La lotta dei pazienti affetti da Sla, sclerosi multipla e altre patologie neurologiche, dei loro familiari e delle associazioni che si occupano di malattie neurodegenerative e neuromuscolari.
Sarà che è un periodo in cui le manifestazioni e i cortei non abbondano e, comunque, le poche volte che ci sono, i media mainstream fanno fatica a trovare un po’ di spazio a questi eventi e fanno ancora meno notizia i contenuti di queste proteste. Il titolo e la foto possono uscire se, nel corso delle contestazioni, ci scappa qualche fantoccio a testa in giù, qualche scritta di troppo o qualche “contatto” tra manifestanti e forze dell’ordine (che subito viene declinato come “scontro”). Le centinaia o a volte le migliaia di persone che partecipano, le ragioni e gli obiettivi delle mobilitazioni, a quanto pare, sono meno importanti delle ormai famose “tessere in bianco” che i/le contendenti per la carica di segretario del Pd vorrebbero riempire frettolosamente con loro aficionados, prima dell’inizio del congresso, per aumentare la consistenza delle loro “truppe cammellate”.
È per tutte le ragioni che abbiamo sopra esposto, che ci ha fatto piacere vedere lo spazio dignitoso con cui gli organi di informazione hanno dato conto del presidio che si è svolto la mattina dello scorso 25 gennaio davanti alla sede della Regione Emilia-Romagna. A protestare, con le loro carrozzine, erano i malati di Sla, di sclerosi multipla e di altre patologie neurodegenerative e neuromuscolari. E c’erano i loro familiari sostenuti dalle associazioni Miastenia Insieme, AssiSLA, AISA e AssiSM. Tutti quanti insieme, dietro lo striscione “Il bene deve vivere al Bellaria”, esprimevano con risolutezza la loro opposizione alla volontà dell’Ausl di chiudere il centro “il BeNe” in seguito al raggiungimento dell’età di pensionamento del responsabile, il dottor Fabrizio Salvi.
“BeNe” sta per “Bellaria Neuroscienze” ed è il reparto dell’oaspedale Bellaria che ha in cura oltre duemila pazienti affetti da sclerosi laterale amiotrofica, da sclerosi multipla e altre patologie neurologiche, tutte malattie gravissime. Si tratta di un centro ad alta specializzazione dove i pazienti vengono presi in carico in tutte le fasi della malattia e dove viene garantito l’accesso ai migliori livelli di qualità clinica ed assistenziale.
La direzione dell’Ausl ha provato a rassicurare, garantendo che i malati non verranno lasciati soli e saranno presi in cura in varie unità operative. Questa dispersione, però, i pazienti, i familiari e le associazioni non la condividono assolutamente e ricordano pure che sono tre anni che si stanno mobilitando contro questa ipotesi, per loro “il BeNe” è una garanzia di tutela, efficienza e continuità di cura per gli assistiti.
Certo fa specie, dopo tutti i discorsi fatti in epoca Covid sul fatto che, nel corso degli anni, attraverso i cosiddetti “processi di razionalizzazione”, la sanità pubblica ha subito dei tagli gravissimi che ne hanno minato le fondamenta… dopo i discorsi sulla necessità di cambiare pagina…. non si è neppure arrivati allo “scampato pericolo dalla pandemia” e già vengono riproposte le logiche che hanno caratterizzate le politiche sanitarie dei governi di entrambe le sponde (centro-sinistra o centro-destra, giallo-verde o giallo-rosso, da Draghi fino al nero-verde- azzurro attuale).
Sarà un caso se l’idea di chiudere il reparto “BeNe”, diretto dal dottor Salvi, non sia tanto diversa da quello che avvenne 15 anni fa, quando lo stesso reparto (che non aveva ancora quel nome) voleva essere chiuso a vantaggio della Clinica universitaria delle neuroscienze che non aveva sicuramente la stessa attrattiva del centro del Bellaria.
Anche allora ci fu una grande mobilitazione, dei pazienti, dei familiari, delle associazioni, degli operatori sanitari che nel reparto ci lavoravano, ma in quella lotta furono coinvolte anche realtà di movimento e dell’antagonismo sociale cittadino. Quella variegata “ibridazione sociale”, composta da “filamenti di diversa origine”, portò a costruire una massa critica che riuscì a piegare i desideri di alcuni baroni della medicina di far cessare l’esperienza (forse troppo “libertaria” e all’avanguardia) portata avanti dal gruppo di lavoro che si era formato attorno alla figura del dottor Fabrizio Salvi.
Si tennero incontri in Comune, assemblee pubbliche, perfino riunioni in un centro sociale come Vag61. I lavoratori e le lavoratrici del centro di neuroscienze aprirono il reparto alle varie realtà cittadine che appoggiavano la loro lotta per far comprendere concretamente quel “mondo a parte” che voleva essere cancellato.
La prima caratteristica peculiare era quella del lavoro di squadra, dove ognuna delle persone che all’interno del reparto svolgeva un ruolo si sentiva un tassello importante del progetto collettivo, dai medici agli infermieri, dai tecnici agli ausiliari agli operatori e alle operatrici di diverse specialità: neurologi, pneumologi, fisiatri, fisioterapisti, logopedisti, gastroenterologi, psicologi, psichiatri, dietologi, dietisti e assistenti sociali. Chi in precedenza aveva frequentato un centro sociale, dopo quelle visite, rimaneva stupito dalle modalità di collaborazione tra i vari soggetti, le responsabilità specialistiche erano in campo, ma le scale gerarchiche nei comportamenti parevano appianarsi a fronte di una orizzontalità data da una compartecipazione convinta. Altra impronta di quel metodo di lavoro era la collaborazione del team ospedaliero con le strutture sanitarie del territorio più vicine al paziente, come i medici di base e gli operatori dell’Assistenza domiciliare integrata. Un terzo tratto distintivo fondamentale era la “presa in carico multidisciplinare” del paziente, in tutte le fasi del percorso assistenziale, dallo stadio diagnostico a quello terapeutico e a quello di monitoraggio periodico, con una gestione clinico-assistenziale che non si occupava solo della malattia, ma anche delle problematiche socio-sanitarie ad essa connesse. Con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita dei pazienti e rallentare la progressione di malattia partendo dalle loro esigenze specifiche e da quelle delle loro famiglie.
Tra le attività fondamentali del Centro c’era anche il supporto alle attività delle associazioni dei pazienti e dei loro familiari, la cooperazione con queste realtà avveniva, sia a livello ospedaliero che sul territorio, rendendo partecipi in questo modo i pazienti nel processo clinico-diagnostico.
Ultima questione importante: il centro svolgeva attività di ricerca con particolare attenzione agli aspetti clinici e agli effetti dei trattamenti specifici, con un aggiornamento costante sul panorama scientifico internazionale.
Lo spirito e la mentalità con cui “il BeNe” ha operato in questi 15 anni, la qualità con cui lo si è fatto, hanno rappresentato la missione del gruppo di lavoro che si è riunito e impegnato intorno a Fabrizio Salvi e hanno diversificato positivamente il reparto dell’ospedale Bellaria da altri centri che svolgono un’attività affine. Forse è questa “differenza costruttiva” che non è mai stata digerita dai vertici della sanità territoriale, insieme alla “scomodità” rappresentata da Salvi.
Qualche parola su questo medico neurologo che ha svolto un ruolo fondamentale e di grande responsabilità nella gestione del Centro forse è meglio spenderla.
Il suo curriculum è troppo lungo per titoli, compiti di scientific advisor e responsabilità in progetti e gruppi interdisciplinari da poter essere presentato compiutamente in un articolo (chi fosse curioso/a può rintracciarlo facilmente su internet). Noi l’abbiamo conosciuto tanto tempo fa e siamo rimasti stupiti dalla sua umanità, dal suo “essere alla mano”, dalla sua competenza, dalla sua disponibilità e dalla sua abnegazione. E’ un medico che ha sempre creduto nella sanità pubblica, perché reputa che sia il luogo migliore per curare le persone e fare ricerca, soprattutto in un settore come quello delle malattie neurologiche rare e neuroimmuni.
Per il dottor Salvi la vicinanza dei propri cari fa una differenza fondamentale: “Affrontare la malattia da soli è drammatico. Se non hai incoraggiamenti è quasi inutile fare riabilitazione. Le terapie costano ugualmente tanti sacrifici ma, se hai vicino chi ti ama e ti fa andare avanti, è la voglia di stare meglio che aumenta e hai risultati migliori”.
Infatti, per lui, è essenziale per chi è ammalato avere accanto, insieme al medico, chi può dargli le forze per vincere la sua battaglia. Probabilmente è per queste ragioni che, quando è stato richiesto, dopo le ore del suo turno di lavoro in ospedale, non si è tirato indietro per visitare persone malate a casa (gratuitamente).
E, in quei contesti, oltre la professionalità delle sue diagnosi, anche il valore delle sue parole hanno avuto un peso: “La vita vale sempre la pena di essere vissuta e la malattia va accettata, ma non come una resa, anzi bisogna combatterla. Ma da soli non si vince. Non c’è più solo il rapporto medico-paziente. Anche i familiari sono fondamentali. E’ questa la vera alleanza terapeutica, è questo l’approccio che può cambiare le cose”.
Forse la determinazione dei pazienti, dei familiari e delle associazioni per salvare “il BeNe” deriva anche da queste parole di Fabrizio Salvi e dalla speranza che il lavoro quotidiano svolto in quel reparto del Bellaria tiene accesa per tante persone colpite da malattie molto gravi.
Come quindici anni fa, quella lotta va sostenuta. Come quindici anni fa quella lotta è necessario vincerla per tenere accesa quella speranza.