Editoriale

La vita a perdere di Adil

E’ morto a poco più di trent’anni in una cella del carcere della Dozza, dove era detenuto e in cui frequentava il corso di montatore meccanico. Era nato a Casablanca ed era lì che, secondo lui, era nata la sua passione per fare il meccanico.

07 Febbraio 2022 - 22:42

Venerdì scorso è morto nella sua cella del carcere della Dozza un detenuto magrebino, lasciando sconfortate e smarrite tante persone che lo conoscevano. “Quando hanno aperto la cella era già tardi perché…”, è la prima strofa di una vecchia ballata di Fabrizio De André che narrava la storia di un detenuto trovato senza vita. Adil è stato trovato esanime venerdì scorso dal suo compagno di cella. Erano le sette di mattina, la sveglia aveva suonato, lui doveva andare al corso di montatore meccanico a cui si era iscritto, ma non si muoveva. Il suo compagno l’ha chiamato, però lui non rispondeva, era inerte, rigido. Il ragazzo si è messo a urlare, sono arrivati gli agenti e hanno verificato quello che lui temeva: Adil era morto.

In questi casi si dice: “Le cause del decesso dovranno essere accertate”. E’ arrivato il magistrato, è stata fatta l’autopsia. Prima che si conosca il suo esito, la voce “più accreditata”, quella che è stata fatta circolare, è che la morte di Adil sarebbe stata causata da un mix di farmaci risultato letale. Non è stato escluso un cedimento del cuore o una qualche altra ragione legata alla sua precaria salute, ma, conoscendo i trascorsi del “soggetto”, è stato fatto uscire ad hoc per i giornali l’episodio di Natale, quando Adil rimase vittima di un’overdose per un “cocktail di medicinali” e finì in ospedale. In più, il tragico episodio è stato utilizzato da un sindacato della polizia penitenziaria per ribadire la necessità di ritornare alla “medicina penitenziaria”, perché con la presenza del personale dell’Asl la situazione sarebbe peggiorata. E’ come dire che il ritorno al medioevo sia la situazione più consona per affrontare i problemi che, per quanto riguarda la salute in carcere, sono presenti e sono stati anche ultimamente denunciati.

La notizia della morte di Adil ha lasciato tanti detenuti delle sezioni penali sconcertati e sgomenti. In molti lo conoscevano per il suo sorriso che aveva perennemente stampato in volto. Con lui si rideva di gusto, era ironico con gli altri, ma soprattutto con se stesso. Più di una volta ricordava dove aveva abitato: “In via Ferrarese, a poche centinaia di metri dalla Dozza, così hanno sempre fatto poca fatica ad arrestarmi”. E dietro ci buttava sempre una sonora risata. Certo che il carcere Adil lo conosceva bene, ci era finito diverse volte, quasi sempre per episodi di piccolo spaccio. La sua ultima condanna era stata determinata dalla somma di tante sanzioni accumulate nel corso del tempo e prevedeva un fine pena nel 2026. Era uno dei tanti migranti arrivati via mare con qualche barcone, quando aveva 18 anni ed ora ne aveva poco più di trenta. Era nato a Casablanca ed era lì che, secondo lui, era nata la sua passione per fare il meccanico. Da quando aveva iniziato a frequentare il corso all’azienda meccanica girava spesso con uno scafandro di colore blu scuro. Sembrava andarne fiero di quella tuta di una volta, che veniva portata quando le officine puzzavano ancora di trucioli di metallo “arrostito” e di olio emulsionato. I suoi compagni di corso lo prendevano in giro per quel suo antiquato abito da lavoro, dicevano che, più che a un meccanico, Adil, per via del suo enorme pancione, assomigliava a un gommista delle periferie di Casablanca. E lui ci rideva di gusto per questa descrizione, ma della sua vecchia tuta andava fiero, soprattutto perché poteva strofinare e pulire le mani unte sulla stoffa che copriva le cosce, senza bisogno di stracci, come facevano i meccanici al suo paese, quando lui era piccolo.

Forse Adil era sbarcato sulle coste italiane portandosi appresso il sogno di fare il meccanico, ma quel suo proposito non ha fatto in tempo a compierlo. Finito fin da subito nel circuito della clandestinità, le sue uniche prospettive erano qualche lavoretto in nero, il nome falso e poi lo spaccio. E dallo spaccio alla dipendenza da sostanze il passo era stato ravvicinato e, di conseguenza, la via “obbligata” da percorrere era diventata il carcere. In galera non è facile disintossicarsi, se non trovi persone che ti aiutano è quasi automatico rifinire dentro. Aveva tentato la carta della comunità terapeutica in una delle sue detenzioni, ma non aveva funzionato. Anche ultimamente era nei termini per accedere alla comunità come misura alternativa alla carcerazione. Aveva deciso di aspettare, di partecipare al corso di formazione, di provare attraverso il lavoro in un’azienda meccanica di imboccare una strada diversa. Purtroppo non c’è l’ha fatta a cambiare quella tuta vecchia con una più moderna, non ha fatto in tempo nemmeno a spendere il suo primo stipendio che gli era stato appena accreditato. E’ morto in una notte di inizio febbraio, lasciando a tutti i suoi compagni il ricordo del pomeriggio precedente, fatto di scherzi, di battute di prese in giro e di risate. Un suo compagno di detenzione ha detto: “Era un bravo ragazzo, non aveva mai fatto del male a nessuno, solo a se stesso”. I detenuti musulmani delle sezioni penali, la sera di venerdì, hanno cucinato il cous-cous e hanno mangiato insieme, a gruppi nelle celle, per ricordare Adil e invocare che “la sua anima riposi in pace”.

“Tutte le volte che un gallo sento cantar penserò a quella notte in prigione quando…” (dicevano le parole di De André) Adil se ne andò.