Intervista alla pittrice e giornalista detenuta nelle carceri turche per aver mostrato la violenza dell’esercito di Erdogan con una sua opera. “Avremo anche giorni migliori” è il titolo della sua mostra, esposta al Museo di Santa Giulia a Brescia fino al 6 gennaio.
di S.C.
Zehra Doğan è nata nel 1989 a Diyarbakır, la più grande città a maggioranza curda della Turchia. Lì, insieme ad altre attiviste e giornaliste curde e turche, ha fondato e collaborato ai lavori della prima agenzia di stampa turca composta di sole donne – Jinha – attiva nel racconto dei conflitti nell’area di confine fra Turchia, Iraq e Siria dal 2012 al 2016, anno in cui è stata chiusa da un decreto del governo turco con la proclamazione dello stato di emergenza, a seguito del presunto tentativo di colpo di stato ai danni del governo Erdogan. Oggi l’agenzia Jinha non esiste più, ma è stato ricostituito un network il cui nome è Jin News, che pubblica anche in lingua inglese. Zehra, nella sua attività di reporter, è stata anche una delle prime giornaliste a parlare con le donne Ezidi liberate dalla schiavitù dell’Isis nel nord dell’Iraq. Nel 2016 ha raccontato gli scontri tra l’esercito turco e il Pkk dalle città sotto coprifuoco di Cizre e Nusaybin. Proprio a Nusaybin ha avuto il via la vicenda che ha cambiato la sua vita: Zehra, con una formazione di studi in belle arti e la propensione alla pittura, decise di utilizzare lo strumento dei disegni per informare su quanto stava accadendo nella città, nel corso di cinque mesi di coprifuoco totale in cui non era consentito uscire dalle case, e durante i quali trovò riparo in un appartamento insieme al sindaco della città e ad alcuni deputati al parlamento turco. Un giorno, vedendo su un profilo Twitter una fotografia che celebrava la vittoria dell’esercito turco nella città, decise di farne un disegno – su uno smartphone – che ribaltava la prospettiva: i mezzi militari che occupavano vittoriosamente Nusaybin divennero così dei mostri dai quali fuoriuscivano soldati, circondati da enormi drappi con raffigurata la bandiera turca, come nella foto originale. Per la magistratura turca, il disegno di Zehra – oltre alla sua attività giornalistica – fu da considerarsi opera di propaganda terroristica: dal luglio al dicembre 2016 passa i primi cinque mesi in carcere in attesa del processo. A marzo 2017 viene condannata a due anni e nove mesi di detenzione e resterà in cella fino al febbraio 2019. Durante la sua prigionia, Banksy le ha dedicato un murale nella città di New York.
> La foto e il disegno per il quale Zehra Doğan è stata condannata (l’articolo prosegue sotto):
Dall’inizio della detenzione, Zehra dipinge numerose opere, quasi tutte composte con materiali di fortuna, poichè i suoi carcerieri non le concedono la possibilità di accedere a strumenti standard. Dal 16 novembre al 6 gennaio 2020 le sue opere sono in mostra al Museo di Santa Giulia di Brescia, con un’esposizione dal titolo “Avremo anche giorni migliori. Opere dalle carceri turche“. I dipinti, quasi tutti disegnati su lenzuola o su fogli di giornale, raffigurano principalmente corpi femminili, quelli dellle compagne di lotta e di prigionia. Tintura di iodio, penne a sfera, bucce di melograno e sangue mestruale sono fra i principali strumenti che hanno consentito all’artista di creare le sue opere dentro il carcere. Scrive Elettra Stamboulis, curatrice della mostra: “Il corpo è oggetto di esplorazione ed elaborazione, ma anche strumento artistico vero e proprio, non solo perchè esso lascia tracce, ma anche perchè può diventare, come nel caso del sangue mestruale, parte dell’opera stessa. Sono i corpi che chiedono di essere presenti nelle opere dell’artista, di essere visti e riconosciuti anche nel loro essere metamorfico. I corpi femminili, che a qualsiasi latitudine diventano oggetto d’inquietudine e perturbanti, costruiscono architetture visive deformanti. La relazione tra donne trova rappresentazione nella serie delle figure femminili, a volte stilizzate, che si tengono abbracciate, che solo nella vicinanza e nella relazione prendono spazio nel mondo”.
> Una delle opere esposte al Museo di Santa Giulia (l’articolo prosegue sotto con l’intervista):
Incontriamo Zehra il 23 novembre, giorno della manifestazione internazionale contro la violenza maschile e di genere, è lei ad accompagnarci a visitare la sua mostra, mentre a Roma le attiviste di Non Una Di Meno stanno per dare vita al corteo nazionale. Camminare fra le sue opere con lei è una grande emozione, ci racconta di come spesso dipingesse su lenzuola o panni che poi consegnava a sua sorella nei momenti delle visite, fingendo davanti alle guardie che fossero indumenti da lavare, quando in realtà contenevano i suoi lavori. Mentre visitiamo la mostra, alcune persone la riconoscono nelle sale, qualcuno commosso la ringrazia per la forza e la resistenza che trasmette nelle sue opere. Dopo la visita, ci sediamo a un tavolo, e le facciamo alcune domande:
Dalla tua esperienza di giornalista, ti chiedo di raccontarmi la storia della vostra agenzia di stampa
Zehra: “Abbiamo fondato Jinha l’8 marzo del 2012 come agenzia femminista, spinte da due esigenze: rompere il linguaggio e la retorica usata dai media principali per raccontare la violenza sulle donne. Quindi abbiamo cominciato a costruire un nuovo vocabolario e abbiamo lavorato in senso opposto rispetto ai titoli sensazionalistici, che non fanno altro che aumentare la violenza. Noi invece abbiamo cercato di indagare le cause di questi atti, è stato quindi un lavoro sia sul linguaggio che sulla narrazione, in quanto media di opposizione gestito e diretto da donne. Il nostro lavoro continua, soprattutto in Rojava, per dare voce alle donne che vivono nelle situazioni di guerra. L’agenzia l’hanno chiusa più volte ma l’abbiamo sempre riaperta. Jin News è il terzo nome che ha preso, ma siamo sempre noi”.
L’utilizzo del sangue mestruale è un segno politico forte, in quest’ottica femminista
Zehra: “L’utilizzo del sangue è un gesto fatto apposta, soprattutto perchè è qualcosa di cui di solito si ha disgusto. Principalmente si ha disgusto della donna nel periodo mestruale, per la religione per esempio in quel momento non può fare niente, non può pregare né avere nessun rapporto con il campo religioso. Addirittura nella società ci diciamo in segreto di avere le mestruazioni: è qualcosa di cui vergognarsi e da tenere nascosto. Invece usandolo in questo modo, rendendolo evidente e utilizzandolo come materia del disegno ho voluto creare un rapporto pacifico con il sangue, che è poi il simbolo della vita. E’ stato quindi un gesto politico e volontario in questo senso per ridare dignità a qualcosa di cui di solito si ha disgusto.”
Nel periodo in cui stavi in carcere hai avuto rapporti con le combattenti delle Ypj? Qual è la condizione dentro le carceri?
Zehra: “Sì, ho incontrato combattenti delle Ypj. A volte erano conoscenti o amiche di lunga data, che poi ho ritrovato in carcere. Era un’esperienza molto particolare, perchè eravamo tutte lì per motivi politici, quindi anche se facevamo mestieri differenti e venivamo da diversi frammenti della società, negli oltre due anni in cui sono stata in carcere conducevamo una vita comunitaria e egualitaria, condividevamo tutto, dai soldi ai vestiti che ricevevamo dall’esterno, al cibo. Non c’era mai alcun senso di possesso. Inoltre c’era anche la condivisione delle proprie storie, eravamo molto organizzate: un giorno c’era la parlamentare che raccontava la sua esperienza, un altro una docente universitaria che parlava di storia, io parlavo di arte. Perciò dal punto di vista politico è stato un momento di crescita e di condivisione molto importante”.
Dopo l’ultimo atto di invasione da parte dell’esercito turco nell’area del Rojava, e dall’accordo che ne è uscito fra le potenze militari internazionali coinvolte, quale pensi che possa essere la via d’uscita dalla condizione che si è creata oggi? Come pensi che debba procedere il popolo curdo e tutti coloro che stanno combattendo per la società liberata che lì si era creata?
Zehra: “La Russia sta giocando un doppio gioco, cercando di essere una forza in una geografia che non le appartiene, così come gli Stati Uniti, e quindi questo crea effettivamente una minaccia per il Rojava, che è stato obbligato a una sorta di ‘terza via’. Ma bisogna ricordare e sottolineare – cosa che in Europa forse è poco detta e poco compresa – che l’esperimento del Rojava non ha mai voluto essere un esperimento di divisione dalla Siria, ma una zona di autonomia e autogestione. Quindi questa ‘terza via’ a cui il Rojava è obbligato non è una novità, perchè non c’è mai stata la volontà di indipendenza o divisione dallo stato siriano.”
> Alcune delle opere esposte nella mostra: