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“L’11 maggio si avvicina”: una prima inchiesta sul lavoro povero

In vista della prima tappa pubblica del Laboratorio Bologna, il percorso di inchiesta collettiva che è nato in città negli ultimi mesi propone un approfondimento “sulle nuove forme del lavoro oggi in diffusione e sulle relative nuove possibilità di lotta”.

01 Maggio 2024 - 18:35

“L’11 maggio si avvicina. Mancano dieci giorni alla prima tappa pubblica del Laboratorio Bologna, un primo momento di discussione e intreccio di analisi, sguardi, rivendicazioni- segnalano le realtà che partecipano al progetto- dentro e oltre la città di Bologna. In attesa di pubblicare il programma completo della giornata con tutte le info utili, vi consigliamo la lettura di questa prima inchiesta sulle nuove forme del lavoro oggi in diffusione, e sulle relative nuove possibilità di lotta”: l’approfondimento si intitola Una repubblica fondata sul “lavoro povero” e ne proponiamo il testo in questa pagina.

“In Italia un lavoratore su otto vive in una famiglia con reddito insufficiente a coprire i propri fabbisogni di base- si legge in un passaggio dell’inchiesta che funge da presentazione- e l’effetto della povertà lavorativa, misurato dal punto di vista familiare, è cresciuto di tre punti percentuali in poco più di un decennio. Siamo l’unico Paese in Europa che, negli ultimi trent’anni, ha visto diminuire il salario medio. Può sembrare un paradosso, ma ormai combattere la povertà dei lavoratori e delle lavoratrici non è meno complesso che abolire quella dei disoccupati”.


Una repubblica fondata sul “lavoro povero”

L’articolo 36 della Costituzione prevede il “diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato”. Come questo articolo sia da tempo carta straccia è evidente ai più e, forse, sarebbe il caso, per diminuire l’ipocrisia che c’è in giro, aggiungere all’articolo 1 della Carta una parola: “l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro povero”.

In effetti, sono calcolati in tre milioni i lavoratori italiani che hanno una paga oraria al di sotto la soglia dei 9 euro lordi di un ipotetico salario minimo, previsto nelle varie proposte parlamentari. Le principali cause dei fenomeni di “lavoro povero” sono le basse retribuzioni, la precarietà e il regime di orario a tempo parziale imposto (sul totale degli occupati la quota part-time è 18,2% – per le donne l’incidenza è del 31,1% – Un lavorate part-time e a termine guadagna in media poco più di 6 mila euro all’anno). Queste sono condizioni che colpiscono principalmente i giovani sotto i 35 anni, le donne e i lavoratori migranti. Ad essere investiti dalla povertà lavorativa sono quei soggetti che spesso svolgono mansioni semplici e ripetitive (ma ormai il fenomeno si sta espandendo anche in settori di lavoro cognitivo), la cui remunerazione è inferiore ai 2/3 del salario orario mediano.

In Italia un lavoratore su otto vive in una famiglia con reddito insufficiente a coprire i propri fabbisogni di base e l’effetto della povertà lavorativa, misurato dal punto di vista familiare, è cresciuto di tre punti percentuali in poco più di un decennio.

Siamo l’unico Paese in Europa che, negli ultimi trent’anni, ha visto diminuire il salario medio.

Può sembrare un paradosso, ma ormai combattere la povertà dei lavoratori e delle lavoratrici non è meno complesso che abolire quella dei disoccupati.

In Italia esisteva una legge del 1960 contro il caporalato che obbligava le aziende della stessa filiera produttiva ad applicare uguali condizioni. Con la riforma del mercato del lavoro del 2003 (la cosiddetta legge Biagi) quella norma è stata abolita e, da allora, sono consentiti i subappalti con contratti diversi nella stessa filiera.

Tutto ciò ha alimentato il fenomeno del cosiddetto “dumping contrattuale” fondato sulla proliferazione incontrollata di contratti collettivi che permettono tutte quelle pratiche attraverso le quali i datori di lavoro ottengono una riduzione selvaggia del costo del lavoro, ricorrendo nello stesso comparto a forme contrattuali sempre più al ribasso dal punto di vista economico, a comportamenti discriminatori e a condizioni inique nei confronti di lavoratrici e lavoratori con scarsa o nulla capacità rivendicativa e negoziale. Se negli ultimi vent’anni, in Italia, si è esternalizzato tutto il possibile e l’immaginabile è anche per questo.

Ma oltre ai cosiddetti “contratti pirata”, nel nostro paese c’è stata pure una contrattazione ufficiale (sottoscritta soprattutto dai sindacati confederali) che ha prodotto negoziati e intese al ribasso soprattutto sulla parte salariale, ma non solo.

Un esempio su tutti: il contratto nazionale multiservizi, usato in settori come le pulizie (con 550 mila addetti di cui due terzi donne) o la sanificazione. Si tratta di un accordo sottoscritto non dalle sigle minori ma dai sindacati più importanti, che prevede una paga oraria al minimo e un’alta flessibilità. Questi elementi lo hanno trasformato in uno strumento di “dumping contrattuale” anche in altri settori come la rete ospedaliera e il circuito delle rsa, la ristorazione collettiva, il sistema museale, custodi e steward di eventi sportivi, i servizi esternalizzati di molte grandi fabbriche e pure di istituzioni pubbliche come gli atenei universitari. Per esempio, molti addetti di strutture alberghiere si sono visti togliere il contratto di settore e applicare il multiservizi perché meno oneroso per i proprietari.

E c’è pure qualcosa di peggio: il contratto nazionale dei “Servizi fiduciari”, con una paga oraria che arriva a sette euro. Lo si potrebbe definire una specie di “dumping istituzionale” in quanto si tratta di servizi di portierato, vigilanza non armata per la maggior parte di appalti di settore pubblici (vinti con offerte al massimo ribasso). Poi tante figure professionali con ruoli amministrativi, impiegati/e di sportello, call center dei centri di prenotazione o segreterie di ambulatoriali. E la stragrande maggioranza dei contratti individuali sono costituiti da part-time involontari.

Non esiste una mappa precisa del lavoro povero così come non esiste del sommerso. In diversi settori (come logistica, ristorazione, grande distribuzione, turismo, riders e stagionali) spesso i padroni attivano contratti apparentemente regolari, che poi vengono falsati perché le ore lavorate sono più di quelle previste e corrisposte regolarmente. Infatti, quasi sempre, le ore straordinarie vengono pagate male o addirittura non retribuite. A prevalere sono occupazioni deboli e saltuarie, con impieghi di breve durata che spesso si accavallano. C’è un incremento consistente della precarietà, con molte persone che la pandemia aveva ridotto sul lastrico che accettano qualsiasi proposta lavorativa e, al tempo stesso, non riescono ad uscire minimamente dalla grave situazione di difficoltà e incertezza di vita.

ANCHE A BOLOGNA E IN EMILIA-ROMAGNA SIAMO ALLA FRUTTA

Partiamo da un confronto con qualche anno fa. Se in un passato recente con 1.400 euro al mese si tirava la cinghia ma, a fatica e con sacrifici, si riusciva a tirare avanti; adesso, con i rincari dei prezzi che ci sono stati, 1400/1500 euro al mese non solo ti costringono ad arrancare, ma non bastano più a sostenere i costi del carrello della spesa, dell’abitare, delle tariffe, dei carburanti e della salute. Il limite della sopravvivenza si è alzato, ma i redditi sono rimasti fermi al palo o, addirittura, sono arretrati.

Pensiamo perciò a tutte quelle e a tutti quelli che stanno al di sotto di quelle cifre salariali, che vita mai potranno fare?

Anche a Bologna e in Emilia-Romagna le forme di lavoro povero si sono propagate a macchia d’olio. Non ci sono mai stati numeri così grandi di occupazione da “vita indigente”. Parliamo di quella fascia di lavoratrici e lavoratori che percepiscono annualmente una retribuzione intorno agli 8.145 euro. Si tratta di un universo sociale molto ampio che conosciamo sommariamente, composto da coloro che percepiscono una paga oraria inferiore a 6,50 euro. Quale sia la soglia di lavoro povero è materia di dibattito, secondo i più potrebbe essere indicata fra i 65 e i 70 euro lordi al giorno. Le sacche del lavoro che produce indigenza sono quelle della ristorazione, del turismo, della logistica, dei servizi, del settore sociale, dei servizi alla persona, dell’assistenza sanitaria, della vigilanza privata e dell’istruzione. I salari più bassi sono per le donne, gli stagionali e i “tempi determinati” (a Bologna, nel 2022, c’erano quasi 48 mila contratti a termine).

Molti lavoratori con contratti a tempo determinato stanno sotto la soglia dei 65 euro al giorno: ristorazione (57,1), i servizi alla persona (65), vigilanza (58,1), attività sportive (61,3).

Se poi oltre al contratto a termine si aggiunge l’essere donna o lavoratore stagionale, gli stipendi cadono ancora più in basso: la ristorazione è a 53,9 euro lordi, i servizi alla persona a 60,3, i servizi alle imprese 61,3.

Due dati indicativi: quasi un lavoratore su cinque dichiara meno di 10 mila euro annui di reddito, quasi uno su tre resta sotto i 15 mila.

Il supersfruttamento nella logistica

L’Interporto di Bologna, così come altri centri della logistica, attraverso le catene di appalti e la polverizzazione delle imprese subfornitrici ha scatenato una concorrenza al ribasso rispetto alle condizioni di lavoro, le paghe orarie, la precarietà dei contratti, la sicurezza degli ambienti lavorativi e la prevenzione degli infortuni. Quando qualcuno sostiene che l’Interporto di Bologna, rispetto ai salari e ai livelli di sfruttamento dei lavoratori migranti, non è molto diverso dai campi di pomodori della Puglia, della Sicilia e della Campania, non fa un paragone insensato. Nella campagne ci sono i caporali, nei magazzini gestiscono la mano d’opera le agenzie interinali e le cooperative farlocche: il caporalato metropolitano si basa sulle stesse situazioni di ricatti e di abusi di quello agricolo.

I lavori poverissimi nella ristorazione

Incrociando diverse inchieste e ricerche nel settore della ristorazione e delle attività ricettive il nero e il sommerso arrivano a numeri smisurati: si parla, a livello nazionale, di 500 mila persone impiegate in condizioni di lavoro irregolare (con quanto ne consegue anche in termini di evasione fiscale). Un altro dato significativo è che il 70% delle segnalazioni di denunce legate all’ispettorato del lavoro riguarda questi settori.

Cameriere, baristi o lavapiatti sono figure professionali che si mettono in tasca una miseria. Se poi ai salari da fame aggiungiamo i contratti precari, o non regolari, se non addirittura inesistenti, si va ben oltre la normale “oscenità sociale”.

Le forme di irregolarità sono molteplici: si va dal prolungamento dell’iter di assunzione all’uso di studenti che lavorano in nero per mantenersi agli studi; dallo sfruttamento dei ragazzi e delle ragazze delle scuole alberghiere durante il percorso di alternanza scuola-lavoro alle richieste di part-time a 25 ore settimanali che in realtà diventano turni lavorativi di 40 o, addirittura, 50 ore.

Tra i bar, i pub, le pizzerie, le trattorie e i piccoli ristoranti l’uso del lavoro a chiamata, a Bologna, è molto diffuso. Da diverse denunce di lavoratori si è appreso che i gestori, utilizzando il contratto a chiamata, spesso segnano meno ore lavorative di quelle effettive e il resto che spetterebbe al dipendente viene dato in nero. Per legge, la tipologia contrattuale del lavoro a chiamata non dovrebbe superare il 20% del totale dei dipendenti, ma in tanti locali in città la percentuale è molto più alta e si sono affinati modi “artificiosi” per fare risultare i dipendenti “in regola” se arriva un controllo dell’ispettorato del lavoro.

Gli addetti dell’handling dell’areoporto

A fronte di un record di passeggeri e utili che ogni anno incrementano i loro numeri, le cifre dei salari degli addetti allo scalo aeroportuale di Bologna sono da fame e, come si dice in questi casi, “non stanno al passo dei costi della città”. E questi lavoratori, oltre che sgobbare, a Bologna ci devono pur vivere. All’aeroporto Marconi sono impiegati tra i 2 mila / 2 mila e 500 lavoratori: 600 sono dipendenti diretti di Adb, i rimanenti (come gli addetti ai bagagli, al check-in, alla sicurezza) sono alle dipendenze di altre aziende di Handling. Facendo una media del salario di un operaio full time che scarica bagagli escono questi numeri: 14.750 euro lordi all’anno che corrispondono a una retribuzione di 1.229 lordi al mese, 284 euro lordi alla settimana o 7,26 euro lordi all’ora. Ma ci sono lavoratrici e lavoratori precari che guadagnano molto meno. E i turni che si effettuano sono massacranti.

Gli “scaffalisti” di Coop Alleanza 3.0

Uno dei momenti più imprevisti di lotta sindacale sono stati gli scioperi nei punti vendita Coop Alleanza 3.0 del territorio bolognese, avvenuti nello scorso mese di marzo e causati dalla decisione della direzione della Coop di esternalizzare parte delle attività di allestimento scaffali.

Lo scaffalista è un mestiere con stipendi che toccano i quattro euro l’ora e che vede in tutta Italia ben 244 contratti che lo “regolamentano” con varie modalità per lo più “piratesche”. Arriva a fare fino a 12 ore a giornata (spesso di notte).

Gli scaffalisti sono quei “lavoratori fantasma” (dipendenti di cooperative multiservizi o di agenzie interinali) incaricati di collocare la merce sugli scaffali dei supermercati, dopo averla tirata fuori dagli scatoloni e dopo averla prezzata.

Insomma, se la “sostenibile” Coop ha fatto questa scelta, le sue ragioni sono bene evidenti: il percorso di tracciabilità del suo prodotto basato sulla sostenibilità ambientale, economica e sociale, si ferma alle porte dei suoi supermercati e non prevede le condizioni salariali e di lavoro dei suoi dipendenti.

Le cooperative sociali e i lavori del welfare municipale

Circa il 70% degli operatori e delle operatrici delle coop sociali ha una laurea, quindi generalmente si tratta di persone più qualificate rispetto alla media del mercato del lavoro italiano. Il contratto nazionale della cooperazione sociale prevede 10 livelli. A livello di stipendio si va dagli inserimenti lavorativi da 800/900 euro al mese sino a media salariale che si attesta fra i 1.200 e i 1.400 euro al mese. C’è una grande immissione di forza lavoro precaria, per fare un esempio: le operatrici socio sanitarie o addette all’assistenza di base nelle rsa hanno uno stipendio, al lordo delle ritenute previdenziali e della tassazione Irpef, di 8,9 euro ovvero 10 centesimi meno dei 9 euro orari previsti dal disegno di legge sul salario minimo.

Un altro caso è quello delle assistenti sociali (per questo lavoro è richiesto un diploma di laurea universitario di tre anni). Ci sono tanti posti vacanti: servirebbero figure professionali specializzate in molti ambiti, tra cui consultori, Asl, carceri, Sert e centri per servizi di salute mentale. A quanto pare, la professione non è più considerata attrattiva: gli stipendi restano piuttosto bassi con una media di 1400 euro mensili, mentre le responsabilità sono molto ampie.

Altro dato importante: in una cooperativa sociale gli incrementi di carriera sono quasi inesistenti, perciò il livellamento salariale medio/basso diventa una caratteristica di tutto il percorso lavorativo.

Rispetto alla composizione della forza-lavoro delle cooperative sociali, la questione di genere diventa un asse di analisi imprescindibile. Secondo i dati della stessa Legacoop infatti nelle cooperative che forniscono servizi essenziali, il 70% delle lavorator* sono donne. Questo dato muta a seconda del settore: nelle coop agricole il dato si attesta al 37% circa, aumentando nei servizi all’impresa e nel commercio ma trovando nel welfare privatizzato il suo picco. Questa mera analisi quantitativa ci illustra una divisione sessuale del lavoro in cui il lavoro riproduttivo (anche se salariato, male) è appannaggio delle soggettività femminilizzate. Seppur manca un dato quantitativo, se andiamo inoltre ad analizzare il 30% maschile (o presunto tale, visto che la maggior parte delle cooperative sociali, al di là della retorica inclusiva, non dispongono neanche di strumenti a costo zero per l’affermazione di genere come le carriere alias), non possiamo ignorare la forte presenza di soggettività queer nel settore della cura.

Qui troviamo una forte genderizzazione del lavoro che da un lato continua a non dare alcun valore al lavoro domestico all’interno delle relazioni familiari, dall’altro sottopaga e mette a valore lo stesso in un regime salariato. Allo stesso tempo il settore cooperativo assorbe molto spesso la stessa manodopera migrante di cui ha in carico la cura e diventa anche settore di giovani laurat* che provengono dal Sud e dalle periferie di questo Paese. Cos’hanno in comunque queste marginalità nel settore? Il fatto di dover spesso gestire la stessa marginalità abitativa che vivono sulla loro pelle, causa salari da fame. Il tutto con cooperative che fingono di essere motore di inclusione sociale, con workshop e dichiarazioni altisonanti, ma che in realtà si nutrono e diventano parte dello stesso sistema di esclusione e marginalizzazione che colpisce i nostri corpi in diversi modi.

Lavoro riproduttivo e di cura: siamo gender che lavora!
Il valore prodotto dal dispositivo di genere dentro e fuori il circolo produttivo

Da molti anni, le condizioni un tempo tipiche del lavoro della casalinga – ovvero, la disponibilità permanente h24 per 7 giorni su 7, la dipendenza dalle necessità e urgenze altrui, la totale versatilità in assenza di un mansionario chiaramente pattuito, la completa mancanza di tutele e regolarità, l’assoluta incongruenza tra ore di lavoro e remunerazione, la dedizione obbligatoria – sono diventate comuni a tutto il lavoro, che sia riconosciuto come tale o meno. Fare volontariato con la promessa di un futuro impiego che non arriva mai, lavorare molte ore in più di quelle pagate, essere costrett3 a sentire (o a fingere di sentire) come proprie le necessità dell’azienda o dell’amministrazione per cui si lavora, mettere nel lavoro tutte le proprie risorse e capacità di relazione, mediazione, cura, seduzione e socialità senza niente in cambio, solo per poter restare a galla.

Inoltre, un’altra caratteristica del lavoro di cura e domestico tradizionalmente svolto dalle donne si sta generalizzando: lo sfruttamento dell’identità di genere, ivi compresi i generi queer. Da sempre alle donne è richiesto, anche nei luoghi di lavoro salariato, un surplus di lavoro di cura delle persone, degli spazi, della comunicazione, perché ci si aspetta che tutto questo faccia parte della “femminilità”. Spesso si tratta anche di lavoro “sessuale” (curarsi e offrire il proprio corpo al piacere sessuale quantomeno visivo di colleghi, clienti, capi; sopportare con un sorriso molestie verbali; spesso subire anche molestie fisiche), estorto con il ricatto del rinnovo del contratto ma anche con le armi dei modelli di genere dominanti. Da gay, lesiche e trans si estorce più lavoro e più sottomissione con l’arma dell’omo-lesbo-bi-transfobia ma anche con quella dell’inclusione parziale e sempre precaria, che sono due facce della stessa medaglia. Chi deve nascondere di essere lesbica, gay o trans sul luogo di lavoro è doppiamente ricattabile, ma anche chi ha trovato un luogo di lavoro dove può finalnente essere out sa che deve tenerselo stretto, perchè difficilmente ne troverà un altro. E chi sceglie di non nascondere il proprio orientamento sessuale, specie nelle professioni educative e di cura, devi essere sempre impeccabile nel lavoro e piacere a tutti, per non fornire pretesti agli attacchi omo-lesbo-bi-transfobici che sono sempre dietro l’angolo. Non a caso i lavori più precari e sottopagati, le forme contrattuali più deboli, sono anche quelle più sessualizzate e razzializzate. Chi deve lottare quotidianamente per i propri diritti civili, contro il pregiudizio omofobico e transfobico, fatica doppiamente a lottare per salario e contratto, per i propri diritti sociali. Al contempo i diritti civili, in presenza di discriminazioni sociali, risultano fruibili soltanto dalla parte privilegiata della società. Nessun diritto civile è realmente universale quando cade in un mondo diviso tra sfruttati e sfruttatori, tra precari e precarizzatori, tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri.

Lo sfruttamento ha mille facce, funzionali l’una all’altra, che si alimentano e si sostengono. La massimizzazione del profitto sulla nostra pelle si avvale anche dell’esistenza di ruoli di genere, di identità e orientamento sessuale. Moltissime delle prestazioni lavorative che svolgiamo producono profitto ma non sono riconosciute come lavoro e quindi non sono pagate. Ci dicono che fa parte del “lato umano” del lavoro, che sono un modo per esprimere la nostra femminilità, maschilità, queerness o altro ancora, a seconda dei casi. Sul lavoro non si tratta più solo di “fare” qualcosa, ma di mettere a profitto tutto quello che fa parte del “vivere”, le passioni, le idee, la capacità di relazionarsi, l’affettività, la nostra soggettività, il nostro modo di presentarci nel mondo, di caratterizzarci. Qualunque esso sia. Per questo possiamo parlare di messa al lavoro dei generi, di tutti i generi (che siano codificati come etero o queer).

Come soggettività LGBTQIAP+ siamo sempre stat* dentro il processo produttivo, nonostante la nostra presenza sia stata silenziata, da un lato, dalla rappresentazione di una falsa working class tutta bianca, maschia, cisgenere ed eterosessuale, e dall’altro lato dalle stategie di “diversity management” che si sono basate negli anni su questa rappresentazione.

Assistiamo ad una gestione differenziale del genere, dell’orientamento sessuale e delle condizioni di disabilità o neurodivergenza: vengono mostrate e valorizzate dove rendono di più, nascoste, represse e corrette dove rendono di meno. Una vera e propria “disciplina di fabbrica” del genere, estesa a tutti i contesti lavorativi e diversa per ogni settore. Con conseguenze materiali e dirette sulle nostre vite: dalla gestione delle molestie sul (e del) lavoro, al mobbing, al riconoscimento di alcune e non altre condizioni di disabilità, all’erogazione o meno delle carriere Alias, all’estorsione di lavoro extra.

Oltre a tutto questo, c’è il lavoro riproduttivo, che non è solo mettere al mondo nuovi esseri umani, ma prendersi cura giorno dopo giorno della sopravvivenza quotidiana nostra e altrui: il lavoro più necessario e al tempo stesso più misconosciuto, senza il quale nessuno di noi sarebbe in grado di andare a lavorare. Nutrirsi, dormire, curarsi, vivere. Mantenere un’accettabile livello di salute mentale. Il tempo da dedicare a queste semplici e necessarissime attività è sempre più compresso, l’energia sempre meno, consumata da ore e ore di lavoro povero o dalla ricerca di ulteriore lavoro. E poi bisogna prendersi cura di anzian3, bambin3, persone con disabilità, persone con fragilità emotive o condizioni di neurodivergenza: compiti per i quali il supporto dei servizi pubblici è drammaticamente insufficiente, e che sono scaricati integralmente sulle spalle di amici e familiari sempre più stanchi. Ma soprattutto di amiche e di familiari di genere femminile sempre più stanche e sfruttate.

Quando viene salariato, il lavoro riproduttivo diventa sostanzialmente tutto quel settore della cura che ha subito un forte incremento nei mesi della pandemia. Badanti, figure ospedaliere precarie, cooperative di pulizie, impieghi mal retribuiti nel terzo settore, singole figure che lavorano nella cura della casa per singole famiglie. Settori in cui la maggior parte della forza lavoro è costituita da donne e soggetti femminilizzati e razializzati, soggetti al ricatto del permesso di soggiorno e perciò più sfruttabili.

A Bologna, poi, la spinta a sostituire con l’associazionismo i vuoti dei servizi pubblici è fortissima, e travestita da “innovazione”: si traduce in condizioni di lavoro ancora più precarie ed in ulteriore estorsione di lavoro non pagato tramite tirocini, volontariato, stage ma anche e soprattutto tramite la competizione fra i soggetti associativi, costretti a lavorare gratis per costruire relazioni, per fare curriculum associativo e produrre nuove idee con cui cercare di accaparrarsi fondi.

Nell’industria non c’è lavoro povero?

A fronte del dibattito sul lavoro povero, gli industriali si sono affrettati a dichiarare che nel settore manifatturiero il fenomeno è meno presente. Che la famosa soglia dei 65/70 euro lordi giornalieri che lo contraddistinguono nelle aziende è abbondantemente superata, arrivando a una media di 92,30 euro giornalieri, con picchi nell’industria meccanica che superano i 100 euro lordi. Quello che non dicono è che questi numeri riguardano le aziende maggiori, in tutte le fabbrichette dell’indotto (che svolgono la maggior parte delle produzioni per conto delle “aziende madri”) i salari assomigliano molto a quelli dei portabagagli dell’aeroporto. E anche nei capannoni della grande industria è un brulicare di lavoratori in appalto (nelle mense, nelle pulizie, nelle spedizioni, nei magazzini). C’è poi un fenomeno più recente che avviene in molte grandi aziende metalmeccaniche, nei reparti di produzione ai lavoratori dipendenti dell’azienda capofila si affiancano sempre più spesso operai delle aziende subfornitrici che fanno il lavoro degli altri e prendono 2/300 euro in meno al mese (e il sindacato non apre bocca).

Altri casi da segnalare riguardano l’utilizzo di lavoratori rumeni in piccole fabbriche metalmeccaniche, che fanno parte del circuito dell’indotto di importanti gruppi industriali. Utilizzando una norma della direttiva Bolkestain che prevede il “il distacco di lavoratori all’interno dell’Unione Europea”, aziende bolognesi fanno contratti con aziende rumene (tipo agenzie interinali) che distaccano loro lavoratori nel nostro territorio, retribuendoli con salari dell’importo di quelli erogati in Romania. Quindi si verifica il fatto che i lavoratori italiani che prendono 10/11 euro all’ora si ritrovano a lavorare al loro fianco lavoratori rumeni che prendono 4/5 euro all’ora. Naturalmente i lavoratori autoctoni se la prendono coi loro dirimpettai “europei poveri” che, in questo modo, portano via il lavoro deprezzandolo. E non si incazzano con i padroni che hanno deciso il piano o con i “caporali rumeni” delle agenzie, alimentando così la tanto decantata “guerra tra poveri”. E, anche in questo, caso (in una situazione di “negoziazione avanzata” come quella bolognese) il sindacato non dice una parola.

OSSERVAZIONI PER UN FINALE APERTO

Tutti gli esempi che abbiamo portato dimostrano come sia ancora centrale la questione dei rapporti di forza nello storico conflitto tra “capitale e lavoro”, è da lì che sono sempre scaturiti i risultati più o meno favorevoli ai diritti dei lavoratori. E, attualmente, l’asse della bilancia di questi rapporti non propende verso i bisogni della forza lavoro. Perciò la contrattazione collettiva, di per sé, non è stata in grado di salvaguardare i salari dei lavoratori. C’è stata una sua oggettiva difficoltà a sostenere la dinamica salariale e in diversi settori è cresciuta la cosiddetta “povertà lavorativa”.

E’ partire da queste difficoltà che lo strumento dell’inchiesta sociale, attraverso l’esperienza sul campo e il rapporto con pratiche dal basso, può essere uno arnese adeguato ed efficace per capire meglio le trasformazioni sociali e le differenze prodotte dal nuovo mercato del lavoro. Un’attività di ricerca non accademica legata al bisogno di comprendere la realtà senza compiacimenti e soprattutto la condizione di precarietà che caratterizza diverse figure sociali e la situazione di indigenza a cui sono costrette. Un metodo dove ricerca e pratica sociale, lavoro scientifico e impegno per costruire e organizzare nuove forme di lotta adeguate ai tempi, si dovranno intrecciare. Una pratica di inchiesta, che esplori la condizione lavorativa/esistenziale e la soggettività delle persone, analizzate nella loro quotidianità, mettendosi a confronto con il punto di vista espresso direttamente dai soggetti coinvolti. Le nuove forme sfruttamento lavorativo non sono idee astratte; sono sempre forme particolari e materiali. Perciò non dovremo far luce solo sui mutamenti delle forme del lavoro, ma anche sui mutamenti conseguenti delle forme di lotta.

LE ABISSALI DISPARITA’ DEL CAPITALISMO FINANZIARIO

Per decenni, per descrivere efficacemente le insopportabili diseguaglianze della scala gerarchica sociale abbiamo sempre messo a confronto il salario di un operaio Fiat e lo stipendio dell’amministratore delegato della fabbrica di automobili. Ha ancora una certa incisività.

Valletta, amministratore delegato della Fiat negli anni ’60 del boom economico, guadagnava dodici volte lo stipendio di un operaio.

L’attuale amministratore delegato Tavares guadagna 518 volte il salario di un dipendente.

L’anno scorso, Tavares ha guadagnato 70 euro al minuto, 4.152 euro all’ora e quasi 100 mila euro in un giorno. In un giorno guadagna quello che un suo operaio che rischia il licenziamento prende in cinque anni di lavoro.

Forse è da lì che bisogna partire per spiegare cos’è il capitalismo, anche nella versione turbo, basata su potenti algoritmi atti a rafforzare un sistema che si estende ben oltre la fabbrica.

C’è chi deve essere povero e chi no, e questo vale in tutte le dimensioni dello sviluppo capitalistico, in tutto il mondo.

Il sistema si presta ad essere terreno di contesa, si pensi alle crypto, continuamente rincorse dal capitale che vuole fagocitare tutto. Riconoscere al suo interno le disuguaglianze è un punto di partenza per attaccarlo nella sua interezza, visto che nessuno dei sotto-sistemi, che siano stati o multinazionali, lo fa.