Sono tante le ragioni e i casi per cui si rende necessaria una narrazione “altra” su quello che sta avvenendo. La devono raccontare direttamente i tanti soggetti che hanno subito sulla loro pelle gli effetti sanitari, economici e sociali della pandemia. Prosegue con questo terzo articolo l’inchiesta autogestita sul servizio sanitario bolognese.
Quando come Zic.it, insieme all’Assemblea per la Salute del Territorio, abbiamo proposto un’inchiesta autogestita sul servizio sanitario bolognese nella seconda fase della pandemia da Covid non era nostra intenzione buttare pregiudizialmente la croce addosso a qualcuno.
Infatti, l’iniziativa promossa il 21 novembre davanti all’ospedale Maggiore era a sostegno del personale sanitario, contro i tagli alla sanità pubblica, per tamponi gratuiti e accessibili a tutti. Era chiaro, però, che tutto quello che a livello politico e amministrativo non era stato fatto tra la prima e la seconda fase dell’epidemia non poteva passare sotto silenzio.
È troppo evidente che, tra marzo e oggi, troppe cose sono rimaste uguali. Sono troppi gli episodi che dimostrano che si sta andando verso una vera e propria disfatta del sistema di tracciamento dei contatti. Se questo sistema avesse funzionato il sostegno per combattere la diffusione del virus sul territorio sarebbe stato reale, ma così non è stato. Perciò ci è sembrato necessario chiedere quali risorse tecniche e organizzative fossero a disposizione del Dipartimento di Sanità Pubblica per fronteggiare la situazione in cui ci siamo trovati.
Qualcuno ha sostenuto che queste preoccupazioni erano esagerate, che la situazione sul territorio era quasi ottimale, che un tampone a Bologna si poteva avere in 24/48 ore anche solo per tracciamento e che quelli urgenti erano fatti a domicilio in giornata. Gli operatori sanitari che collaborano con noi all’inchiesta ci hanno detto, invece, che nell’ultimo periodo il sistema di tracciamento ė saltato ed è lasciato al buon cuore dei medici di Medicina generale che lo fanno prenotando tamponi che sarebbero dedicati alle diagnosi. Questa cosa intasa il sistema di diagnosi e ha fatto allungare anche a 4/5 giorni il tempo di attesa per un tampone. A causa di tutto ciò non è più possibile una politica di prevenzione attiva della diffusione del contagio, basata sull’individuazione dei contatti, sui test diagnostici, sulle disposizioni di isolamento. Ci hanno pure ribadito che l’Ausl di Bologna è indietro di migliaia di casi nel tracciamento, perciò la prevenzione attiva ormai è diventata incompatibile con la velocità di diffusione del virus.
Non sappiamo se sia dipeso da quello che abbiamo denunciato quando abbiamo presentato l’inchiesta autogestita, fatto sta che lo scorso 27 novembre anche il Comune di Bologna, per voce dell’assessorato alla Sanità, ha ammesso che, per via dei troppi contagi, in diverse circostanze, il tracciamento dei casi di positività al virus da parte dell’Ausl non è stato fatto “in modo completo ed esaustivo”.
Tra l’1 ottobre ed il 26 novembre, è il calcolo di Palazzo d’Accursio, si è dovuto far fronte a 16.195 nuovi casi confermati (erano stati 6.348 da inizio pandemia al 30 settembre): si è trattato di un incremento che ha mandato in tilt la macchina del contact tracing. Per ogni episodio di contagio, secondo l’assessorato, si hanno in media circa tre/quattro contatti stretti e, per questo motivo l’attività di tracciamento, in diversi casi, non si è potuta realizzare in modo completo ed esaustivo. A rincarare la dose è stato, nello stesso giorno, il direttore del Dipartimento di Sanità Pubblica dell’Ausl di Bologna. L’esplosione del servizio di tracciamento dei contagi, avvenuto nelle ultime settimane, sarebbe causata dai troppi casi e dalle notevoli difficoltà a risalire ai “contatti stretti”. Secondo il dirigente dell’Azienda sanitaria, in questo momento, la struttura sarebbe impegnata in un enorme lavoro di “intelligence” per cercare numeri di telefono e indirizzi mail, dato che senza questi presupposti non è possibile contattare le persone e inviare il “provvedimento normativo che intima la quarantena”. E’ questa indispensabile “perdita di tempo” che, per il direttore del Dps ha provocato il patatrac: “Se ci prendiamo in carico tutto come nella prima fase, con 650 casi al giorno che sono diventati 2.500 con i contatti stretti, non sappiamo più che cosa è successo a quella persona nel suo percorso. E’ tutto talmente esploso che non si riesce più a tracciare la persona nella sua completezza”.
Ma tutto questo non è capitato per volontà divina. Per quale motivo, in questi mesi, in previsione della seconda ondata di pandemia la programmazione politica e la dirigenza dell’Asl non ha fatto organizzato un servizio all’altezza della situazione? Perché gli operatori non sono stati messi in una condizione ottimale per affrontare i problemi che si sarebbero verificati? E’ emersa, con chiarezza tutta la debolezza “politico/organizzativa” di quello che dovrebbe essere lo snodo centrale delle Asl nella programmazione e nella gestione dell’attività di prevenzione, cioè il Dipartimento di Sanità Pubblica che, in questa fase, svolge funzioni di programmazione dei tamponi e di sorveglianza delle condizioni di salute delle persone in isolamento domestico. L’altro suo compito è l’inchiesta attraverso il tracciamento dei contatti e la sorveglianza attiva sulle scuole. Il ritardo accumulato nell’inchiesta epidemiologica è stato causato dalla scarsità di risorse umane, dall’insufficiente organizzazione e dall’accentramento di funzioni che potevano essere più efficacemente svolte costituendo una rete decentralizzata su base distrettuale, con l’attribuzione di alcuni compiti alla rete della medicina territoriale, a partire dai medici di medicina generale e dai pediatri del territorio. Adesso, anche a livello istituzionale, si sono accorti che la soluzione sarebbe fare “prevenzione di prossimità”, ma perché sono stati a dormire per tanto tempo, ostacolando di fatto questo processo indispensabile?
È un po’ la storia di quando a marzo scoppiò la prima epidemia, tutti (a parole) si dichiararono rammaricati e contriti per la situazione indecente dei Servizi di tutela della Salute Pubblica, ma i tagli alla sanità e al welfare e i processi di privatizzazione non li aveva decisi un’entità superiore. Li aveva chiesti a gran voce e a più riprese tutto il sistema dell’informazione mainstream su sollecitazione dei potentati economici, li avevano eseguiti indifferentemente governi di centro-destra e di centro-sinistra seguendo i dettami liberisti della Bce e del Fondo Monetario Internazionale. Il caso più eclatante di “lingua biforcuta” è sicuramente quello del noto economista Carlo Cottarelli, uno degli opinion leader più apprezzati e consultati dal conduttore di “Che tempo che fa” Fabio Fazio, per qualche giorno pure presidente del consiglio incaricato da Mattarella prima del via libera al governo Conte. In questi mesi, a più riprese, il famoso docente corteggiato dalla politica, oggi direttore dell’Osservatorio dei conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano, ha sostenuto che “la nostra sanità è in queste condizioni per i tagli lineari subiti nel corso degli anni”. È bene ricordare che il 21 agosto 2015 (non un secolo fa), al meeting di Comunione e Liberazione di Rimini, l’insigne professore, all’epoca direttore esecutivo del Fmi, dopo essere stato commissario straordinario della revisione alla spesa pubblica con il governo Letta, (la famosa spending review che gli fece guadagnare il nomignolo di Mister Forbici), affermò che sarebbero stati possibili ulteriori tagli “tra i tre e i cinque miliardi di euro senza stravolgere il sistema, senza contare i risparmi sugli acquisti di beni e sevizi”.
Ecco perché è necessaria una narrazione “altra” su quello che sta avvenendo, raccontata direttamente dai tanti soggetti che hanno subito sulla loro pelle gli effetti sanitari, economici e sociali della pandemia. Facciamo un esempio: il vaccino antinfluenzale. Quest’anno, a causa della pandemia, il ministero della Salute ha dato al vaccino antinfluenzale un’importanza predominante rispetto agli anni passati. In suo documento dello scorso 4 maggio spiegava che “l’influenza stagionale e la Covid-19 hanno sintomi simili, e ridurre la possibilità di insorgenza dell’influenza in autunno e inverno significa rendere più facile ai medici la diagnosi differenziale, cioè capire se il paziente ha l’influenza o la Covid-19”. Stabilendo che tra i soggetti a rischio c’erano tutte le persone sopra i 60 anni, il Ministero dava indicazione di cominciare le vaccinazioni all’inizio di ottobre, una quindicina di giorni prima della partenza della campagna di immunizzazione degli anni precedenti. Anticipare la campagna vaccinale, secondo il Ministero, era importante perché si prevedeva un numero molto superiore dei vaccinati e per consentire che le vaccinazioni fossero fatte in sicurezza, nel rispetto del distanziamento e con le precauzioni igieniche necessarie.
Da sempre il rifornimento dei vaccini antinfluenzali è delegato alle Regioni, pertanto il ministero si è raccomandato con le Regioni e le Province Autonome di avviare al più presto le gare per l’approvvigionamento dei vaccini anti-influenzali, “basandole su stime effettuate sulla popolazione eleggibile e non sulle coperture delle stagioni precedenti”. La situazione di emergenza ha portato le Regioni italiane a comprare 17,8 milioni di dosi, con un aumento del 43% rispetto al 2019. Inoltre, tra di loro si è scatenata una concorrenza molto competitiva per la contesa dei vaccini. Ci sono state quelle che hanno indetto le aste prima e hanno avuto più disponibilità delle altre. Quello che, comunque, si è verificato è che le partite di vaccino sono arrivate in ritardo, si dice perché le aziende produttrici hanno faticato a star dietro alla domanda aumentata. Anche in Emilia-Romagna i medici di base sono molto preoccupati, i primi lotti di vaccini antinfluenzali sono finiti in pochi giorni e le nuove partite sono in ritardo.
A Bologna la campagna vaccinale è cominciata il 12 ottobre e, in poco più di una settimana, le dosi erano già esaurite. Altri lotti sono arrivati a spizzichi e bocconi. Nel frattempo, molti dottori, soprattutto quelli con tanti pazienti, si sono trovati senza vaccini per due-tre settimane. Alla fine di novembre sono state vaccinate le persone che avevano l’inoculazione prenotata per i primi giorni del mese. C’è, perciò, un ritardo di una ventina di giorni sulle date previste. Queste interruzioni avranno ricadute negative: la discontinuità nella fornitura provocherà disagi agli utenti e seccature per la fissazione degli appuntamenti. C’è il rischio psicologico che non trovare il vaccino possa generare stanchezza e rassegnazione nella popolazione più debole. In più, nell’ultima settimana, c’è stata la “bella sorpresa” dei vaccini arrivati senza ago. La cosa ha fatto imbestialire molti medici e, sicuramente, non è un segnale rassicurante per il futuro.
Il fatto che ci siano stati tanti disguidi, intoppi e rallentamenti nella campagna vaccinale antinfluenzale, della cui importanza si è tanto parlato nei mesi scorsi, non può non far sorgere dubbi e preoccupazioni su come sarà condotta, nei prossimo futuro, la campagna vaccinale anti Covid. Per questo tenere gli occhi aperti su tutta questa vicenda è fondamentale, lo strumento dell’inchiesta sociale è un mezzo di ricerca e di comunicazione prezioso per tutti coloro (lavoratori della sanità, utenti, realtà associative, sindacati di base e comitati) che non si sentono tutelati dalla narrazione “ufficiale”… Usiamolo!