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Dai familiari delle vittime della Uno Bianca: “Riaprire le indagini, questa vicenda è ancora piena di ombre” | Coordinamento Migranti: “All’Interporto tre ore di lavoro al giorno e due di bicicletta, ma D. ha rifiutato lo sfruttamento” | Ya Basta in Cile “per comprendere la mobilitazione nata a ottobre”.

04 Gennaio 2020 - 14:48

Le indagini sul terrore disseminato dalla banda della Uno Bianca (per la maggior parte composta da poliziotti, in odore di estrema destra) devono essere riaperte. La richiesta arriva dai familiari delle vittime. In particolare dalle famiglie dei carabinieri uccisi dalla banda il 4 gennaio 1991, in zona Pilastro: la lettera contenente l’appello è stata diffusa oggi durante la cerimonia per il 29esimo anniversario. “Noi familiari siamo determinati nel ricercare la verità, anche se lontana e difficile da raggiungere, e auspichiamo una riapertura delle indagini”. Secondo le famiglie “un contributo in questa direzione potrebbe arrivare anche dalla preannunciata informatizzazione e pubblicazione degli atti processuali, così come avvenuto per altre vicende giudiziarie. Ci batteremo affinchè venga fatta piena luce sulle tante ombre che aleggiano su questa vicenda e continueremo a opporci ai vergognosi sconti di pena per coloro che si sono macchiati di crimini così efferati”. Le istituzioni italiane “hanno il dovere di attivarsi per fare chiarezza su questi sette anni di terrore, perchè le vittime della Uno bianca e i loro familiari hanno pagato un prezzo altissimo, che merita rispetto e giustizia”, dice la lettera.

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“«Io sono arrivato qui vivo, e continuerò a vivere anche se non firmo questo contratto». D. ha risposto così all’agenzia che gli ha proposto un contratto di lavoro all’Interporto di tre ore al giorno. Tre ore al giorno in magazzino e due ore di bicicletta per andare e tornare dal lavoro, perché i soldi sono troppo pochi per spenderli nel trasporto, e passare il resto del giorno in un centro di accoglienza. Per questo D. si è rifiutato di firmare quel contratto, perché non è più disposto ad accettare lo sfruttamento, i salari da fame che non bastano per prendere una camera in affitto, i lunghi viaggi al freddo a qualsiasi ora del giorno e della notte per essere sempre disponibile ogni volta che il padrone chiama”. E’ la vicenda raccontata dal Coordinamento Migranti, che continua: “D. lavorava già da tre anni per la stessa azienda, che gli prometteva ogni volta condizioni migliori. È il solito gioco di padroni e agenzie: all’Interporto continuano a promettere ai migranti che se non si lamentano dei ritmi di lavoro e delle ore di straordinario non pagate le cose possono migliorare. Sappiamo che padroni e agenzie approfittano dei documenti precari dei migranti e che molti non hanno altra scelta che accettare quelle condizioni di lavoro perché altrimenti perdono il lavoro e poi il permesso. Ma la storia che D. ha raccontato all’assemblea del Coordinamento Migranti e delle associazioni e comunità migranti dimostra che rifiutare il comando dell’Interporto è possibile. Il coraggio di D. è il coraggio di tutti i migranti e i richiedenti asilo che non sopportano più di lavorare a chiamata o con contratti precari per un salario misero. Per questo è giunto il momento di rompere l’isolamento e prendere parola insieme contro sfruttamento e razzismo: l’Interporto è una grande fabbrica che non esiste senza migranti”.

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“Ci troviamo a Santiago del Chile per meglio comprendere il processo di mobilitazione che da ottobre sta attraversando il Paese”, segnala Ya Basta Bologna, avviando così una serie di aggiornamenti dal Paese sudamericano: “Un semplice atto di disobbedienza degli studenti, a seguito di un rincaro delle tariffe della metro, ha innescato una protesta ampia, trasversale e costante che rivendica equità e giustizia sociale, in opposizione alle politiche neoliberiste che tengono in ginocchio il paese dai tempi della dittatura. La brutale repressione deliberata dal governo Piñera ha portato ad ogni forma di abuso e violazione dei diritti umani. Dalle violenze sessuali, all’uso sproporzionato della forza con l’utilizzo dei perdigones, i proiettili di gomma e i lacrimogeni sparati all’altezza del volto che hanno provocato centinaia di accecamenti. Sono ormai migliaia i feriti e oltre trenta i morti. Nonostante ciò, non si placano le pratiche radicali della primera línea e le azioni di sabotaggio che attraversano il Paese, supportate dalla maggioranza della popolazione”.