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I facchini e le rivolte, una storia antica

Dal libro “Ballate sediziose” un estratto sul ruolo svolto dai facchini nelle sommosse bolognesi del Settecento e dell’Ottocento.

02 Febbraio 2014 - 15:54

La lotta e la strenua resistenza dei lavoratori della logistica, che ormai da mesi si battono davanti ai cancelli dei magazzini e nelle piazze, ha dei legami storici che la stampa mainstream ha dimenticato o non conosce. In questo estratto del libro “Ballate sediziose”, di Valerio Monteventi, un po’ di storie sulle balotte dei facchini e le rivolte bolognesi di qualche tempo fa.

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La balotta dei facchini e le rivolte bolognesi

Se ci fosse un manuale di mitologia urbana, io ci sarei dentro. Tutti, in dialetto bolognese, mi chiamavano “Canaj, il terrore dei vampiri”. Dicevano che avevo l’aggressività di un cane e una fiatella all’aglio che faceva avvicinare solo il diavolo. Ci aveva poi pensato la fantasia popolare a fare il resto: “can” più “aj” ben bene amalgamati davano come somma “Canaj”.

Tutto era iniziato quando, a tre anni, mia nonna Fausta aveva cominciato a darmene due spicchi ogni mattina a digiuno. “Uno per il cuore e l’altro contro l’influenza”, diceva imboccandomi.

Col passare degli anni, mettendo io insieme qualche spicchio di giudizio in più, la premurosa Fausta aumentò la dose, sostenendo che era un’arma micidiale contro le malattie infettive e le epidemie che aggredivano la povera gente: “tifo, difterite, tubercolosi e colera… pussa via… l’aglio allarga i vasi e fa scorrere meglio il sangue… puzzerai come un appestato, ma quel che conta è il risultato”.

Le profezie della saggia Fausta diedero i risultati auspicati. Io crebbi sano e robusto come un pesce, anche se il mio alito puzzava come un pesce morto. Verso i 13 anni, non scarseggiavo in vigore e prestanza fisica. Come si dice, ero un predestinato, la mia strada era già segnata. Cominciai col portare ceste e, poco dopo, fui ammesso alla categoria dei facchini. Per entrarvi ci volevano forza, abilità e buona salute, attributi che non mi mancavano. Nel sollevare quintali non fui secondo a nessuno, ma anche a vuotare bicchieri diventai molto bravo. La questione del vino aveva una certa rilevanza nella vita di un facchino, la paga infatti veniva spesso corrisposta sia in denaro sia con “onoranze in vino”. E c’era anche un detto: “un facchino, per farsi rispettare, deve essere capace di portare un barile di vino sulle spalle e di tenerne uno dentro lo stomaco.

Altre cose fondamentali per un “uomo di fatica” erano la cinghia e la balla.

Se i carabinieri avevano la bandoliera, i facchini non si staccavano mai dalla loro cinghia. La portavano a tracolla in diagonale quando la tenevano a riposo, altrimenti la stringevano in vita, con due giri, per sostenere e proteggere la schiena durante gli sforzi. La utilizzavano per le casse o per le cose ingombranti, difficili da tenere in presa.

La balla, invece, era un termine destinato a molti usi. Che fosse carbone, farina o grano, la balla era il carico che, insieme al sacco, il facchino maneggiava. Balla veniva chiamato anche la tela del sacco o lo straccio col quale i “portatori di fardelli” si coprivano la testa ripiegandoli a cappuccio. Fu, pertanto, quasi naturale che la “balla dei facchini” diventasse, prima, il nome delle corporazione, poi il modello di autorganizzazione e di autodifesa di quei lavoratori. Non è un caso che le prime forme di mutuo soccorso presero piede tra i facchini. Il loro vincolo reciproco era assoluto: sia sul lavoro sia per la divisione dei guadagni della giornata oppure quando c’erano da trovare i soldi per una disgrazia o un funerale. Nella loro scala di valori la solidarietà aveva la stessa importanza della forza, ma si trattava di un sostegno a condizione: “Le malattie prodotte dagli eccessi di vino, dai vizi, dal malcostume dell’associato, conosciute come tali non danno diritto al soccorso”. In più, per chi mancava ai propri doveri nei confronti degli altri membri della balla, c’era una multa che andava a rimpinguare la “cassa dei tenaci”, una specie di forziere solidale che serviva ai facchini per tener botta.

Alle porte di Bologna esistevano i casotti del dazio: tutte le merci venivano fermate e controllate a questi punti di accesso. Erano i facchini delle varie balle che, insieme ai birocciai, si occupavano del carico, del trasporto e della consegna dei generi dopo il pagamento dei dazi. In quell’ambito erano molto importanti le operazioni di peso: ogni facchino, con la balla sulle spalle, andava sulla bascula e si pesava insieme al suo carico. Dal peso totale andava poi tolto il peso del facchino e ne usciva il peso netto del bene.

Questa organizzazione del lavoro richiedeva una forte presenza territoriale della categoria, ogni rione popolare aveva una sua balla, con regole di lavoro e di vita molto precise. Chi sforava queste regole, e i facchini, da bravi lazzaroni, molto spesso lo facevano, dava vita alle cosiddette “balotte”. Con una “elle” sola, perché questi gruppi operavano, per lo più, a Bologna e “balla”, tradotto in dialetto bolognese, diventava “bàla”, da cui derivò “balotta”. Stare in una balotta voleva dire essere molto spesso ai margini della legge e, qualche volta, pure contro. Significava, se necessario, trovare reddito extra mercato, fuori dalle “normali” funzioni lavorative, quasi sempre si trattava di conferimenti in natura. Oppure prendersi la libertà di svolgere compiti di pubblica utilità, come spegnere incendi, assistere gli appestati o fare gli acquaioli, ma, quando ci voleva, usare la cinghia per sferrare qualche salutare cinghiata e alzare il cappuccio della balla per non farsi riconoscere. Essere della balotta era un modo di vivere ed erano sempre i compagni del tuo gruppo che ti facevano scudo contro i soprusi della polizia austriaca o di quella pontificia o di quella reale.

L’ho tenuta lunga, lo so, ma vi ho voluto raccontare tutto questo per farvi capire le ragioni per le quali i facchini svolsero un ruolo così importante nelle rivolte bolognesi del sette e dell’ottocento. Per via del loro lavoro, erano in grado di bloccare i flussi vitali della città. Pur spaccandosi la schiena dalla fatica, non ci tenevano a scrollarsi di dosso il vestito dei reietti e dei cafoni, continuavano a stare nella parte più bassa e pezzente del popolo: “quella che non aveva denari e non si lavava le mani che il giorno del riposo festivo”. Si sentivano poveri, ma la loro identità era quella della “canaglia felice”. Un po’ spacconi, con il coraggio sempre appresso, erano convinti che si vivesse una volta sola e che ogni giorno passato a lamentarsi della loro condizione fosse un giorno sprecato. Per questo, ogni occasione di rivolta andava presa al volo. E, in quei momenti, balle e balotte ritornavano insieme.

Di balotte ce n’erano quasi in ogni cantone, la mia si chiamava dei “cinque mulini”. Erano quelli mossi dalle acque del Savena che, dopo aver preso la spinta dalla chiusa di San Ruffillo, lambiva la base della Collina del Monte Donato, entrando in città da Porta Castiglione. Il più importante dei cinque era il Mulino Parisio, riconoscibile per l’altissima ciminiera, che faceva da riferimento per chi entrava in città dalla via Toscana. Poi c’era il Mulino Foscherari, che dava forza a una cartiera, il Mulino di Frino, situato nei pressi dei giardini Margherita, il Mulino della Misericordia, che stava dalle parti di Porta Castiglione, e il Mulino del Gomito, posizionato in uscita dalla città.

Oltre a me, gli altri fondatori della balotta erano Farinòn (il farinone), un gigante che movimentava sacchi di farina da un quintale come fossero cuscini di penne d’oca, e Farinèn (il farinino), un ometto tutto nervi “campione di tara”, col miglior rapporto tra peso corporeo e peso della balla trasportata che ci fosse a Bologna. Noi tre, in giro di sera, facevamo solo dei malestri. Diventammo famosi tra le altre balotte per la nostra specialità che consisteva in un insieme di ingiurie e sfide con cui Farinèn provocava gli sbirri. Questi lo rincorrevano per metterlo in gattabuia e lui si rifugiava dietro agli angoli bui, dove spuntavamo io e Farinòn coi nostri sacchi. Li scaraventavamo in testa agli sbirri e zò bott!!!… Non c’era nessuno che picchiasse i sacchi con la passione e il piacere che ci mettevamo noi.

C’è chi sostiene che sia causa nostra il detto “un sacco di botte”. Mah, chissà, certo è che non abbiamo inventato niente… Questa non voluta celebrità ci fece entrare sempre più in combutta con la “canaglia” bolognese. Negli anni a seguire finimmo in mezzo a tutte le congiure, i complotti e le rivolte che scoppiarono in città.

La prima fu quella del 1792, il suo nome era tutto un programma: congiura dei malintenzionati. Per quei tempi, fu la cospirazione più popolare che si fosse mai tenuta, niente intellettuali e niente borghesi illuminati, solo elementi delle categorie più infime e dei mestieri più umili. Tra i capi c’erano un falegname, un lardarolo e un lanternaio. Noi il lardarolo l’avevamo conosciuto durante un trasporto di carni suine. Era soprannominato “il comunista”, perché correva chiacchiera che facesse lo stufatino coi bambini piccoli. Ci aveva chiamati perché eravamo facchini da mulino e, secondo lui, movimentando ogni giorno quintali di grano, eravamo testimoni diretti di quello che i panificatori bolognesi stavano facendo. C’era stata un diminuzione, assolutamente non giustificata, delle quantità di grano introdotte in città. La gente pativa la fame e aveva il pane come primo e a volte unico alimento. Su questo bisogno i proprietari dei forni ordirono una speculazione schifosa per ridurre il peso della singola pagnotta, allargando il divario tra peso reale e peso dichiarato.

L’intenzione dei “malintenzionati” era quella di tagliare il collo ai nobili e ai privilegiati e a quei maiali che accaparravano per raggirar la plebe con frodi e truffe.

La congiura era prevista per il 27 agosto del 1792, ma venne scoperta il giorno prima. Non si sa perché non si sa per come, gli sbirri trovarono a casa di uno dei congiurati il piano insurrezionale con tutte le sue articolazioni. Il disegno degli insorti prevedeva una prima scorreria all’alba in quattro diversi punti della città. L’ordine era appiccare il fuoco ai fienili e alle stalle delle stazioni di posta. Gli incendi dovevano servire per richiamare in quei luoghi soldati e sbirri. All’epoca non c’erano i pompieri e, per le operazioni di spegnimento, i militari reclutavano a forza gente di strada che non prendeva bene questa imposizione. Con la città sguarnita, i “malintenzionati, con le armi in pugno, avrebbero dato l’assalto alla guardiola dei gendarmi sulla piazza principale. L’ordine era di devastarla. Dopo di che, stessa sorte doveva essere riservata al quartiere dei soldati che si trovava lì vicino. Il corpo di guardia del Palazzo pubblico andava messo fuori uso, per non avere ostacoli a penetrare nell’arsenale e svaligiarlo. Il passaggio successivo era l’attacco alla prigione del Torrone, con la liberazione dei detenuti e la distribuzione delle armi requisite. A quel punto, gli insorti, insieme ai prigionieri liberati, avevano la forza di un piccolo esercito e si poteva passare alla parte finale del piano insurrezionale. L’intento era di prendere in ostaggio il Cardinal Legato e una serie di cariche politiche. Dopo di che mancava solo l’istigazione alla rivolta di massa, indirizzando la rabbia popolare contro i fornai, uccidendone il maggior numero possibile. Nei fogli clandestini ci stava anche il saccheggio delle case dei ricchi e l’uccisione di un lungo elenco di benestanti.

La scoperta della congiura bloccò tutto questo ben di dio. Le guardie rinvennero i nomi di alcuni dei congiurati e li arrestarono. Quei poveracci furono inviati quasi subito al carcere di Civitavecchia e, nel mese di ottobre, vennero processati e condannati all’ergastolo. Della congiura si parlò il meno possibile. Dicono che il motivo fosse che ricchi e potenti si erano cagati addosso per quello che avrebbe potuto capitare.

Noi della “balotta dei 5 mulini” non fummo toccati. Per molto tempo nessuno ci venne a cercare. Dovettero passare quasi due anni prima di tornare ad essere operativi.

Un tal Luigi Zamboni che, fin da giovinetto, aveva svolto attività clandestina per liberare Bologna dal dominio del papato, dopo alcuni anni passati in Francia a imparare come avevano fatto la rivoluzione, tornò in città nel 1794 per organizzare una sollevazione popolare. Invasato di idee di libertà, si mise a reclutare studenti universitari, gente del popolo scontenta, plebaglia che viveva ai margini e facchini. Nella sua casa di via Strazzacappe cominciò a riunire un bel gruppo di congiurati. Il suo piano ricalcava, nei passaggi essenziali, quello dei “malintenzionati”. Nel Palazzo Pubblico ci stavano le massime autorità e il Cardinal Legato, c’erano anche cannoni e depositi di armi e si trovavano pure le carceri. Per quanto riguardava i soldati di guardia, la notte i cavalleggeri ritornavano a casa e, a far le sentinelle, rimanevano solo le guardie svizzere. L’efficienza di questi sbirri non era un granché: spesso erano ubriachi e volentieri si nascondevano nelle garritte a dormire. I congiurati avrebbero dovuto attaccare di sorpresa. Zamboni pensava che sarebbe stato facile entrare, chiudendosi alle spalle i portoni del Palazzo. Anche la cattura del Cardinal Legato e dei suoi scherani veniva raccontata come una cosa semplice, così come l’apertura dei cancelli della prigione. Fatti questi passaggi, si sarebbe consigliato la resa al comandante della guarnigione. Se avesse respinto la proposta, c’era pronta l’artiglieria per l’attacco alle caserme, obbligando i soldati a deporre le armi. Gli sbirri sarebbero stati dispersi con la forza o corrotti col denaro. Dopo il trionfo dell’insurrezione, una delegazione degli insorti avrebbe convocato i capi famiglia per presentare la nuova costituzione che, successivamente, sarebbe stata applicata a qualunque altra città che si fosse sollevata.

Zamboni era talmente preso dall’entusiasmo che non aveva pensato di guardare in faccia ciascuno dei congiurati. Se l’avesse fatto, forse, si sarebbe accorto che almeno due dei presenti puzzavano da spioni lontano un chilometro. Io lo dissi a Farinèn che era con me alla riunione. Purtroppo per noi e per il povero Zamboni, non ci eravamo sbagliati.

La sera del 13 novembre del 1794, Luigi Zamboni, insieme al suo fratello d’ideale Giovan Battista De Rolandis e ad altri quattro patrioti, attuarono un’azione dimostrativa, distribuendo volantini contro il governo pontificio, per invitare il popolo a ribellarsi. Il giorno successivo doveva essere quello della rivolta. I pochi congiurati che si trovarono all’alba in Montagnola non ci misero molto a convincersi che la cospirazione era stata scoperta. Era una di quelle mattine dell’autunno bolognese, dense di nebbia e umidità. La coltre grigia di foschia era tagliata dalla luce tremolante delle lanterne degli sbirri che si muovevano avanti e indietro per perlustrare eventuali presenze di facinorosi e sovversivi. I pochi passanti che, per caso, a quell’ora, si trovavano nella zona venivano fermati e interrogati con modi spicci. Chi era venuto lì per darci dentro non si perse d’animo. Tutti insieme si decise, stando a distanza di sicurezza dagli sbirri, di aspettare l’orario degli operai. L’idea era quella di leggere il proclama dell’insurrezione al passaggio dei lavoratori, sperando di accendere il loro fervore di libertà. Ma non passò quasi nessuno. Non c’era più alcuna speranza che il popolo quella mattina potesse essere chiamato alle armi. Decisero di allontanarsi, riservando a tempi migliori l’inizio della rivoluzione.

Sentendosi traditi, prendendo atto del fallimento del loro tentativo rivoluzionario, Zamboni e De Rolandis fuggirono verso l’appennino, ma vennero catturati due giorni dopo dalle milizie papali mentre erano in Toscana. Furono entrambi segregati nel carcere del Torrone. Zamboni morì il 18 agosto 1795 nella sua cella, soprannominata “l’inferno”. Dissero che si era suicidato mettendosi una corda al collo, ma in parecchi sollevarono dei dubbi sulla sua morte. De Rolandis fu processato e condannato a morte. La sentenza venne eseguita il 23 aprile 1796 in Montagnola, la pubblica impiccagione avvenne davanti al mercato della Piazzola.

Se ci si pensa, alla fine, avevano distribuito solo dei volantini. Forse il pericolo stava in quello che c’era scritto: “Chi comincerà non sarà solo, avrà buon seguito… Scuotetevi o cittadini da quel letargo in cui giacete profondamente immersi, non esitate a seguire le orme di chi vi addita la libertà…”

Quello che avvenne nei mesi successivi fu causato dal miscuglio micidiale tra la “febbre giacobina” e il cosiddetto “furor di popolo”. L’arrivo delle truppe napoleoniche a Bologna, nel giugno del ’96, accese tante micce di rivolta della canaglia bolognese. Ci furono sommosse per piantare in piazza un “albero della libertà” e per dar fuoco a stemmi e insegne nobiliari. Non si contarono gli arresti di sbirri da parte della neonata milizia popolare dei “Rigadèn”, chiamata così per le braghe di tela rigata che portavano i suoi soldati, secondo l’usanza dei popolani dell’epoca. E non vanno dimenticate le notti di occupazione dei punti chiave della città e lo spavento che serpeggiava tra conservatori e benpensanti.

Per finire, la rivolta di facchini, operai e lavoratori giornalieri del mese di giugno del 1797. In un sabato di paga, le banche cittadine decisero la svalutazione della moneta . Questo provocò una conseguenza che fece molto incazzare i salariati: infatti, all’improvviso, nelle loro tasche finirono delle monete che valevano tre baiocchi in meno rispetto al giorno precedente. Non c’è quindi da stupirsi se l’obiettivo principale di quel tumulto operaio fosse l’arresto dei principali banchieri della città.

Come avete potuto capire dalle mie parole, in poco più di due anni ci fu un susseguirsi ininterrotto di complotti e scorrerie, assalti ai forni e rivolte. I protagonisti avevano tutti un tratto comune: essere “arrabbiati” contro le condizioni di vita intollerabili a cui erano costretti i ceti popolari. Che fosse un vero e proprio movimento difficile dirlo, qualcuno lo definì “giacobinismo plebeo”. Dentro quelle battaglie di strada si ritrovarono studenti universitari e facchini, operai tessili e malviventi, mendicanti e straccioni…