Cosa ha comportato la decisione di chiudere i centri diurni di salute mentale e le attività riabilitative diurne che prevedevano la presenza di gruppi di persone? Abbiamo parlato anche di questo con una specializzanda di psichiatria del Laboratorio salute popolare: continua così la nostra inchiesta autogestita sul servizio sanitario bolognese nella seconda fase pandemica.
Per proseguire la nostra inchiesta sociale sulla sanità pubblica nella seconda fase della pandemia da Covid abbiamo sentito una giovane dottoressa che fa parte del Laboratorio salute popolare. La nostra interlocutrice è una specializzanda di psichiatria, con lei abbiamo voluto mettere in luce le criticità che si sono riscontrate dopo la chiusura dei centri diurni di salute mentale.
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Il Covid e i servizi di salute mentale
La pandemia da Coronavirus è stata un evento catastrofico che ha coinvolto le persone e le comunità a più livelli, che ha messo in discussione i legami sociali e ha evidenziato tanti casi e tanti aspetti di vulnerabilità. In particolare, sui pazienti della salute mentale, il Covid-19 ha avuto delle conseguenze gravi sia per la difficoltà di gestione dei famigliari, sia per il lavoro di cura dei terapeuti. E’ verosimile che la domanda di interventi psicosociali aumenterà notevolmente nei prossimi mesi, ma questa esigenza dovrà fare i conti con i tanti anni di disinvestimento nei servizi e nei programmi della salute mentale.
Su questi temi, per proseguire la nostra inchiesta sociale sulla sanità pubblica, abbiamo sentito una giovane dottoressa che fa parte del Laboratorio salute popolare. La nostra interlocutrice è una specializzanda di psichiatria, con lei abbiamo voluto mettere in luce le criticità che ha riscontrato in questo periodo rispetto ai servizi per la salute mentale. Il ragionamento lo abbiamo iniziato su una questione drammatica, quella della chiusura dei centri diurni di salute mentale e su quello che questa decisione ha provocato.
«Con il lockdown primaverile venne presa la decisione di chiudere i centri diurni di salute mentale e tutte le attività riabilitative diurne che prevedevano la presenza di gruppi di persone. Questa scelta, che era giustificata dal bisogno di impedire l’estensione dell’epidemia, ha avuto come conseguenza la cessazione delle attività riabilitative basate sulla prossimità e sulla continuità. Parlo, per esempio, delle attività “uno a uno” o dell’arte-terapia. Nel contesto dei centri diurni è stata riconosciuta da tanti la positività dei programmi terapeutici per gli utenti che hanno ricevuto un’assistenza in un contesto di relazioni collaborative e a lungo termine. Credo che, anche chi non è un tecnico, possa capire che un buon supporto psicoterapeutico ha bisogno di fisicità, di condivisione e di uno spazio comune, soprattutto per coloro che hanno difficoltà nelle relazioni sociali».
Per far fronte alla mancanza di questa attività, dalle indicazioni ministeriali, era prevista l’implementazione dei trattamenti individuali e dei trattamenti domiciliari?
«Hai detto bene: era…. Come fosse possibile tutto questo senza aumentare il personale della medicina territoriale dovranno venircelo a spiegare… L’investimento in questo campo non c’è stato».
E’ vero che, come conseguenza della situazione che si è determinata, c’è stato l’aumento dei trattamenti sanitari obbligatori, i Tso?
«Si è vero… Se blocchi il percorso riabilitativo…. se i pochi centri diurni che hanno riaperto, dai venti utenti di prima, oggi seguono quattro o cinque persone… se non implementi gli organici degli operatori sul territorio… è abbastanza inevitabile che l’interruzione di un determinato percorso curativo-assistenziale generi instabilità e scompensi e, di conseguenza, arrivi la medicina d’urgenza, i ricoveri coatti… da qui l’aumento del numero dei Tso».
Sempre nelle famose direttiva ministeriali si parla di telemedicina… Si dice che “laddove possibile, saranno condotti interventi motivazionali e interventi supportivi con modalità online (Skype o WhatsApp) per far sentire la presenza e la vicinanza del Servizio ai propri pazienti e alle loro famiglie, e di prevenire o comunque individuare precocemente segnali di crisi”…
«Telecomunicazioni… telemedicina… sarebbe giusto chiamarla medicina del distanziamento sociale… Da Basaglia in poi la relazione è il metodo fondamentale… La psichiatria di prossimità non si può fare senza relazione».
Sempre per rimanere in tema di relazioni, è vero che ormai è impossibile fare certificazioni di invalidità all’Inps? Cosa implica questo fatto?
«Nel campo della fragilità sociale l’accompagnamento delle persone verso altre tappe di inclusione e il sostegno nei programmi di intervento psicosociale sono aspetti del nostro operare. In questo ambito molte delle azioni passano dalla certificazione di invalidità. Attualmente l’Inps ha diecimila domande di invalidità ferme e cinquemila rinnovi di invalidità sospesi. Se uno di noi operatori cerca di mettersi in contatto con l’Inps trova sempre il centralino telefonico occupato, il sito bloccato e, alle mail che si mandano, nessuno risponde. Senza la certificazione di invalidità non si possono fare gli avviamenti al lavoro e le domande per la casa per i nostri utenti… Cosa questo significhi è facile da comprendere…».
Un’ultima questione, per quanto riguarda il personale sanitario, le poche assunzioni vengono fatte usando gli attuali strumenti “precari” del mercato del lavoro?
«Per quanto riguarda i giovani medici specializzandi vengono utilizzati i cosiddetti “Contratti Covid”… Si tratta di contratti cococo, senza riconoscimento normativo di ferie e malattia, con un buon riconoscimento economico, spesso superiore ai quei duemila euro mensili che prende un medico con contratto regolare… Il servizio pubblico pensa di risparmiare, ma spende molti più soldi, crea precarietà anche se ben retribuita, non dà nessuna garanzia di continuità per il futuro e crea divisioni e malumori tra i lavoratori della stessa categoria».