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Cile, 11 settembre 1973: il colpo di Stato di Pinochet e il laboratorio di sperimentazione neoliberista

La prima parte dell’approfondimento realizzato dal Centro di documentazione dei movimenti “Francesco Lorusso – Carlo Giulani” di Bologna in occasione del 50esimo anniversario del colpo di Stato che rovesciò Salvador Allende e di una serata sul tema organizzata a Vag61: un viaggio tra storia e politica dalle drammatiche giornate del 1973 ai giorni nostri.

14 Ottobre 2023 - 11:34

di: Centro di documentazione dei movimenti “Francesco Lorusso – Carlo Giuliani”

Sono passati 50 anni dal colpo di stato fascista in Cile, dall’uccisione del presidente Salvador Allende, dall’insediamento di una dittatura militare voluta dagli Stati Uniti che torturò e uccise gli avversari politici, che provocò migliaia di detenuti ed esuli, dando il via a una serie di misure economiche improntate alle teorie liberiste della “scuola di Chicago”.

UNDICI SETTEMBRE 1973

Dal giorno dell’attentato alle Torri Gemelle del 2001, è in pratica scomparsa dalla narrazione ufficiale la data dell’11 settembre 1973, quando, in Cile, i militari guidati dal generale Pinochet effettuarono un colpo di stato, rovesciando il presidente eletto, il socialista Salvador Allende, e instaurarono una dittatura basata sul terrore, le torture e l’eliminazione fisica degli avversari politici.

Allende era sostenuto da un’ampia coalizione di sinistra, l’Unidad Popular, che era riuscita a vincere le elezioni, scavalcando tutti gli ostacoli che la Cia e gli Stati Uniti avevano messo in campo per impedire l’affermazione di quel blocco politico/sociale. Pertanto gli Usa “furono costretti” a passare alla fase due. Lo dichiarò sfacciatamente Henry Kissinger, il consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di Stato del presidente Richard Nixon: “Al fine di evitare che il Paese possa subire l’egemonia comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo […] la questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli”.

Le misure messe in campo dall’amministrazione Allende stavano minacciando non solo gli interessi ideologici (era stato introdotto il divorzio e legalizzato l’aborto), ma anche sul versante economico gli Stati Uniti si sentirono messi sotto scacco (aumento dei salari, allargamento delle tutele sociali, una più equa distribuzione delle terre, nazionalizzazione della produzione del rame, togliendo il monopolio alle aziende statunitensi, e sospensione del pagamento del debito estero). Attraverso un embargo gli Usa cominciarono ad esercitare una crescente pressione sul paese latino-americano. Ma, oltre al boicottaggio dell’economia cilena, l’amministrazione Nixon finanziò direttamente i gruppi ostili al governo socialista. Dopo le azioni di influenza e spionaggio, gli Stati Uniti passarono direttamente all’organizzazione del golpe: la mattina dell’11 settembre, vennero bombardate le sedi radio e tv di Santiago del Cile, poi le forze armate capeggiate dal generale Pinochet iniziarono “l’Operazione silenzio”. Carri armati e aerei presero d’assalto il Palacio de la Moneda, sede del governo cileno, al cui interno erano riuniti il presidente Allende e un gruppo di militanti a lui legati. Quando i militari dichiararono di aver preso il controllo del palazzo, Allende fu ritrovato morto al suo interno.

LE REAZIONI AL GOLPE

In America latina le reazioni al colpo di Stato non furono unanimi. Alcuni paesi, tra cui Cuba, lo condannarono energicamente, esprimendo solidarietà al popolo cileno e profondo dolore per la morte di Allende. I regimi militari che erano al potere in Brasile e Uruguay salutarono l’evento come una vittoria della democrazia, riconoscendo immediatamente i golpisti. Gli Stati Uniti di Nixon e Kissinger si congratularono con Pinochet e tornarono a sostenere economicamente il Cile.

In Europa, i paesi della Cee scelsero di mantenere le relazioni con la giunta militare. In Italia, la Democrazia Cristiana al governo col presidente Mariano Rumor (pressata anche dai socialisti e dai comunisti) fu costretta ad esprimere una “doverosa” condanna ufficiale del colpo di Stato, mantenendo però un atteggiamento cauto, teso a non indebolire la Democrazia Cristiana cilena che aveva auspicato la soluzione golpista. Infatti, non ci fu la rottura con il Cile di Pinochet. L’allora ministro degli esteri Aldo Moro scelse una linea di “attesa” che lasciava al nostro paese la porta aperta a qualsiasi sviluppo futuro.

A livello di base, invece, nei giorni successivi al golpe furono indette su tutto il territorio italiano centinaia di manifestazioni e iniziative di solidarietà per le vittime della dittatura fascista, che continuarono senza sosta anche negli anni successivi. Oltre a tutto questo, il nostro Paese, grazie all’impegno civile delle organizzazioni politiche della sinistra, dei sindacati, del movimento studentesco, dell’associazionismo culturale e di diversi enti locali, fu in prima linea nell’accoglienza di tantissimi esuli cileni in fuga dalla dittatura.

IL “COMPROMESSO STORICO” ITALIANO

Il colpo di stato in Cile ebbe conseguenze politiche immediate anche da noi. Infatti, qualche settimana dopo l’11 settembre, il segretario del Pci Enrico Berlinguer propose la teoria del “compromesso storico” con il saggio “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile”. Una linea politica che lasciò il segno (non certo positivo) nelle vicende della sinistra italiana nei decenni a seguire, fino ai giorni nostri. Sulla rivista del partito comunista “Rinascita”, con tre articoli, si diede il via alla discussione. Riportiamo alcuni stralci di uno dei tre articoli, quello intitolato “Alleanze sociali e schieramenti politici”, pubblicato il 12 ottobre 1973, trentuno giorni dopo il rovesciamento del governo di Salvador Allende.

In paesi come l’Italia si deve muovere dalla constatazione che si sono create ed esistono una stratificazione sociale e una articolazione politica assai complesse (…) Se è vero che una politica di rinnovamento democratico può realizzarsi solo se è sostenuta dalla grande maggioranza della popolazione, ne consegue la necessità non soltanto di una politica di larghe alleanze sociali ma anche di un determinato sistema di rapporti politici, tale che favorisca una convergenza e una collaborazione tra tutte le forze democratiche e popolari, fino alla realizzazione fra di esse di una alleanza politica (…)

D’altronde, la contrapposizione e l’urto frontale tra i partiti che hanno una base nel popolo e dai quali masse importanti della popolazione si sentono rappresentate, conducono a una spaccatura a una vera e propria scissione in due del paese, che sarebbe esiziale per la democrazia e travolgerebbe le basi stesse della sopravvivenza dello Stato democratico (…)

Di ciò consapevoli noi abbiamo sempre pensato – e oggi l’esperienza cilena ci rafforza in questa persuasione – che l’unità dei partiti dei lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democrazia ove a questa unità si contrapponga un blocco di partiti che si situano dal centro fino alla estrema destra. Il problema politico centrale in Italia è stato, e rimane più che mai, proprio quello di evitare che si giunga a una saldatura stabile e organica tra il centro e la destra, a un largo fronte di tipo clerico-fascista, e di riuscire invece a spostare le forze sociali e politiche che si situano al centro su posizioni coerentemente democratiche (…)

Ecco perché noi parliamo non di una «alternativa di sinistra» ma di una «alternativa democratica» e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico (…)

Vi è innanzitutto il problema, sul quale la nostra posizione di principio e la nostra linea politica sono note, posto dalla presenza in Italia della Chiesa cattolica, e dai suoi rapporti con lo Stato e con la società civile (…)

Ma non si può certo pensare di sfuggire all’altro grande problema costituito dalla esistenza e dalla forza di un partito politico come la Democrazia cristiana (…) che accoglie nelle sue file o sotto la sua influenza una larga parte delle masse lavoratrici e popolari di orientamento cattolico (…) Nella DC e attorno ad essa si raccolgono anche altre forze e interessi economici e sociali, da quelli di varie categorie del ceto medio sino a quelli, assai consistenti soprattutto in alcune regioni e zone del paese, di strati popolari, di contadini, di giovani, di donne ed anche di operai (…)

E’ necessario riconoscere la necessità e la maturità di un dialogo costruttivo e di un’intesa tra tutte le forze popolari senza che ciò significhi confusioni o rinuncia alle distinzioni e alle diversità ideali e politiche che contraddistinguono ciascuna di tali forze (…)

La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande «compromesso storico» tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano (…)

GLI EFFETTI DELLA DITTATURA FASCISTA

A capo del Governo cileno si insediò il generale Augusto Pinochet, la giunta militare sciolse l’Assemblea nazionale, distrusse i registri elettorali, mise fuori legge tutti i partiti che avevano fatto parte di Unidad Popular. Fin da subito vennero imposte molte restrizioni alla libertà individuale dei cittadini e furono emanate diverse leggi speciali. Oltre alle modifiche normative, il regime di Pinochet si caratterizzò per l’uso della violenza fisica come strumento della propria azione di comando. Subito dopo il golpe, lo stadio nazionale di Santiago venne trasformato in un enorme campo di concentramento dove, nel corso dei primi mesi della dittatura, vennero torturate e interrogate migliaia di persone.

La resistenza in Cile venne repressa nel sangue, i numeri del famigerato regime di Pinochet lo stanno a dimostrare: decine di migliaia furono i detenuti e i desaparecidos, circa 15.000 furono le persone assassinate, 40.000 quelle torturate e 164.000 quelle costrette all’esilio.

PINOCHET E IL LABORATORIO LIBERISTA

Nei mesi successivi al colpo di stato, la giunta militare di Pinochet adottò velocemente una politica economica fortemente liberista ispirata al pensiero di Milton Friedman e alla scuola di Chicago. Alcuni economisti cileni che avevano studiato all’università nordamericana, i famigerati “Chicago boys”, divennero consiglieri o ministri del Governo fascista e vararono una violenta terapia d’urto che scandì per anni il programma economico di quello che passerà alla storia come il primo laboratorio neoliberista del mondo. Venne sperimentata una politica economica che smantellò la struttura produttiva cilena, avviando un processo di privatizzazione delle risorse naturali, delle aziende pubbliche, della sanità, del sistema di istruzione e pensionistico. Queste misure imposte con la forza produssero una vera e propria desertificazione dei rapporti sociali; vennero messe fuori legge le organizzazioni dei lavoratori, fu varata una controriforma del mercato del lavoro che provocò il crollo dei salari reali e portò la disoccupazione al 20%. Ci fu un aumento impressionante delle disuguaglianze. Il “dio mercato” divenne l’altra religione (insieme a quella cattolica) da osservare ciecamente. Con l’aumento vertiginoso delle importazioni si creò una fortissima dipendenza dai paesi del blocco occidentale. Vennero abbassate unilateralmente le tariffe doganali e si avviò il processo di apertura dell’economia al libero scambio.

Su tutte queste scelte Pinochet venne appoggiato dall’oligarchia finanziaria cilena, dalle classi medie e dalle multinazionali a cui aveva affidato il controllo delle imprese che Salvador Allende aveva nazionalizzato. Gli epigoni del “pensiero unico liberista”, in relazione al primo decennio della dittatura, non provarono nessun imbarazzo a sostenere che sotto il governo della giunta militare il “miracolo economico cileno” era un esempio per tutto il mondo sulla bontà delle teorie neoliberiste. Mai fino allora nessuno era riuscito a portare i processi di privatizzazione a una sottomissione così elevata ai poteri del “libero mercato”.

Gli avvenimenti cileni, con tutte le loro laceranti contraddizioni, furono un “caso di scuola” per l’applicazione di paradigmi economici che, in seguito, attraverso la globalizzazione, si sono estesi al mondo intero. Beninteso, la repressione e la violenza della dittatura militare facevano parte della ricetta di trasformazione dell’economia cilena, togliendo di mezzo il fastidio della conflittualità sociale.

Che questo “modello cileno” nel corso degli anni abbia creato grandi diseguaglianze, concentrando la ricchezza in poche mani, non è mai stato ragione di scandalo. Anzi, una buona parte dell’élite economica, debitamente rappresentata nel Parlamento “decapitato”, e i grandi media che avevano giustificato e (sotto sotto) approvato il colpo di Stato, furono i custodi di quel modello economico e i difensori del regime militare per i diciassette anni in cui rimase al potere.

(continua)