Editoriale

In ricordo di Gianfranco Rimondi e del suo teatro politico

Venerdì 12 febbraio, dalle 9,30 alle 11,30, al Pantheon del Cimitero della Certosa, si terrà una cerimonia laica per dare l’ultimo saluto a un grande maestro di teatro che per tanti anni collaborò prima con “Mongolfiera”, poi con “Zero in condotta”.

11 Febbraio 2021 - 10:26

In questi tempi maledetti, in cui si fa sempre più lunga la lista delle persone care che se ne vanno a causa del Covid o di una delle tante altre terribili malattie, se n’è andato anche Gianfranco Rimondi, un nostro amico caro, un uomo di una dolcezza unica che si è sempre portato appresso una grande sensibilità.

Gianfranco ha vissuto per il teatro e il teatro è stato la sua vita. Di teatro ha scritto come drammaturgo e come giornalista. Ha firmato le regie di testi di drammaturgia contemporanea per differenti compagnie teatrali e gruppi di sperimentazione. Ha svolto un’ampia attività didattica e laboratoriale ed è stato insegnante di recitazione, tenendo numerosi stage di perfezionamento su Brecht, Beckett, Pinter e altri autori.

Nel 1963 fondò il “Teatro Evento”, una compagnia di teatro sociale, con la quale mise in scena tanti suoi testi, tra cui: “E tuttavia sempre giochi”, “L’ultima favola”, “Contaminazione per Rosa Luxemburg”, “Il parco della luna”, “L’eroica e fantasiosa operetta di via del Pratello”.

Nel 1993, con la sua compagna di vita e di palcoscenico Marina Pitta e con il musicista e sceneggiatore Salvo Nicotra, fece nascere il “Teatro dei Dispersi”, una compagnia che portò il teatro nel carcere di Bologna della “Dozza”, lavorando con un gruppo di detenuti per la messa in scena di uno spettacolo scritto e interpretato dai carcerati stessi. Nel 1996, sempre insieme a Marina Pitta e Nicotra, e con Teresa Martignoni, diede vita all’“Accademia 96”, spazio di studio e pratica teatrale.

Scrisse per diversi anni sulle pagine del quotidiano L’Unità, poi, dal 1986 al 2003 portò i suoi fogli di carta giallognola, con testi battuti rigorosamente con i tasti di un’Olivetti lettera 32, nelle stanze “dimesse” prima della redazione di Mongolfiera, poi di Zero in condotta.

Gianfranco arrivava puntualmente ogni settimana con i suo articoli da “1.900 caratteri” a spettacolo, al massimo potevano variare dalle 1.895 alle 2015 battute. Erano chiari, precisi e corretti… e scritti benissimo. E avvicinavano al teatro anche coloro che non si erano mai seduti davanti a un palcoscenico.

Vogliamo portare un esempio: si tratta di una recensione di Gianfranco del 1997 dello spettacolo di Dario Fo “Il diavolo con le zinne”, messo in scena a Bologna poche settimane dopo l’assegnazione a Fo del premio Nobel per la letteratura.

«Appena insignito del Nobel Dario Fo sarà ospite della nostra città e del Teatro Duse per alcuni eventi legati sia alla sua compagnia che ad incontri celebrativi e di studio sulla sua drammaturgia e alla rappresentazione benefica, in coppia con Franca Rame, di alcuni brani del mitico Mistero Buffo e di Sesso tanto per gradire.

L’omaggio a Dario comincia martedì 16, al teatro di via Cartolerie, con la rappresentazione de ‘Il diavolo con le zinne’, ultimo parto drammaturgico recitato da Franca Rame e Giorgio Albertazzi, che ha debuttato questa estate a Messina per Taormina Arte e che vede il novello premio Nobel impegnato nella regia, nell’allestimento delle scene e costumi ed anche nella composizione di alcune canzoni che animano lo spettacolo.

Domina nel lavoro la chiave grottesca dello ‘sghignazzo’. Una commedia dalle tecniche ‘rinascimentali’, ma con l’utilizzo di testi della tradizione italiana. Fo si ispira a ciò che succedeva nelle città post-comunali come Firenze, Roma, Napoli. Tutte soffrivano di una costante: gli incendi. Incendi ai lebbrosari, chiese, ospedali… che prontamente venivano sostituiti da banche, cattedrali, palazzi signorili e dove, alla base di tutto, regnavano la speculazione e la corruzione.

Nella storia dello spettacolo i due protagonisti, la serva ed il giudice, sono insidiati da due diavoli che vorrebbero possedere le loro anime per poter meglio corrompere. Per un intreccio di situazioni ed incidenti, che richiamano nella struttura del testo alla più antica tradizione della commedia dell’arte e delle commedia ‘all’improvviso’, invece di entrare nel corpo del giudice, i diavoli si impossessano, senza rendersene conto, del corpo della serva. Il qui pro quo manda all’aria i progetti dei diavoli: sarà necessario corrompere il giudice, attraverso la serva posseduta!

Il lavoro va avanti in un crescendo di situazioni di grande comicità e colpi di scena, in un carosello di Cardinali corrotti, falsi testimoni, maramaldi, serve e diavoletti. Canti, balli ed un linguaggio reinventato e coniugato tra onomatopee e ‘granmelot’, fanno di questa nuova commedia di Fo una vera e propria ‘opera’: un grande gioco che lo stesso Dario, ‘sghignazzando’, presenta affermando che “..ogni concomitanza con la cronaca dei nostri giorni è del tutto involontaria: si sa, gli antichi hanno sempre copiato spudoratamente scandali e personaggi della nostra attualità!”».

Come momento conclusivo del ricordo di Gianfranco Rimondi vogliamo ripubblicare un suo articolo apparso sulle pagine di Mongolfiera più di trent’anni fa. E’ uno spaccato straordinario del rione del Pratello e della storia “viva” della nostra città.

“TUGNEN-LA-RASPA”, IL PRATELLO E IL CIRCOLO PAVESE

Il 21 aprile Bologna fu liberata. Dal 21 al 25 aprile 1945 la gente del Pratello, gli “imboscati”, i giovani partigiani che ritornavano dalle colline, conquistano gli spazi di via del Pratello 53. E si installano per fondarvi una “Casa del Popolo”. «Prima c’erano i tedeschi – ci racconta Antonio Mandelli – avevano una loro base. In quella che poi diventerà una “sala da ballo”; i “tognini” ci portavano cavalli e altre bestie, razziate da qualche parte della provincia. Quando tornarono i partigiani, la merda e la paglia furono spazzate vie e lì si cominciò a ballare!».

L’euforia era grande nel dopo-guerra. Il Pratello, considerato “terra di nessuno”, o “terra dei poveri e dei diseredati”, cominciò a respirare. Quelli che tornavano, i partigiani, i malandrini, i “ladruncoli” e gli altri, che tornavano dalla naja o dal confino, installarono nei locali del Pratello un “bettolino”, dove si poteva bere con quattro soldi, mangiare qualche pasta fatta dalle donne del quartiere, giocare liberamente a carte, e organizzare alcuni momenti di incontro/scontro politico con quelle forze che avevano contribuito alla rinascita della “strada”.

E si continuava a ballare.

«Pensa che davanti all’ingresso della Casa del Popolo – continua Mandelli – era stato aperto sulla strada uno spaccio “cooperativo”, per la distribuzione dei “primi viveri” per quelle famiglie del Pratello, indigenti o coinvolti da storie politiche».

L’euforia di quegli anni veniva però bilanciata dalla volontà di molti soggetti di ricostruire un “tessuto politico” per la conduzione razionale e corretta di una Casa del Popolo che doveva rispondere alle esigenze non solo dei “ballerini” o di chi frequentava il “bettolino”, ma anche di chi, utopisticamente, pensava ad altre funzioni politico-culturali dello spazio conquistato.

Un minimo di “tessuto politico” (formato dalle forze Pci-Psi) si consolidò nella formazione di un “consiglio direttivo” della Casa del Popolo, che resistette anche alle crisi del ’48: elezioni perdenti della sinistra e “attentato a Togliatti”, fatti che infuocarono gli abitanti del Pratello, già pronti alla “rivoluzione impossibile” e all’occupazione e alla difesa di uno spazio ritenuto indispensabile alla vita della strada.

Placati gli animi, negli anni Cinquanta, la Casa del Popolo si trasforma nel CRAL (Circolo ricreativo assistenza lavoratori) con una licenza ENAL, che permetteva l’agibilità e la prosecuzione delle attività socio-culturali, in attesa della costituzione (a sinistra) dell’ARCI. Continuava l’attività dopolavoristica: il ballo al “Do-Re-Mi danze”, le prime “Befane per bambini”, le prime “gite dei pensionati” e alcuni sussidi particolari designati ad alcune situazioni di miserie. Mandelli ci racconta che, da giovane, per tornare dalla sua “ferma militare”, impossibilitato economicamente di raggiungere Bologna, ricevette dal Pratello 5.000 lire per poter ritornare a casa “congedato”.

Una prima rottura con l’ENAL (considerato un “carrozzone fascista ministeriale”) e un abbraccio con il “Circolo Combattenti e Reduci” (che prestava la “licenza” pubblica) permisero al Circolo di proseguire le attività sportive (con la società “Athos Ferri” – partigiano del Pratello) e di offrire ospitalità anche alla sezione territoriale dell’ANPI.

Si avvicinano gli anni Sessanta e molti giovani “pratelliani” entrano nello spirito dell’associazione di sinistra, e il CRAL, faticosamente, con conflitti e battaglie sentite, si trasforma nel “Circolo Arci Cesare Pavese”, con l’ambizione di dare vita a un nuovo gruppo dirigente, lontano dalla proiezione dei partiti e alla ricerca di una autonomia nell’ambito di un sistema abbastanza “massificato”, sul piano politico-socio-culturale.

Alla metà degli anni Sessanta si inaugurò il “Pavese”, con la presenza di Davide Lajolo (Ulisse), amico del poeta suicida, autore del Vizio assurdo, con un’affluenza incredibile di pubblico.

Perché dedicare una casa del popolo a Cesare Pavese? «Il poeta era un personaggio mitico per noi giovani – ci conferma Mandelli –. Un personaggio della sinistra già in polemica con i soggetti istituzionali e partitici. Un personaggio scomodo, come Majakovkij in Russia. Uno che ci poteva aprire a diverse culture, anche a quella americana, visto che aveva tradotto molti testi di quegli autori a noi sconosciuti».

Antonio Mandelli, Renzo Lenzi (Pesciolino), Enzo Rambaldi, Claudio Corticelli, Bruno Cavalli, Franco Bonfiglioli, Roberto Alvisi, Duilio Baratta, Franco Gelati, Giuseppe Molinari, Lidia Serenari e le relative mogli/fidanzate, sono le persone di quel rinnovamento, di quella voglia di far pulsare, nel cuore di Bologna, un desiderio di conoscenza, di allargamento mentale e culturale, di tentativi utopistici per affrontare tutte le tematiche socio-politiche che la quotidianità offriva abbondantemente sulla carta stampata e sui primi timidi “servizi” televisivi.

Le entrate in danaro del circolo venivano destinate, in quegli anni, alle attività culturali, alle iniziative, non più benefiche, destinate all’intera città: si parte dalla prima rassegna di “Cinema per ragazzi” realizzata dall’Apollo, poi rifluita al Settebello; all’ospitalità di una particolare “Marcia per la Pace”, con veglia notturna al Pratello, con la presenza di Danilo Dolci.

E ancora, rassegne e mostre di pittura e poesia; dibattiti sulla “riforma delle strutture psichiatriche” con Basaglia protagonista (il manicomio di via Sant’Isaia 90 era molto vicino al Pratello); con la presenza di molti cattolici e con la partecipazione attiva dei familiari dei malati di mente.

Nelle sale del Pavese, in quegli anni “fervidi e terribili” post ’68, seguivano cicli di conferenze sui problemi della scuola, sulla sessualità, seminari sociologici per l’Università; meeting economici con i sindacati; dibattiti sull’obiezione di coscienza; incontri con delegazioni di stranieri, affiancati da una ospitalità che veniva offerta a tutti: a gruppi e ad organismi studenteschi-universitari, a palestinesi, africani, greci, ecc.

Una cosa curiosa del Pavese era che chi voleva prenotarsi per un incontro, un dibattito, poteva liberamente iscriversi su di un tabellone, posto al fianco del bar-bettolino, tenuto dal mitico “Fu-Man-Chiù”, e scegliere il giorno e l’ora del ritrovo!

Sul versante cinema ci fu un inaudito e “temuto” gemellaggio con il parroco della chiesa di San Paolo di Ravone, per l’installazione di uno dei primi “cineclub” d’essai.

Alternativamente si proiettavano al Pavese e al Teatrino parrocchiale film azzardati e segnati dalla censura vaticana con i fatidici “xxx”. Il parroco di San Paolo poi intervenne al primo dibattito sull’obiezione di coscienza, organizzato dallo staff del Pavese. Entrò al Pratello. “Tugnen-la-raspa”, un frequentatore novantenne, assiduo, del Pavese, chiamò con un cenno alcuni dirigenti del Circolo e li apostrofò: «Oh! Té! Què denter… Un Prit!!” Non sapeva Tugnén che il Pavese si apriva a tutte le istanze: «… basta che non entrino dei fascisti!…», questa la parola d’ordine.

Tugnén, Oreste, Piaz, Amleto, e tanti altri “giocatori” di “tressette” e di scopone e di “massino”, ignoravano che uno spazio veniva dato al “Teatro Evento”, un gruppo sperimentale che cercava di realizzare la propria professionalità in un contesto socio-culturale fertilissimo per una drammaturgia che si doveva confrontare con momenti reali e concreti. Il “Teatro Evento” nel 1969 si installa nella “sala dei quadri” e tiene le sue prove. Ospita, senza clamore, il Living Theatre con Julian Beck e Judith Malina accampati con sacco a pelo; offre ospitalità alla prima riunione del FUORI (prima organizzazione degli omosessuali italiani che poi si ritroveranno nell’Arcigay), senza dimenticare l’ospitalità a tutti gli artisti disadattati che orbitavano su di una Bologna chiusa alle avanguardie e alle nuove esigenze di espressioni artistiche.

Il Pavese restava sempre aperto e autonomo.

Aperto anche nei confronti di “soggetti” che di volta in volta si avvicendavano all’interno di una struttura “polivalente”. Il Teatro Evento, dal ’69 agli anni Ottanta, realizza ricerche destinate alla scena e a un pubblico “partecipato” (‘L’eroica e fantastica operetta di via del Pratello’, ‘Tema: la casa’, ‘L’impresa’), spettacoli che coinvolgono il quartiere e la gente che interveniva a dibattiti, anche furiosi, sui contenuti degli spettacoli. Il Teatro Evento “abbandona”, e lascia lo spazio ai giovani dell’Angelo Azzurro, prima forma di “accoglimento per cinefili”, una organizzazione che riesce a catturare migliaia di giovani con una serie di film-cult bellissimi e introvabili (non era ancora aperto il Lumière!).

E non veniva dimenticato che, di fianco, dove si ballava al Do-Re-Mi-Danze, c’erano alcuni giovanotti/giovanotte, uscite/i da varie esperienze di scuole teatrali che stavano aprendo una pista circense, sulla quale tutti gli “sfigati” potevano esibirsi senza la paura di incorrere in una triste “Corrida”.

Nasceva il “Gran Pavese Varietà” con Patrizio Roversi e Siusy Blady alle prime armi, protagonisti di alcune stagioni terribilmente “forti” per il Pratello. Il fenomeno “inconscio” di Patrizio (detto anche “Patatone”) era quello di affermare che a Bologna ci si poteva divertire anche con poco; si poteva riscoprire che un certo tipo di comicità poteva essere targata “BO”; e che tutti in qualche maniera avevano la possibilità di esibirsi anche in uno spogliarello “guidato”! Ed è stato un successo!

La storia del Pavese continua con “azioni centrifughe”: si allontanavano (volontariamente) esperienze come il Teatro Evento, l’Angelo Azzurro, il Gran Pavese Varietà; ma, a cominciare dagli anni Novanta ricomincia con una azione “centripeta”, con l’apertura di spazi al Quartiere e alla “Associazione culturale Circolo Pavese”, finalmente distaccato da ingerenze politiche, proiettato alla realizzazione di una continuità “storica”, con l’intenzione di “moltiplicare le attività socio-culturali, strettamente annesse alle problematiche del territorio, privilegiando sia il contesto sociale del quartiere (Pratello), sia il centro storico della città”.

Il Pavese, confortato dalla presenza dei “vecchi” del Pratello, i quali continueranno a ricreare un “bettolino”, dove si può giocare ai “tarocchi” o a “con-cin-cina” innocentemente; e dove magari ci si può proiettare in un vorticoso “liscio” con la musica del maestro Passerini; il Pavese potrà esprimere una cultura “mix”, coniugabile con i movimenti di giovani alla ricerca di nuove e “pericolosissime” forme di espressione e di comunicazione, tenendo conto che, spesso, “il passato si coniuga con il presente… e forse anche con il futuro…”.

Così disse il plurinovantenne Tugnén-la-Raspa.