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L’epidemia e il distanziamento fisico in un carcere sovraffollato

L’inchiesta autogestita di Zic.it sulla sanità pubblica durante la seconda ondata pandemica non poteva non soffermarsi anche sulla situazione della Casa circondariale cittadina dove, nelle ultime settimane, il numero dei contagiati Covid-19 è salito in modo preoccupante. Per partecipare all’inchiesta: inviare testimonianze e contributi all’indirizzo redazione@zic.it

19 Dicembre 2020 - 12:53

L’inchiesta sociale di Zic.it sulla sanità pubblica nella seconda fase della pandemia da Covid-19 prosegue rivolgendo il suo sguardo su quel che succede alla Dozza. Per partecipare all’inchiesta: inviare testimonianze e contributi all’indirizzo redazione@zic.it

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L’AUMENTO DEI CONTAGI

Verso la fine di novembre il garante dei detenuti di Bologna comunicava che, all’interno del carcere della Dozza, vi erano almeno 12 i detenuti contagiati ed altri casi di positività erano presenti tra gli operatori penitenziari. Ammoniva che, in una situazione in cui “la capienza massima di 500 persone era ampiamente superata dalle circa 700 presenze”, con la seconda ondata pandemica in corso, “il rischio di una diffusione del contagio all’interno dell’istituto penitenziario era molto concreto”.

Il 30 novembre era il garante dei detenuti della Regione Emilia-Romagna a sottolineare che “la patologica situazione di sovraffollamento che caratterizza le nostre carceri contribuisce ad accrescere il rischio di diffusione del contagio. E’ quindi necessario incidere significativamente sul numero delle presenze in carcere, per la tutela del diritto alla salute di detenuti e operatori penitenziari”.

Il 12 dicembre è stato ancora il garante comunale a rivelare che la situazione, in poche settimane, si è parecchio aggravata: “Il problema del sovraffollamento complica la gestione dei casi di Covid all’interno del carcere di Bologna, dove circa 50 persone sono risultate positive al virus”. Il garante ha riferito pure che ci sono detenuti ricoverati in ospedale e non ha nascosto la sua preoccupazione per un ulteriore aggravamento della situazione, anche in prospettiva di una terza ondata di Coronavirus nei primi mesi del nuovo anno.

Ieri, infine, è intervenuto di nuovo il garante regionale per affermare che tra i penitenziari dell’Emilia-Romagna il carcere di Bologna resta “quello più problematico, con un numero di positivi tra i 50 e i 70 che è stabile da qualche giorno”.

Insomma, in questa seconda ondata pandemica l’impatto del virus è indiscutibilmente più grave sul carcere rispetto agli scorsi mesi primaverili, ma sembra che la cosa interessi pochissime persone. Oltre ai famigliari che mandano lettere ai giornali, che scrivono ai propri avvocati o ai garanti o alle associazioni, ci sono le poche realtà che si occupano di questioni detentive (come Antigone o l’Associazione Yairaiha Onlus), i collettivi anarchici o antagonisti che denunciano (come nel caso dei morti delle rivolte di marzo) e, adesso, anche direttamente i detenuti che si prendono la responsabilità di fare esposti.

Della stampa mainstream è meglio non parlare, salvo due piccole eccezioni (Il Dubbio e Il Riformista), tutti i quotidiani sembrano molto distratti quando si parla dell’epidemia da Covid nelle carceri italiana. E i casi sono già parecchi: da Poggioreale a Tolmezzo, da Pesaro a Sulmona, a cui si è aggiunto più di recente anche Bologna.

La politica istituzionale poi è “non pervenuta” ormai da tempo.

IL SILENZIO DELLE ISTITUZIONI

Sull’aggravamento della situazione sanitaria della Casa circondariale bolognese, però, è il caso di inchiodare il ceto politico di Palazzo d’Accursio alle sue responsabilità. Anche perché, è bene ricordarlo il “garante comunale delle persone private della libertà personale” è una figura la cui nomina è votata dal Consiglio comunale e le sue relazioni dovrebbero servire ai consiglieri e alla Giunta per produrre azioni politiche conseguenti. Bene, dopo le due recenti uscite del garante comunale solo due consiglieri hanno preso parola per esprimere preoccupazione e chiedere politiche di “decarcerizzazione” (Francesco Errani e Dora Palumbo), da tutti gli altri un assordante silenzio. Anche dalla Giunta nebbia fitta; per non parlare del Sindaco Merola che, in quanto “massima autorità sanitaria” cittadina, un occhio su quello che sta accadendo in via del Gomito 2 dovrebbe buttarlo. La salute dei cittadini (di tutti i cittadini) non è una questione che si può trattare come il traffico, ciòé “a targhe alterne”.

In effetti, è un po’ bizzarro occuparsi dei rischi da Covid solo per gli assembramenti da movida o da manifestazione, dare un’occhiata di sfuggita alla calca nei trasporti pubblici, adattarsi all’addossarsi “necessario” delle attività lavorative, tapparsi naso occhi e orecchie per quella “contiguità obbligata” che quotidianamente si verifica presso l’istituto detentivo della città.

L’ultima volta che il sindaco fece sentire “esplicitamente” la sua voce sulle condizioni di vita nel carcere della Dozza risale al lontano 11 luglio del 2011. Dopo una visita insieme a un gruppo di parlamentari della Commissione diritti umani del Senato, riscontrando sovraffollamento, celle che scoppiavano, l’alto numero di detenuti tossicodipendenti o con problemi psichiatri e una situazione grave dal punto di vista igienico-sanitario, gli venne da dichiarare: “Ho un forte imbarazzo come amministratore pubblico nel vedere un mondo così al contrario”. Poi promise: “Verificherò se ci saranno gli estremi per un’ordinanza sindacale, simile a quella firmata nel 2007 dal mio predecessore Sergio Cofferati” (in quell’ordinanza si prescriveva di intervenire sulle condizioni igienico-sanitarie della struttura, oltre a disporre disinfestazioni da blatte e derattizzazioni).

Dopo di che, per Merola solo partecipazioni a qualche spettacolo e a qualche concerto del coro dei detenuti, o presenza di prammatica a qualche convegno e niente più.

Del resto, in questi anni, le visite dei parlamentari e dei consiglieri regionali si sono sempre più diradate fino a sparire del tutto. I tempi della proposta di legge (mai approvata) dell’ex senatore Luigi Manconi per “rendere il carcere una casa di vetro” sono stati cancellati dall’oblio, oggi vanno molto più di moda e trovano il consenso di quasi tutte le forze politiche gli editorialisti del “manette daily”.

E a proposito di Regione Emilia-Romagna, in materia di detenzione il coraggio della “coraggiosa” vice-presidente Elly Schlein sembra essersi affievolito abbastanza rapidamente. Nella primavera scorsa, subito dopo la sua elezione, fu protagonista di un provvedimento (finanziato complessivamente con 472.000 euro), teso a reperire alloggi da destinare ai detenuti vicini al termine della pena da scontare, ma privi di risorse economiche, casa e lavoro. L’iniziativa regionale faceva seguito al Dpcm del governo rivolto a detenuti con un residuo di pena inferiore ai 18 mesi, varato per alleggerire il sovraffollamento carcerario e favorire così il contenimento delle situazioni a rischio di contagio da Covid-19. Sarebbe cosa buona conoscere quanti detenuti hanno potuto usufruire di questo bando regionale e di quante amministrazioni comunali e quante associazioni hanno partecipato. Mica per altro, sapere se il provvedimento ha funzionato sarebbe utile a tutti.

Su cosa fare invece, rispetto a questa seconda ondata pandemica e per non assistere impotentemente alla crescita esponenziale numero dei contagi, seguendo anche la sollecitazione del garante regionale dei detenuti, non abbiamo il piacere di sapere cosa intenda fare la Regione Emilia-Romagna. Anche in questo caso è abbastanza strano che il “protagonismo dei governatori” (finanche esagerato in epoca di Covid) abbia ritrovato improvvisamente una silenziosa sobrietà sulla questione delle carceri. E pure la Schlein, che sui giornali di tutte le periodicità, sia cartacei che online, ci è finita un’infinità di volte, di pensieri dedicati alle condizioni dei detenuti e delle detenute ne ha dedicati veramente pochi… E dire che, in fin dei conti, tra le tante deleghe che le sono assegnate, ci sono anche quella del welfare e del contrasto delle diseguaglianze. Ed avendo pure la delega ai rapporti con l’UE dovrebbe sapere che la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha condannato diverse volte l’Italia per trattamento inumano e degradante nei confronti di detenuti. Perciò le condizioni di detenzione dovrebbero essere un argomento a cui dedicare un po’ di attenzione

COSA SIGNIFICA “DISTANZIAMENTO FISICO” DIETRO LE SBARRE

Ritornando agli effetti dell’epidemia da Coronavirus dentro il carcere della Dozza occorre dire che, dal punto di vista degli operatori sanitari, la situazione è molto diversa rispetto al marzo scorso. All’epoca c’era disorientamento e paura. Le disposizioni sanitarie per affrontare il Covid-19 erano insufficienti, i dispositivi di protezione individuali erano scarsi, c’era la preoccupazione di non avere gli strumenti e il personale idonei ad affrontare una situazione difficile. C’era stata la rivolta e, nel corso di quelle giornate di rabbia dei detenuti, erano rimaste distrutte le infermerie, gli ambulatori, i carrelli delle terapie e molta strumentazione.

Terminata la protesta, vennero diagnosticati positivi al Covid quindici detenuti. Queste persone andavano isolate e assistite. Poi, tra aprile e maggio, furono due i detenuti deceduti per Coronavirus, entrambi morirono in ospedale dopo qualche giorno dal trasferimento dal carcere.

L’altro fatto molto grave e angoscioso fu la positività del personale infermieristico e medico, più della metà degli operatori sanitari si ammalarono.

Se si chiede se è stato fatto quello che era necessario per affrontare una situazione così complessa e pericolosa, per i nostri interlocutori, le misure di prevenzione che furono introdotte a maggio sarebbero servite a marzo. Un esempio su tutti: il protocollo per la gestione dei positivi. Lo stesso protocollo, però, viene considerato uno dei più avanzati tra gli istituti italiani (questo non significa automaticamente che sia risolutivo dei problemi che si incontrano).

Elencando gli interventi effettuati o che vengono approntati per creare percorsi differenti per i detenuti, si parte dagli spazi che sono stati destinati all’isolamento dei positivi e di coloro che sono entrati in contatto con essi (infermeria, reparto 1°C, “RH”). Tutti i nuovi giunti devono fare una quarantena di 10 giorni. Alla fine di questo periodo si effettua un tampone che, se risulta negativo, determina la fine dell’isolamento e l’inserimento del detenuto nelle sezioni”normali”. La stessa cosa è stata fatta ai pochi detenuti che sono andati in permesso in questi mesi. Coloro che presentano sintomi riconducibili al Covid, come febbre o diarrea, vengono sottoposti al tampone e isolati per il periodo necessario, dopodiché si effettua nuovamente il tampone. Coloro che risultano positivi vengono isolati in una sezione chiamata “RH” costituita da un corridoio con 5 celle. Nel cortile esterno è stata montata una tenda della protezione civile per la misurazione della temperatura all’ingresso.

Prima dell’esplosione degli ultimi casi, con i numeri che arrivano ormai a una settantina di detenuti contagiati, la capienza delle aule scolastiche era stata ridotta del 50 per cento (con l’aula più grande che poteva contenere al massimo 8 persone). La possibilità di seguire le lezioni era consentita solo a detenuti che provenivano dalle medesime sezioni per evitare contatti tra soggetti rinchiusi in sezioni diverse. Adesso le lezioni sono state sospese, così come l’attività dell’officina meccanica. Queste chiusure si sono aggiunte alle precedenti che riguardavano tutte le attività di gruppo (culturali, sportive, ricreative) che vedevano la presenza dei volontari esterni. Ora anche i religiosi non possono più entrare.

Fino ad alcune settimane fa i colloqui in presenza si svolgevano una volta al mese, alla presenza di un solo famigliare, nelle sale dedicate dove, su ogni tavolo, sono stati montati dei pannelli in plexiglass. Nell’ultimo periodo il maggior numero di colloqui si svolge via Skype. Altri modi per comunicare con l’esterno sono il servizio mail e le telefonate.

Gli orari all’aperto nei “passeggi” erano stati organizzati a turno tra le diverse sezioni in modo da evitare contatti. Ora, probabilmente, anche questi spazi sono ancora più limitati, così come, in generale, il regime a celle aperte che, comunque, in tutte le sezioni, venivano già chiuse durante i pasti. Il garante dei detenuti ha annunciato che, negli ultimi giorni, “la direzione del carcere ha deciso di sospendere i nuovi ingressi, almeno sino a quando non verrà raggiunta la piena stabilizzazione del quadro epidemiologico”.

All’inizio di questa “seconda ondata” gli operatori sanitari si sono sentiti maggiormente preparati e più informati rispetto all’epidemia di primavera, ma il numero altissimo di casi di queste settimane, il contagio che prima aveva toccato solo alcune sezioni e poi si è esteso molto velocemente anche ad altre, dimostra che, al di là dei provvedimenti interni utili e necessari, i problemi strutturali del carcere della Dozza, così come degli altri istituti penitenziari italiani, rimangono e, certamente, non aiutano a contenere la diffusione del virus.

Ancora una volta il problema principale è il sovraffollamento. Se aumentano le persone contagiate che devono essere messe in isolamento dovrebbe aumentare anche il numero delle celle (o come le chiamano “stanze per il pernottamento”) vuote per essere destinate alla quarantena, ma se queste non ci sono tutto il discorso dei protocolli salta.

In Italia c’è troppa custodia cautelare, ci sono troppe pene brevi che potrebbero essere gestite diversamente.

Quindi la cosa principale è far diminuire la popolazione detenuta soprattutto per avere spazio, non solo per mantenere in via ordinaria un minimo di distanza tra le persone, ma anche per gestire gli isolamenti per i contagiati da Covid. In particolare, sarebbe importante far uscire le persone che in caso di contagio rischiano di più.

L’ultimo decreto “Ristori” che prevede la possibilità della detenzione domiciliare per gli ultimi 18 mesi di pena, con braccialetto elettronico per i residui sopra i 6 mesi, non ha prodotto effetti significativi. Nei mesi precedenti c’erano stati i Dpcm di “Cura Italia” che qualcosa avevano fatto, ma non nei termini che si poteva prevedere, non tutti quelli che ne potevano usufruire ne hanno goduto.

GLI SCIOPERI DELLA FAME E GLI APPELLI

Contro il sovraffollamento, per l’approvazione di misure per diminuire il numero dei detenuti, per potere affrontare in maniera più adeguata i rischi dell’epidemia da Covid, per avere la garanzia di un accesso idoneo alle cure per chi ne ha bisogno, in diversi istituti sono partiti scioperi della fame. Sono forme di protesta diverse dalle rivolte esplose a marzo, durante le quali morirono 13 detenuti. Sono abbastanza rituali e, periodicamente, vengono sostenute dai radicali di Rita Bernardini. Proprio perché, in qualche modo, fanno parte della quotidianità delle carceri (ogni anno ce ne sono migliaia individuali ed è uno dei pochi modi per protestare e lamentarsi), all’esterno vengono scarsamente presi in considerazione.

Questa volta in una sorta di “staffetta ideale “allo sciopero della Bernardini si sono associati Luigi Manconi, Roberto Saviano e Sandro Veronesi con i tre editoriali (sulla Stampa, La Repubblica e Il Corriere della Sera) e il loro digiuno per la “salute nelle carceri”. A questo passaggio si è aggiunto un ulteriore appello di 117 docenti universitari che chiedono al Governo e alle autorità competenti di “adottare provvedimenti idonei a ridurre il più possibile il sovraffollamento delle carceri italiane, così da prevenire il rischio di un’ulteriore diffusione del contagio da Coronavirus al loro interno”.

Queste prese di posizione non hanno avuto nessuna risposta e la benché minima considerazione dalla Politica nazionale e locale. Pure la stampa e la televisione hanno dato scarsissimo risalto.

L’unico che ha preso carta e penna e si è preso la briga di rispondere “puntualmente” è stato Marco Travaglio sulle pagine del Fatto Quotidiano: «I numeri dimostrano che in carcere si è molto più controllati e sicuri, quanto al Covid, che fuori… Mi pare che questo basti per spazzare via digiuni contro la “strage” da Covid nelle carceri, campagne per amnistie, indulti e altre misure svuota-celle, accuse al governo di “condannare a morte” i detenuti… Gli attuali 53.000 detenuti costituiscono il minor affollamento da molti anni: non proprio un’emergenza da affrontare con urgenza… La popolazione carceraria dipende anzitutto dall’alto numero di delinquenti, non da leggi liberticide o dal destino cinico e baro… Uno degli scopi della pena è proprio punire, perché chi ha commesso un reato paghi il conto, liberi la società della sua presenza per un po’ e a lui e ai suoi simili passi la voglia di riprovarci. Poi, certo, la pena deve anche rieducare: ma dev’essere, appunto, una pena. Non una finzione o una barzelletta».

Insomma, per l’algido Travaglio il “fresco” del carcere è molto più salutare dell’aria fresca di montagna, questa sua frigida ghiacciosità che la portato ad essere il principe dei manettari, sembrerebbe una divertente imitazione di Crozza. Invece, purtroppo, lo smilzo col maglioncino a collo alto è l’attuale ispiratore di tutte le politiche giudiziarie del nostro paese… E se lui ha giocato a stringere la sua anima tra le ganasce di una morsa, a noi non resta altro che dire: avanti di questo passo c’è proprio da stare freschi.