground si intrecciarono e si incrociarono con le prime lotte dei migranti (“Fabbrika”, “Capodilucca”, “PPM8 – Piazza di Porta Mascarella 8”, “Isola nel Kantiere”, “Matteotti”). La lotta per il diritto alla casa portò in piazza in quei mesi migliaia di lavoratori migranti, autodeterminati e sganciati da riferimenti istituzionali. Dopo alcune manifestazioni presero il via diverse occupazioni, una di queste coinvolse una Palazzina di proprietà delle Poste, in via Zanardi 28. Resistette per alcune settimane, poi, come da altre parti, arrivò irrimediabilmente lo sgombero. Da allora, la palazzina a tre piani e la costruzione a un piano che sorge a lato, sono sempre rimaste vuote e inutilizzate. Nel corso di questi trent’anni, sono scampate ad altre occupazioni e non hanno troppo subito il logorio del tempo. Per queste ragioni, fa ancora più schifo che siano lasciate così.

Sempre di proprietà delle Poste e sempre in via Zanardi, al  30, c’è un altro stabile vuoto da decenni. Fu occupato l’8 aprile del 2006, alla vigilia delle elezioni, da parte di vari gruppi anarchici e libertari. Si era in piena epoca cofferatiana e tutte le occupazioni avevano vita breve. Fecero appena in tempo a dare al posto un nome, “Spazio Occupato Autogestito Libero dal Fosco”, la mattina del 12 aprile, alle sei, la polizia arrivò a sgomberare. Anche in questo caso porte e finestre vennero murate o sbarrate con lamiere di ferro. I quasi 7 anni che sono trascorsi da quel giorno si aggiungono ai più di 20 che erano passati prima della momentanea “riapertura”.

Altro campione per i posti sgomberati e tenuti vuoti è la Provincia di Bologna. Qui il custode è un po’ particolare, si tratta dell’assessore al Patrimonio Marco Pondrelli, con tessera in tasca di Rifondazione Comunista. Fa un po’ specie che un difensore (a parole) del “pubblico a tutti i costi” si sia fatto conoscere da amministratore solo per le “alienazioni” riuscite o tentate.

Di “alienazione riuscita” si parla nel caso dell’ex Maternità di via D’Azeglio 56. Il suo valore era stato stimato attorno ai 30 milioni di euro, la destinazione d’uso prevista “albergo di lusso”. All’asta, il 14 dicembre 2010, l’unica a presentarsi fu la società Hydra Immobiliare di Romano Volta che si portò a casa, con 17 milioni e 1000 euro, l’antico convento di San Procolo, in passato sede dell’Università, poi storico “ospedale delle nascite”, attivo fino alla metà degli anni novanta. I cantieri avrebbero dovuto partire alla fine del 2011, ma tutto il palazzo continua ad essere sbarrato.

L’ex Maternità venne occupata, per tre giorni, il 27 maggio 2005, dal Collettivo “Contrazione”, un progetto di comunicazione portato avanti soprattutto da donne. Le occupanti entrarono senza troppi problemi nell’edificio e alle finestre esposero due striscioni, con le scritte “Volevo un figlio, ho smesso” e “Cambiare la politica, facciamo una provetta”. Il loro intento era di creare, temporaneamente, un spazio fisico simbolico per scambiare informazioni sulla Legge 40 in materia di procreazione medicalmente assistita e sostenere il referendum aborgativo che si sarebbe svolto pochi giorni dopo. L’ex convento venne lasciato spontaneamente dalle occupanti, ma, anche in quel caso, non mancarono innalzamenti di muri e sbarramenti vari. Negli anni successivi, ogni volta che in città sfilava un corteo sulla questione degli spazi autogestiti, l’ex Maternità veniva presidiata da ingenti cordoni di poliziotti e carabinieri per paura di un’altra occupazione.

Invece, è andato fino ad ora deserto il bando per la vendita dell’ex ospedale degli Innocenti (o dei Bastardini), messo all’asta dalla Provincia per 14.250.000 euro, che si trova dall’altra parte della strada. Un tempo era la sede del Teatro La Soffitta e dell’Osteria della Ribalta. Nel retro dello stabile, in via Tagliapietre, si sono ricavati 16 appartamenti di dimensioni medio-piccole, ristrutturati con fondi pubblici per l’edilizia popolare (previsti dalla Legge regionale 560 del 1993), che avrebbero dovuto andare a far parte del patrimonio Erp e che, invece, in tempi di emergenza abitativa, sono stati inseriti nel piano di vendita. Tutti gli spazi del grande complesso sono stati ristrutturati. Per la maggior parte dei mesi dell’anno sono vuoti e inutilizzati, in attesa di un compratore. Solo alcune volte, alcuni saloni solo stati affittati per mostre organizzate da privati.

Anche un’altra area della Provincia, quella di via Libia 67, è finita nel piano di alienazione e ha visto diverse aste andare deserte. Di recente, per allettare di più i costruttori che fino ad ora non si sono fatti vivi, l’assessore “comunista” Pondrelli ha pensato di incentivare l’acquisto di quella che fu anche la sede storica di Piazza Grande, con un taglio degli oneri urbanistici a carico dei privati interessati.

Al di là delle notizie di questi giorni, è bene ricordare che una palazzina situata nell’area, che era stata sede dei vigili del quartiere San Vitale, fu occupata la sera del 13 aprile del 2012 da un gruppo di attivisti di area anarchica che issarono sui tetti e alle finestre dello stabile bandiere “No Tav”. Su uno striscione appeso sulla facciata dell’edificio c’era scritto: “La nostra libertà non può essere a discrezione del questore”. La mattina del 18 aprile, però, polizia e carabinieri arrivarono a sgomberare lo stabile, facendosi accompagnare dai vigili del fuoco. Ci misero più di quattro ore per far scendere gli ultimi occupanti che si erano asserragliati nel punto più alto del tetto. I Vigili del fuoco intervennero con le scale telescopiche, piazzando a livello del suolo un materasso gonfiabile per attutire eventuali cadute. Si può dire, quindi, che si assistette a uno “sgombero ad alta tecnologia”, anche se alla fine, come in tutti gli altri casi, arrivarono fabbri e muratori per sbarrare gli ingressi.

Bologna condivide, purtroppo, con Milano e Firenze il più alto tasso di chiusure di cinematografi dal 2003. Uno di questi cinema, situato a poche centinaia di metri dalle Due Torri, fu occupato dagli adepti di “Santa Insolvenza”, alla fine di un grande corteo, l’11 novembre 2011. E’ l’ex Arcobaleno, di piazza Re Enzo 1. Nella denuncia arrivata a 59 degli occupanti, la Procura della Repubblica ha scritto: “In concorso tra loro e con altre persone allo stato non identificate, arbitrariamente invadevano, al fine di occuparli e di trarne profitto conseguente, i locali siti in Bologna, Piazza Re Enzo al civico 1/d, già adibiti a sala cinematografica, di proprietà della società Emmegi Cinema srl, ivi stabilendosi allo scopo di organizzare in modo permanente le attività del c.d. Cartello ‘Time Out’, sigla questa riunente vari collettivi”.

Quale fosse il “profitto conseguente” gli occupanti non riuscirono mai a saperlo, in quanto, la mattina del 16 novembre, polizia e carabinieri intervennero in forze e sgomberarono l’Arcobaleno. Era stato chiuso per cinque anni, l’occupazione era stata il risultato di un percorso nato da diverse assemblee in Sala Borsa, aperte e partecipate, continuato con azioni comunicative guidate da Santa Insolvenza e culminato nel corteo organizzato per la giornata di mobilitazione internazionale lanciata da Occupy Wall Street. I ragazzi e le ragazze insolventi volevano trasformarlo in un Comunity Center, una piazza coperta dove sperimentare nuove pratiche capaci di dare risposte concrete alle problematiche imposte dalla crisi.

Il sindaco Merola fece il diavolo a quattro per ottenere lo sgombero in tempi rapidi. Secondo lui, Bologna non poteva permettersi un’occupazione nel salotto buono della città. Invece, a quanto pare, un posto murato, lasciato nel più completo abbandono, sì. Perciò l’Arcobaleno ritornò ad abbassare le sue serrande e chissà per quanto tempo ancora continueremo a vederlo sbarrato.

Dalla “sei giorni” dell’Arcobaleno, prese vita, tra le altre cose, N.O.A. (Nation of Art), una aggregazione di cineasti, musicisti e artisti che si misero insieme a partire da un sogno: “creare una casa delle arti”. L’associazione, nel 2012, sotto lo slogan “Liberiamo l’arte”, ha organizzato, per il 14 luglio, una “presa della Bastiglia”, fatta di arte, musica e teatro autoprodotti. La “Bastiglia” bolognese era l‘ex Centro Giovanile dei Giardini Margherita, in viale Drusiani 2, di proprietà del Comune. L’idea era quella di sperimentare e far vedere che ci potevano essere le condizioni per aprire una fucina creativa per la produzione artistica alternativa al mercato e lontana dal mainstream.

Il Centro Giovanile dei Giardini Margherita era stato il primo ad essere aperto dal Comune di Bologna. Eravamo nel luglio del 1959, ai tempi dei “Teddy Boys”. L’idea, molto semplice ma efficace, era quella di avvicinare i giovani facendoli divertire, con l’ausilio di istruttori qualificati, volontari e con l’uso di spazi ed attrezzature idonee, in grado di risolvere il problema del “cosa fare” nel tempo libero.
Inizialmente, si spaziava dalla Fotografia alla Chimica, dal Teatro alla Musica ai vari tornei di giochi e sport collettivi. Nel corso dei decenni quello spazio fu frequentato da migliaia di ragazzi e ragazze, finché, nel 2005, venne chiuso per lavori di manutenzione straordinaria. Come succede spesso in questi casi, il cantiere si interruppe prima che i lavori fossero ultimati, pare a causa di una ristrutturazione sbagliata. Questo motivo fu preso a spunto anche dal governo politico del Quartiere Santo Stefano per mettere in dubbio la continuazione dell’esperienza del centro giovanile. Il presidente, del Pdl, sosteneva che sarebbe stato meglio trasformarlo in un asilo. Ma per rendere la palazzina idonea a quell’uso era necessario un sì della Soprintendenza che avrebbe dovuto arrivare nel 2011. In attesa che il Comune concludesse i lavori di ristrutturazione e che il quartiere decidesse come utilizzare l’immobile, si verificò una situazione curiosa: il quartiere Santo Stefano chiese all’Associazione culturale PGM, che lì operava da 11 anni, un aumento del canone d’affitto annuale a 80.000 euro (poi ridotti in fase di trattativa a 64.000). Per capire come la richiesta fosse strampalata, è bene dire che l’esclusivo Circolo del Tennis, per tutta l’intera area che occupa all’interno dei giardini, paga 130.000 euro all’anno. Naturalmente PGM non accettò la proposta e se ne andò, trovando miglior prezzo sul mercato privato. E così sono passati ben sette anni e l’edificio a un piano, prospiciente il campo da basket, risulta vuoto, abbandonato e degradato.

Il 2 dicembre 2012, Asia-Usb e “Abitanti Resistenti” hanno occupato l’ex Istituto Odontoiatrico Berretta (già Villa Sabaudia) di via XXI Aprile 15, che era chiuso dal 3 settembre 2007. L’ex clinica, di proprietà dell’Ausl, è stata messa in vendita dall’azienda sanitaria, ma due aste pubbliche, chiamate a marzo e settembre 2011, non videro compratori interessati.

Nel mese di luglio 2011 gli abitanti del quartiere promossero una raccolta di firme. Nella petizione si poteva leggere: “Un elemento di grosso disorientamento deriva dalla constatazione
 che una struttura pubblica di così gran valore, abbandonata a se stessa da quattro anni crea nei cittadini della zona perplessità e sospetti sulle finalità che sottendono l’operazione economica ‘Ospedale Beretta’, in quanto appare a tutti evidente che lo sperpero di valore che ha creato l’abbandono di un’area che è stata per decenni oltre che presidio sanitario anche volano economico di un’intera via”.

Gli occupanti hanno motivato l’azione come una risposta diretta all’emergenza casa, di fronte alla latitanza del Comune di Bologna: “Gli spazi pubblici non devono essere venduti, ma riutilizzati a fini sociali”.

Pur con questi presupposti, la risposta repressiva non si è fatta attendere a lungo. Il 19 dicembre 2012 polizia e carabinieri si sono presentati e hanno chiuso l’occupazione con modi già ampiamente conosciuti. Per quanto tempo l’ex clinica odontoiatrica rimarrà chiusa e abbandonata? L’esperienza di un’altra ex struttura ospedaliera come Villa Salus sta a testimoniare che le nostre preoccupazioni non sono infondate.

Lo sgombero più recente è quello di Hobo, che aveva dato vita ad un “laboratorio dei saperi comuni” tra le vecchie serre dei giardini di via Filippo Re: un’area lasciata al completo abbandono fin dai primi anni Duemila, dopo la firma di un accordo tra il Comune e l’Università per il trasferimento di Agraria in zona Caab. Subito dopo l’occupazione, cominciata il 19 febbraio scorso, l’Ateneo ha fatto sapere che le strutture vanno abbattute perchè (guarda caso) “c’è un progetto”. Lo sgombero è arrivato dopo appena otto giorni con l’ingresso in Università di Polizia e Carabinieri in assetto antisommossa, “come non succedeva- hanno sottolineato gli occupanti- da 30 o 40 anni”.

Un altro spazio coinvolto da una dinamica abbandono / occupazione / sgombero / abbandono è l’ex Convento di Santa Marta in strada Maggiore 74, di proprietà dell’Asp Poveri Vergognosi, su cui Zic aveva fatto un’ampia inchiesta nel giugno di 2011. A quel tempo la nostra denuncia fu completamente oscurata dai media ufficiali. Il coperchio su questo pentolone di cattiva amministrazione e vergognosa sciatteria di certi amministratori pubblici è stato di nuovo sollevato in seguito all’occupazione promossa da Bartleby, il 27 gennaio 2013, alla fine di un corteo per protestare contro lo sgombero della vecchia sede di via San Petronio Vecchio. Quando il gigantesco portone di ferro che dà su via Torleone si è aperto, tutti hanno potuto vedere lo sconcio di un grande palazzo storico di prestigio, un tempo casa protetta per anziani, lasciato in uno stato di totale incuria e desolazione.

Anche in questa occasione, come aveva fatto almeno 20 volte in passato, il presidente dell’Asp, Paolo Ceccardi, non è riuscito a raccontare qualcosa di minimamente credibile sulle ragioni per cui l’ex convento è chiuso e abbandonato dal 2006. Addirittura il Ceccardi ha avuto la spudoratezza di chiedere lo sgombero immediato dell’immobile occupato perché dovevano partire in tempi brevi i lavori di ristrutturazione per attrezzarlo a residenza per anziani.

Ma a chi vuoi darla a bere “Paolone”? Siamo disposti a scommetterci le braghe che l’unica profezia che si avvererà sarà quella annunciata il giorno dello sgombero (il 30 gennaio 2013) da Bartleby: “Santa Marta sarà restituito alla polvere”…

Un tempo, dalle nostre parti, circolava un insetto a cui tutti aspiravano di farsi piantare il pungiglione. Quando questo accadeva, lo si gridava fieri in giro: “Mi ha punto il desiderio del meglio…”.

Di quell’insetto si sono perse da tempo le tracce, l’evoluzione in peggio (molto in peggio) del nostro “ecosistema politico/amministrativo” l’ha fatto completamente scomparire. In compenso, la ruggine è diventata il segno distintivo di gente come Merola, Dionigi e Frascaroli. Certo, sono gli ultimi arrivati, ma anche i loro predecessori nella ruggine ci avevano sguazzato e non hanno avuto nemmeno l’accortezza di spiegare loro che si trattava di un processo corrosivo che rende inutilizzabili gli oggetti della corrosione.

La ruggine, che un tempo era connaturata con la società industriale, oggi è diventata la caratteristica della società postmoderna. Siamo nel tempo in cui non sono più ammissibili “rovine”, cioè qualcosa che resta a testimonianza di momenti di storia passata. Il passaggio della modernità deve essere lastricato solo da macerie, polveri e detriti.

E anche in questo, purtroppo, a Bologna, siamo i primi della classe.

Nel 1988 il Comune di Bologna, spendendo diversi miliardi di vecchie lire, aprì in via Casteldebole 31 la nuova sede del Centro di Formazione Professionale comunale Galileo. Nel 1995, a causa della scelta di privatizzare la formazione, l’istituto venne chiuso. E tale rimase, in uno stato di totale abbandono, fino a quando, nel luglio del 2006, un centinaio di rom rumeni, dopo lo sgombero di un accampamento di via Gobetti, occupò l’edificio con l’aiuto di un gruppo di attivisti italiani. Avevano iniziato a portare avanti un interessante progetto di autogestione e di auto-recupero dell’immobile, quando, il 4 agosto 2006, il sindaco Cofferati mandò carabinieri e polizia a sgomberarli. La struttura, di nuovo vuota, si degradò ancora di più. Negli anni successivi non uscì nessun progetto di riutilizzo, anzi, il 14 dicembre 2010 l’amministrazione del Commissario prefettizio Cancellieri deliberò la cifra di 200.220 euro per l’abbattimento dell’immobile. Fu attivata la procedura d’urgenza perché “(…) negli ultimi tempi la situazione è considerevolmente peggiorata anche per successive presenze indebite, inopportune a causa di potenziali rischi per la sicurezza”.

Oggi, al posto del Galileo, ci sono macerie, detriti e polvere.

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Chiedi alla polvere: altri granelli [05/04/13]

A due mesi dalle dichiarazioni del Comune sulla mappa degli spazi inutilizzati, l’amministrazione non fa altro che ribadire la promessa. L’inchiesta di Zic intanto prosegue, segnalando ulteriori immobili in abbandono:

I casotti del Dazio, un tempo posti alle entrate della città, erano non solo i luoghi in cui si pagavano le gabelle, ma anche dove si caricavano e scaricavano le merci. Di conseguenza, era qui che si organizzavano le “balotte dei facchini”, gruppi di lotta e di mutuo soccorso di questa categoria di lavoratori. Quando i dazi furono aboliti, molti di questi spazi rimasero inutilizzati, alcuni vennero abbattuti.

Uno di quelli che rimase fu l’ex Dazio di via Mattei 28, posto all’entrata di Bologna, lungo la strada proveniente da Ravenna, da dove arrivavano le merci scaricate al porto.

Era vuoto e abbandonato quando un gruppo di migranti pakistani senza casa lo occupò alla fine degli anni novanta per trasformarlo nella loro dimora.

Vi rimasero fino al 15 ottobre 2002, quando la Giunta Guazzaloca ordinò lo sgombero.

Negli anni successivi l’assessore al commercio, il finiano Enzo Raisi, predispose un piano di recupero dell’immobile per realizzarvi un market di vicinato. Ma non fece in tempo a portarlo avanti che finì il mandato. Per tutti i cinque anni della Giunta Cofferati l’ex Dazio rimase vuoto. Fu la Giunta Delbono, alla fine del suo brevissimo mandato, nel gennaio 2010, ad assegnarlotemporaneamente al Lazzaretto autogestito. Il centro sociale ci rimase fino al mese di marzo del 2012, prima di vedersi assegnata la tensostruttura di via del Battirame 11 che era stata utilizzata dal Livello 57 fino al giugno 2006, quando l’autorità giudiziaria vi appose i sigilli. Poco dopo, nuovo cambio di programma: il Lazzaretto ottenne l’attuale sede di via Fiorini. La tensostruttura di via del Battirame rimase di nuovo inutilizzata, così come lo è stato, da allora fino ad oggi, l’ex Dazio di via Mattei.

Nel 1978 ogni quartiere di Bologna aveva un centro giovanile, ogni centro giovanile aveva un “maestro” (non esisteva ancora l’educatore), ogni maestro interagiva con una gran massa di giovani. A San Ruffillo il Centro giovanile era collocato dentro la palazzina “tonda” dell’ex Dazio, in via Toscana 180, vicino al ponte sul Savena. I primi “scazzi” tra la gestione comunale e i giovani frequentatori dello spazio avvennero sugli orari di apertura. Il centro giovanile non era solo del Comune, ma anche dei ragazzi che avevano imparato a conoscere gli spigoli del tavolo da ping pong e che avevano scoperto i segreti del basket nel campetto esterno. I ragazzi volevano che il centro rimanesse aperto anche alla sera, che ospitasse musica e corsi per impararla. Volevano stare insieme, fare cultura, fare politica, insomma creare socialità.

Non erano più sufficienti il biliardino e le crescentine, fritte dagli anziani in qualche occasione di festa, volevano decidere anche loro, insieme agli altri, come gestire il Centro giovanile.

Dopo alcune assemblee, si decise per l’occupazione, per dare vita a un centro sociale autogestito. Il primo manifesto si intitolava “Biliardo e Crescentine”. Lo spazio non era molto grande. Il bagno e tre salette al piano sopra e il salone centrale. Sotto, nell’interrato, un salone con ping pong e la sala caldaia caldissima, chiamata la sala Florida. L’adesione massiccia di persone lo trasformò in un centro di cultura attivo sempre giorno e notte. Anche la periferia aveva bisogno di vita notturna. Alcuni degli occupanti facevano parte di un collettivo politico di quartiere, altri occupanti frequentavano il centro per imparare a suonare la chitarra. Tutti erano affascinati dall’autogestione e si sentivano liberi e protagonisti.

Ma la lunga mano del PCI (il partito/stato al governo della città) non poteva tollerare questa esperienza fuori dalle regole e, ben presto, arrivò lo sgombero.

Poi il Dazio divenne sede di un circolo Arci. Nella seconda metà degli anni ’90, il Comune decise che da lì doveva passare la Fondovalle Savena, che in quel posto doveva nascere il raccordo con la via Toscana. Con gli oneri di urbanizzazione del supermercato Coop di via Corelli venne costruita da un’altra parte la sede del circolo Arci e, dal 2000, lo spazio venne chiuso, in attesa di essere abbattuto per il passaggio della strada. Sono passati oltre 12 anni ed è ancora lì vuoto e abbandonato.

Nel novembre 2006, la cooperativa informale di autorecupero “Famiglia Bresci”, composta da precari, studenti, immigrati, disoccupati e nullatenenti, decise di occupare uno stabile in via del Sostegno 84, nel quartiere Navile. Si trattava della casa di manovra del Sostegno, che sorgeva sulle sponde del canale Navile. Sottoposta alla gestione dell’Agenzia del Demanio, era vuota da anni, abbandonata al degrado e all’incuria.

Gli occupanti, forti del credo che “i diritti non vanno elemosinati, ma si prendono quando è in pericolo la dignità del vivere”, si misero al lavoro per mettere lo stabile in sicurezza. Con l’aiuto di architetti, ingegneri, muratori fu risistemato il tetto, seguendo le antiche modalità di costruzione e rispettando le tecniche architettoniche dello stabile. Ma un’ordinanza di sequestro della magistratura volle far finire in modo autoritario l’esperienza di autorecupero. 
L’Agenzia del Demanio di Bologna fu sorda alle proposte di apertura di un tavolo di negoziazione partecipato e condiviso.

Così la mattina del 24 ottobre 2007, con un’azione guidata dalla Polizia municipale, supportata da funzionari del Demanio, dalla Polizia di stato e dalla Digos (in tutto almeno 40 agenti), venne eseguito lo sgombero e la costruzione venne messa sotto sequestro giudiziario. In questo stato si trova ancora oggi, con la struttura dell’immobile sempre più devastata.

Nel marzo 2008 l’associazione “Casalone Rock Club – il Sottotetto”, che si era costituita nel 1993, lasciò la storica sede di viale Zagabria 1, che era stata occupata negli anni ’90 insieme ai ragazzi del Covo, e si trasferì nell’ex vivaio comunale di via Viadagola 16.

Lo spazio era nato a metà degli anni ’80 nel quartiere San Donato come centro di aggregazione giovanile e di promozione musicale. Nel corso degli anni, il Casalone era diventato un punto di riferimento nel panorama musicale bolognese.

Non i tutti i vecchi frequentatori del “Sottottotetto” furono d’accordo con il trasferimento. Un gruppo, qualche mese dopo, decise di rioccupare lo stanzone all’ultimo piano del Casalone di Viale Zagrabria.

L’occupazione non durò molto. Infatti, l’allora presidente di Quartiere, Riccardo Malagoli, oggi assessore alla Casa e ai Lavori pubblici, ordinò lo sgombero dichiarando che lo spazio doveva essere adibito ad asilo. Dal giorno in cui la polizia mise i sigilli il luogo è rimasto vuoto e inutilizzato.

> Le foto di tutti gli spazi citati nell’inchiesta:

http://www.flickr.com/photos/zicphoto/sets/72157632921434186/show/