Tra primavera e estate del 1968, la dura lotta delle operaie della Camiceria industriale Pancaldi di Bologna, culminata in quasi due mesi di occupazione dello stabilimento diede la spinta a tutte quelle dei mesi successivi. A cura del Centro di documentazione “Francesco Lorusso – Carlo Giuliani”.
di Centro di documentazione “Francesco Lorusso – Carlo Giuliani”
Negli ultimi anni di mobilitazione femminista lo sciopero, nelle sue varie forme, è diventato una pratica di lotta che ha trasformato l’8 marzo in una sfida per riprendersi lo spazio e il tempo che quotidianamente viene sottratto alle donne, dentro e fuori le mura domestiche, col lavoro formale o informale, gratuito o salariato. Lo sciopero femminista è stato indirizzato contro i ruoli di genere che la società impone e contro lo sfruttamento capitalistico che consuma i corpi delle donne e che, per le migranti, diventa una condizione obbligatoria per ottenere un permesso di soggiorno.
A tanti anni di distanza ci piace ricordare la lotta delle 400 operaie della Camiceria Industriale Pancaldi di Bologna (che aveva sedi anche in Francia e in Spagna), iniziata il 19 aprile 1968 con la presentazione di una piattaforma rivendicativa costruita sui tanti problemi che le lavoratrici dovevano affrontare ogni giorno in fabbrica.
Alla Pancaldi si lavorava a catena, ogni catena era composta da 28 operaie, ogni giorno erano 11 camicie a testa… Nella linea dei “senza polsini” 8 donne ne dovevano fare 300. In totale erano 1.540 camicie al giorno. Sui sette nastri trasportatori applicati alle macchine da cucire le operaie avevano 2 minuti e 10 secondi per completare la loro operazione. E chi di loro non riusciva a stare al ritmo doveva recuperare oltre l’orario per portare a termine il lavoro accumulato e non finito. E quel “recupero” non veniva di certo pagato.
L’orario di lavoro era di 8 ore al giorno (9 al lunedì), per sei giorni alla settimana, più lo straordinario. Il ciclo produttivo non permetteva di cambiare posizione e i movimenti erano sempre gli stessi durante la lunga giornata di fabbrica. Questa situazione il padrone se la garantiva soprattutto con l’arroganza e l’insolenza dei capi che non disdegnavano molestie e pratiche vessatorie.
A tutto questo andava aggiunto il rumore intenso provocato da centinaia di macchine da cucire in azione contemporaneamente che producevano un rimbombo da “far scoppiare la testa”.
Che quel lavoro fosse altamente nocivo fu certificato anche da un’inchiesta fatta da studenti della facoltà di medicina e da un collettivo di medici del lavoro: diminuzione dell’udito per molte operaie, ronzii alle orecchie che si prolungavano anche dopo il lavoro. L’enorme fatica produceva una perenne stanchezza, l’ansia per i rapporti sul lavoro e la paura di sbagliare erano poi la causa di tante somatizzazioni diagnosticate e di una grave tensione nervosa, aggravata pure dalla necessità di svolgere i lavori domestici. Le patologie psichiche e somatiche provocavano anche disturbi della sfera endocrina, con alterazioni mestruali molto dolorose. Al reparto dello stiro e a quello del taglio poi, a causa della continua posizione eretta per un tempo troppo lungo e senza pausa, dell’alta temperatura e della pressione sui pedali, le donne denunciavano dolori muscolari, tumefazioni articolari, gonfiore alle caviglie e vene varicose. A causa della velocità dei ritmi e della mancanza di soste molte operaie riferirono di essere costrette, nell’arco della giornata, a non soddisfare un’esigenza fisiologica come la diuresi, segnalando bruciori nella minzione e diminuzione dell’escrezione urinaria. Vennero anche riscontrati diversi disturbi all’apparato digerente in quanto, a causa della mancanza di una mensa, le operaie erano costrette a mangiare ogni giorno cibi secchi.
A tutti questi problemi andava poi aggiunta una mancanza di una retribuzione decente che padron Pancaldi non aveva mai voluto riconoscere, legando il misero salario che erogava alle lavoratrici soprattutto alla parte variabile derivante dal cottimo.
Il 19 aprile 1968 venne presentata una piattaforma rivendicativa dove si chiedevano aumenti salariali, l’indennità di cottimo, la costruzione di una mensa, la riduzione d’orario, la diminuzione dei ritmi di lavoro, si denunciavano le condizioni nocive e si reclamava il diritto di assemblea in fabbrica. Il 19 aprile divenne una data storica: a duecento chilometri di distanza, a Valdagno, veniva divelta e abbattuta la statua del conte Gaetano Marzotto. Costui era il fondatore di una dinastia industriale che aveva creato nella provincia vicentina un vero e proprio feudo nel settore tessile.
Fu un evento di ribellione che nessuno aveva previsto, così come nessuno poteva prevedere l’esplosione della lotta delle lavoratrici della Pancaldi, per la maggior parte operaie con un’anzianità di azienda inferiore ai dieci anni, per lo più con la sola istruzione elementare, con un’età molto giovane che variava dai diciassette ai trent’anni. E, prima degli scioperi, non è che fossero un granché politicizzate.
Da una ricerca, effettuata in quel periodo, risultò che nessuna di loro leggeva giornali impegnati come come l’Unità, Vie Nuove, Noi Donne, Rinascita o Rassegna Sindacale, quasi tutte compravano rotocalchi come Sogno, Intimità, o Sorrisi e canzoni.
Ma, appena cominciarono le lotte, dimostrarono di cosa erano capaci. A testimoniarlo furono le immagini dei picchetti, le scritte sugli striscioni tenuti dalle ragazze e i cartelli che innalzavano o che avevano appesi al collo. In quegli slogan usciva tutta la loro rabbia contro i ritmi massacranti che erano costrette a vivere nei reparti della fabbrica.
Il 5 giugno 1968 ci fu un incontro tra incaricati dall’azienda e rappresentanti delle operaie. Il negoziato non prese nemmeno il via e la riunione si concluse con un nulla di fatto. A quel punto le lavoratrici della camiceria decisero di riprendere gli scioperi di protesta. Dal 5 al 15 giugno la produzione venne bloccata per più di 50 ore, con la partecipazione completa di tutte le maestranze.
Come risposta, la proprietà decise immediatamente di sospendere, per ragioni disciplinari, 137 operaie. Questa determinazione di padron Pancaldi non produsse però il rientro della protesta, anzi… Su un organico di 429 addette l’adesione alla lotta fu totale, quelle donne e quelle ragazze espressero una forza di volontà e una compattezza notevoli.
Il 17 giugno 1968, mentre era in corso uno sciopero, con un vero e proprio blitz da commando, un gruppo di sgherri del padrone entrò nel magazzino della fabbrica e portò via le scorte delle stoffe in pezza. Quell’episodio produsse la rottura definitiva delle trattative e, a quel punto, le lavoratrici scelsero, con una decisione estrema, di occupare la fabbrica. La direzione dell’azienda rispose facendo partire una denuncia per danni.
Il 20 giugno le operaie della Pancaldi inscenarono un corteo improvviso che dalla sede dell’azienda, a Croce Coperta di Corticella, raggiunse il centro della città dove venne distribuita una lettera aperta ai bolognesi in cui venivano esplicitate le ragioni della loro lotta.
Nei quarantasei giorni di occupazione della camiceria quelle giovani donne divennero il simbolo della lotta operaia nella nostra provincia. Tutti cominciarono a chiamarle le “pancaldine” e si dice che furono i loro scioperi, i loro picchetti e la loro occupazione a dare il via all’autunno caldo bolognese.
All’epoca esistevano ancora le fasce salariali per genere, per età e per zone territoriali, in quella lotta contro l’autoritarismo del padrone, per ridurre i tempi di lavoro, per avere migliori condizioni di vita in fabbrica, si gettarono le basi per ottenere la parità salariale.
Il 9 agosto 1968 il questore di Bologna ordinò lo sgombero della camiceria, quasi in contemporanea venne raggiunto un’intesa tra azienda e sindacati. L’accordo prevedeva l’aumento dell’indennità di cottimo, un’indennità sostitutiva in attesa della costruzione della mensa aziendale, pause retribuite alla catena e al reparto dello stiro, il riassorbimento delle lavoratrici licenziate, l’annullamento della denunce e la riduzione dell’orario.
Fu una vittoria? A tanti anni di distanza non abbiamo sufficienti elementi per dare un giudizio completo. Da alcune parti si legge che, con la chiusura della lotta, il padrone della Pancaldi fece di tutto per riportare la situazione dell’azienda alla condizione precedente la vertenza. Fu ripristinato anche il divieto di fare assemblee durante l’orario di lavoro.
Quello che è certo è che la conflittualità di tipo nuovo esplosa alla Pancaldi spiazzò non solo questura e gli industriali, ma, al di là delle dichiarazioni di circostanza, pure tanti nel campo sindacale. Quella agitazione, per molti versi spontanea, fu la spinta, nei mesi successivi, per un’infinità di scioperi organizzati sull’esempio di quelle giovani operaie.
Ricordare oggi le “pancaldine”, la loro lotta contro una condizione che le faceva sentire schiave, è un po’ come raccontare una storia paragonabile, per certi versi, a quella delle mondine.
E forse non è un caso che dalle “belle buone lingue” delle ragazze della camiceria Pancaldi, uscì come per le mondine, una canzone di lotta contro il loro padrone.
Quel tirchio di Pancaldi
non ci vuol dar dei soldi
ne ha sempre avuti tanti, ne vuol avere di più
per guadagnare ancora ci vuol di più sfruttare
non siam disposte a lavorar per lui.
Lui gira con la Miura e noi andiamo a piedi
se poi non si decide farem come i francesi…
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