Opinioni

“Se continuiamo a vedere il lavoro sessuale come problema, perdiamo la possibilità di eliminare lo sfruttamento”

Dal collettivo Ombre rosse un contributo sul sex work, con un approfondimento sulle modalità indoor non tradizionali: “Le forme del lavoro sessuale cambiano ma quello che rimane invariato è lo stigma culturale, sociale e istituzionale contro di esso”.

19 Dicembre 2019 - 14:21

“Violenza di genere e decriminalizzazione del lavoro sessuale” è il titolo di un workshop promosso dal Mit che si è svolto il 17 dicembre a Bologna in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle/ui sex workers. All’iniziativa, con un focus incentrato sulle nuove forme di sex working indoor, ha partecipato anche il collettivo Ombre rosse, da cui riceviamo e pubblichiamo un testo che ripercorre l’intervento preparato per contribuire al workshop. “Ombre Rosse Bologna è un collettivo di alleate, sex workers ed ex sex workers”, è la premessa che apre l’approfondimento: “Siamo un collettivo femminista e transfemminista e quindi ci riconosciamo nell’interesezionalità delle lotte del movimento transfemminista italiano, pur mantenendo il nostro obiettivo politico preciso. Siamo ‘ombre’ non solo perché il lavoro sessuale è condotto in clandestinità, magari svolgendo una vera e propria doppia vita, e celando questo aspetto per paura dello stigma da parte di amici, e famigliari. Ma anche perché il sex work activism e quindi la presa di parola da parte di lavoratrici non è scontata, nel momento in cui ci si palesa come sex work activist. Per questo per noi è importantissimo sottolineare che in Ombre rosse ci sono anche alleate, cioè non lavoratrici che per sensibilità appoggiano la causa: la presenza di alleate infatti dà la copertura politica alle effettive lavoratrici di non esporsi, di non fare coming out e quindi di poter fare lottare per i propri diritti”.

Entrando nel merito, nel parlare di nuove forme di sex working indoor “ci riferiamo principalmente a quelle forme di lavoro sessuale- spiega Ombre rosse- che si sono sviluppate attraverso le nuove tecnologie che hanno modificato luoghi e strumenti per vendere prestazioni ed esperienze sessuali: internet e le sue piattaforme, smartphone e dispostivi portatili in generale che hanno radicalmente trasformato il rapporto con il cliente, il concetto di sicurezza percepita, reale e virtule, la tipologia di prestazioni richieste e offerte. Quindi parliamo di camsex, vendita di materiale fotografico e video personalizzato, vendita e spedizione di articoli di vestiario e oggetti personali per un pubblico feticista, adescamento e negoziazione tramite social networks. Come abbiamo appena visto le forme di sex work cambiano ma quello che rimane invariato è lo stigma culturale, sociale e istituzionale contro di esso. Ed è proprio questo il fulcro del nostro discorso politico oggi perchè capire cos’è lo stigma significa capire l’importanza essenziale della decriminalizzazione del lavoro sessuale, più di qualsiasi altro approccio normativo. Lo stigma è quel giudizio negativo generalizzato che produce discriminazione e violenza contro chi pratica il sex work, un giudizio che si abbatte sia sulle lavoratrici/tori autonomi sia sulle persone sfruttate nei mercati del sesso. Anche il pietismo e pensare che tutte le persone che fanno sex work siano vittime consapevoli e inconsapevoli, è una forma diretta della violenza dello stigma, perche annulla l’autoderminazione delle persone, le loro vite, identità, bisogni. Lo stigma è quindi un prodotto sia delle normative più esplicitamente criminalizzanti, ma anche di quelle abolizioniste caratterizzanti il nostro paese. Se siamo qui oggi dobbiamo farci questa domanda come premessa per discutere adeguatamente dell’argomento: la vita di chi esercita liberamente il lavoro sessuale davvero ci interessa o vogliamo solo farne un terreno di scontro ideologico?”.

Lo stigma “determina una violazione del diritto della persona alla propria integrità fisica e psicologica, ha un impatto fortissimo sulla salute mentale e sulla resilienza emotiva delle lavoratrici e dei lavorati del sesso, oltre a rappresentare uno sbarramento diretto all’accesso ai diritti e ai servizi statali. Per esempio chi fa sex work indoor online, gode sicuramente di alcuni privilegi come avere uno spazio personale dove lavorare (che sia una casa o una stanza), ma deve anche fronteggiare i seguenti rischi”. Il primo è il revengeporn, cioè il “danneggiare in maniera virale la reputazione della persona e violare il proprio diritto alla riservatezza e all’anonimato, con il rischio altissimo di provocare autolesionismo e suicidio”. C’è poi l’infamia, delineata come l’atto di “informare amici e parenti per creare danno relazionale e isolare la sex worker; o informare padroni di casa, che in virtù delle legge di favoreggiamento alla prostituzione, potrebbero ricattarti, cacciarti da casa e informare terzi del rischio di affittarti casa. Informare i servizi sociali con il rischio di levare i figli e distruggere la tua famiglia”. Ombre rosse continua parlando dell’intercettazione da parte di personale della forze dell’ordine e dello stalking “da parte di clienti violenti che molto spesso passano dalla persecuzione all’omicidio”.

Rivolgersi alle forze dell’ordine “è estremamente difficile per un/a sex worker per colpa del pregiudizio sessista per il quale è spesso più facile incolpare la vittima di violenze di genere piuttosto che il carnefice, soprattuto quando si tratta di screditare la credibilità di una lavoratrice/tore del sesso. Il sex working indoor non tradizionale è un ambito estremamente complesso ed eterogeneo che si svolge al chiuso, in luoghi non visibili in cui transitano persone che, anche se non vittime di tratta e sfruttamento, necessitano di informazioni e supporto per poter operare in sicurezza, sia dal punto di vista della prevenzione e della salute sessuale individuale e collettiva, sia in relazione all’esercizio dei propri diritti, come cittadina/o e come persona migrante presente sul territorio. La domanda che vogliamo porci è: in qualità di operatori sociali, come si raggiungono le e i sex workers indoor? Intanto smettendo di giudicarli/le perchè l’invisibilità dell’indoor è anche una conseguenza del giudizio criminalizzante e abolizionista, che produce lo stigma. Purtroppo anche molti operatori del sociale che lavorano nell’ambito della riduzione del danno  non sono scevri da questo genere di pregiudizi e noi crediamo che questo non supporti la creazione di un rapporto di fiducia davvero efficace tra operatore e sex workers. Come faccio a rispondere alle esigenze di qualcuno se sotto sotto penso che questo qualcuno non debba esistere? Piuttosto che chiedere alla lavoratrice del sesso perchè non cambi lavoro, la domanda giusta potrebbe essere: di cosa hai davvero bisogno per vivere meglio il lavoro in un contesto così difficile?”.

Afferma ancora il collettivo Ombre rosse: “Se continuiamo a vedere il lavoro sessuale come problema perdiamo completamente il senso del discorso e la possibilità efficace e sitematica di eliminare lo sfruttamento. Perchè lo sfruttamento del lavoro nasce in quei luoghi dove il lavoro non viene considerato tale, quindi non viene rispettato e tutelato ma giudicato, e uno stato che non legifera adeguatamente per rispondere ai bisogni dei diretti interessati, automaticamente delega direttamente e consapevolmente le sue responsabilità di gestione del fenomeno alle realtà criminali. L’indoor cresce per una serie di fattori contingenti, tra cui il fatto che può essere più safe rispetto a una prestazione concordata in strada e a contatto diretto con il cliente, ma è anche un fenomeno indotto sia dalle politiche repressive locali e abolizioniste nazionali che di per sè non regolarizzano ma creano una zona grigia in cui ogni articolo della Legge Merlin diventa strumentalizzabile contro la/i sex workers: un esempio fra tutti è la criminalizzazione dell’adescamento; il reato di favoreggiamento che causa danni anche a chi affitta casa a una/un sex worker o se più donne lavorano insieme, magari organizzandosi per sostenersi a vicenda, può scattare l’accusa di favoreggiamento; o il reato di sfruttamento del lavoro sessuale che può essere usato anche per colpire il partner della/del sex worker. In questo senso possiamo osservare come l’approccio abolizionista non criminalizzi direttamente il lavoro sessuale, ma si serva di leggi ‘interpretabili’ per ostacolarlo e contemporaneamente si serve dello stigma per disincentivarlo a livello morale e sociale. Lo stigma determina anche un ulteriore effetto collaterale: la mancaza di dati. L’orientamento abolizionista produce infatti anche un attegiamento accademico e istituzionale di evitamento del discorso, se non all’interno dell’unica retorica accettata che vede il lavoro sessuale sinonimo di tratta e sfruttamento. Si parla male e poco di sex work e di conseguenza i dati sono di difficile reperibilità e discarsa qualità poichè come ricordano il Codacons e il Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute Onlus, nonostante la prostituzione sia legale,il suo valore economico viene calcolato nel Pil all’interno ‘del paniere criminale’, includendola di fatto fra le attività illegali. A questo proposito, volevamo ricordare che un mese fa a Venezia è nato a il primo ‘Gruppo italiano di ricerca su prostituzione e lavoro sessuale’ – Grips – una rete di cui fanno parte ricercatrici/tori, sex workers e attivisti/e per fare un lavoro di ricerca adeguato sul fenomeno, distanziando debitamente il tema del lavoro sessuale da quello dello sfruttamento; anche per iniziare a indebolire il taboo all’interno delle università in cui si viene osteggiate e stigmatizzate anche solo proponendo una tesi sull’argomento”.