Opinioni

“Per noi operatrici/ori sociali è ora di uscire dalla gabbia dell’invisibilità”

“Chiedo a tutti e a tutte le colleghe di raccontare la propria storia e di pensare a momenti di mobilitazione, di presa di parola, di consapevolezza della propria condizione di lavoratori e lavoratrici”, scrive Tiziano in una lettera inviata a Zic, con la quale aderisce all’appello lanciato nelle scorse settimane dall’Adl Cobas.

02 Aprile 2021 - 11:25

di Tiziano

L’altra sera, mentre stavo svolgendo il mio turno di operatore notturno in una comunità per minori richiedenti asilo, in un attimo di pausa, stavo rispondendo al messaggio di un’amica, anch’essa operatrice notturna in una comunità per minori. La persona in questione era molto preoccupata del fatto che i minori la stessero aggredendo verbalmente da parecchie ore, per finire col minacciarla di vere e proprie aggressioni fisiche. Siamo a Bologna, una delle sere gelide che non ti sembra che fra qualche giorno sia il primo giorno di primavera. Piena zona rossa. Ragazzi e ragazze che, ormai da più di anno, soffrono le restrizioni che vengono imposte a tutti e a tutte noi. Con in più il fatto che, spesso, molti e molte di queste ragazze, non hanno nessun genitore a consolarli, nessun altro sfogo che non sia il telefono o l’educatore o l’educatrice, su cui riversano le fragilità e il peso di una vita che, nel 90 % dei casi, già non è stata molto generosa con loro; figurarsi con l’avvento della pandemia

Mentre leggevo il messaggio di Gina (nome di fantasia) mi sono soffermato un attimo a pensare… e mi è venuto subito in mente quando, a ottobre, in piena seconda ondata, un altro collega mi raccontava del numero crescente di infortuni che si succedevano uno in fila all’altro nella loro comunità. Spazi stretti, tensioni già latenti, fragilità psicologiche, mancanza di alternative ludiche, comunicazioni da dare in fretta e furia, confuse, contradditorie, dovute al sosseguirsi dei dpcm autunnali. Un mix micidiale che non poteva far altro che creare un cortocircuito in queste persone, il tutto ovviamente contornato da una mancanza delle più elementari norme anti-contagio.

E mentre pensavo a quel momento mi veniva in mente quando, durante la prima ondata, ad aprile scorso, Matteo (fantasy name), educatore in un Cas, mi raccontava, avvilito, ma anche un po’ scosso, della reazione furiosa avuta da un giovane richiedente asilo che, a causa di alcuni disguidi relativi
all’interpretazione un po’ troppo “restrittiva” della Prefettura sui primi decreti leggi, si era visto interrompere un tirocinio, unica possibilità avuta dopo oltre un anno di permanenza della struttura. E poi di altri che raccontavano di fughe improvvise dalla comunità di giovani ragazze che volevano vedere il fidanzato, piuttosto che di reazioni più o meno, per usare un eufemismo, “in disaccordo”, alla comunicazione che “…da oggi bisogna utilizzare la mascherina anche in comunità…”.

Potrei continuare. Altr* potrebbero continuare al posto mio. Lavoratori e lavoratrici essenziali. Ma completamente INVISIBILI, inesistenti nel dibattito pubblico, mediatico, ma non solo. Su cui, oltre al danno di aver sempre lavorato da ormai più di un anno in condizioni di dubbia sicurezza sanitaria, FISICA e psicologica, si aggiunge la beffa che, quando ormai arriverà il nostro turno per il vaccino, la maggior parte di noi, purtroppo, avrà già contratto il Covid-19. Siamo uomini e donne che, in quest’ultimo anno abbiamo deciso di non abbandonare non solo il posto di lavoro, non tanto per il misero stipendio che ci viene dato, rispetto ai rischi che corriamo, ed allo stress che dobbiamo affrontare, ma anche perché, spesso, le numerose persone accolte nelle strutture in cui operiamo vedono in noi un, se non unico, sicuramente importante punto di riferimento.

Il problema non sarà solamente la beffa di ricevere un vaccino quando ormai, tanti e tante di noi (tra cui il sottoscritto) avranno già contratto il Covid. il nostro lavoro è un susseguirsi di problematiche di questo tipo. Perché lavoriamo da sempre con pochissime tutele, fisiche, sanitarie, con spesso mansioni, e, soprattutto responsabilità, che scavallano orari e tempi di lavoro e, spesso, vanno ad intrecciarsi con la nostra vita privata, causando notevoli livelli di stress, innumerevoli situazioni di barnaut (spesso non riconosciuto dai nostri datori di lavoro, purtroppo). Il tutto per uno stipendio che, vedasi Ccnl delle cooperative sociali, non è tra i migliori. Non fosse altro per i rischi che corriamo tutti i santi giorni.

E’ giunto il momento di uscire da questa gabbia invisibile e richiedere diritti e tutele per tutti e tutte noi. Per questo, sottoscrivo con forza e convinzione l’appello lanciato da Adl Cobas Bologna e chiedo a tutti e a tutte le colleghe di raccontare la propria storia, di aderire all’appello e di pensare a momenti di mobilitazione, di presa di parola, di consapevolezza della propria condizione di lavoratori e lavoratrici.