Speciale

Dal Cpt al Cpr: una storia bipartisan, una storia di sofferenze e di lotte

In vista della manifestazione di sabato, un approfondimento sui centri di detenzione etnica a Bologna che riprende uno speciale pubblicato da Zic.it negli anni passati aggiungendo un capitolo sui Centri per il rimpatrio che il Governo vuole moltiplicare. E nelle foto raccolte dal CentroDoc “Lorusso-Giuliani” un viaggio nelle continue mobilitazioni contro i lager di Stato.

12 Ottobre 2023 - 11:33

L’acronimo CPR sta per Centro di permanenza e rimpatrio per i migranti, si tratta nella realtà di un centro di detenzione etnica dove le cittadine e i cittadini stranieri, sprovvisti di permesso di soggiorno, possono essere trattenuti in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione. Da quando furono istituiti nel lontano 1998, con il Testo unico sull’immigrazione voluto dal governo di centro-sinistra e firmato da Livia Turco e Giorgio Napolitano, hanno cambiato periodicamente nome, prima CPT e poi CIE, adesso CPR.

All’inizio il tempo massimo di permanenza era fissato a 30 giorni. Questo termine venne raddoppiato con la Legge Bossi-Fini nel 2002. Il primo decreto sicurezza a firma di Matteo Salvini innalzò il limite a sei mesi. Di recente, il governo Meloni, prima con l’approvazione del cosiddetto “Decreto sud” ha portato il periodo di “trattenimento” a 15 mesi, poi, dopo alcune settimane, con un nuovo provvedimento urgente l’ha allungato a 18 mesi (il massimo consentito dalla normativa europea). Nel frattempo Governo Meloni ha accelerato i tempi per l’attivazione dei nuovi CPR, per bocca del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi verranno aperti in ogni regione, e dal Consiglio dei ministri sono arrivate disposizioni immediate al ministero della Difesa per individuare siti militari ed ex caserme dove realizzare nuove strutture nelle Regioni in cui attualmente mancano (Veneto, Campania, Emilia-Romagna, Toscana, Calabria, Liguria, Marche, Abruzzo, Trentino Alto Adige, Umbria, Molise e Valle d’Aosta), in modo da coprire l’intero territorio nazionale.

La denominazione attuale di CPR venne assunta con la legge Minniti-Orlando del 2017 che prevedeva anch’essa di ampliare l’utilizzo dei centri e di aprirne uno in ogni regione. I CPR sono così diventati l’ultimo tassello di una politica migratoria che punta all’esternalizzazione dei confini, attraverso accordi con i Paesi d’origine e transito dei migranti, negando il diritto alla mobilità delle persone. Di fatto possono esse considerati vere e proprie carceri (con condizione detentive quasi sempre peggiori dei normali istituti di pena) che stravolgono il rapporto tra regola ed eccezione: la libertà personale, ordinariamente inviolabile, è subordinata alla pretesa statale di segregare ed escludere dalla vita della comunità. E questo non per via di un’accusa o una condanna penale, ma solo sulla base di una violazione amministrativa: l’ingresso irregolare in Italia o l’assenza di un permesso di soggiorno.

Infatti, nei CPR vengono sottoposti a un regime di privazione della libertà personale individui che hanno solo violato una disposizione amministrativa, come quella della mancanza del permesso di soggiorno.Si tratta di una macro-ingiustizia che viene inflitta a chi subisce questa forma di detenzione.

LA STORIA DELL’EX CASERMA CHIARINI DI VIA MATTEI A BOLOGNA: UN LAGER ETNICO DI UNITA’NAZIONALE

Oggi, di fronte ai provvedimenti adottati dal governo di destra, anche i rappresentanti delle istituzioni locali bolognesi e regionali si dichiarano contro la riapertura di un CPR, ma se a Bologna “via Mattei” è ormai diventato un luogo simbolo di soprusi e di privazione dei diritti, se il CPT venne aperto a tutti i costi e svolse per più di dieci anni il ruolo di “carcere etnico” la responsabilità sarà pur stata di qualcuno. Del resto, i segni di quello che fu un vero e proprio lager si vedono ancora oggi all’interno di quei muri trasformati in un centro di accoglienza che di accogliente non ha proprio nulla.

Dato che la “memoria corta” è una delle caratteristiche dei nostri tempi noi la storia del centro didetenzione amministrativa, sorto nell’ex caserma Chiarini nella periferia del quartiere San Vitale, la vogliamo raccontare così come è andata.

La sede per realizzare un Centro di Permanenza Temporanea (CPT) per immigrati clandestini in attesa di espulsione fu individuata, come recitava la delibera del Consiglio comunale che dava il via libera ai lavori, in una struttura “ritenuta idonea per dimensioni, isolata ai margini della città”, quindi a “impatto sociale minore”. Si trattava dell’ex caserma Chiarini di via Mattei. Il quartiere San Vitale in precedenza aveva dato il benestare. In sostanza veniva detto: “Ok, il CPT mettetelo pure nell’ex caserma Chiarini, ma premiate la nostra ‘responsabilità civica’ costruendoci le strutture sociali e sportive che da tanto tempo aspettiamo”.

La liberatoria per questa decisione venne approvata con una riunione straordinaria della Giunta Vitali il 12 giugno 1999, solo 24 ore prima delle elezioni amministrative che si dovevano tenere il 13. Poi, il 16 agosto 1999, con un decreto congiunto del ministero degli Interni, del ministero degli Affari sociali e del ministero del Tesoro veniva ratificata la nuova destinazione. Il 13 settembre dello stesso anno, il nuovo sindaco Guazzaloca sottoscriveva un Protocollo d’intesa con la Prefettura, il ministero delle Finanze e il ministero della Difesa. Nell’ambito di questo contratto di convenzione c’era anche la concessione al ministero della Difesa di cinque alloggi in via Sant’Apollonia 6 ad uso trentennale, per famiglie di militari.

L’iter politico-amministrativo era stato perfetto, anche il passaggio di testimone tra Vitali e Guazzaloca, tra centro-sinistra e centro-destra, era degno dei migliori staffettisti da 4X100. Nel febbraio del 2000, dopo un iter a tappe forzate, un vasto arco di amministratori pubblici (che andava da An a Forza Italia, da La Tua Bologna a Governare Bologna, dai Ds all’Asinello) non si fece influenzare da nessun dubbio o ripensamento e il Consiglio comunale approvò la delibera per il cambio di destinazione d’uso.

Dopo il passaggio a Palazzo D’Accursio, il provvedimento su via Mattei passò in Regione, nell’aula dell’Assemblea legislativa di viale Aldo Moro. Anche se questa era un opera dello Stato non soggetta a concessione edilizia, occorreva un parere di conformità urbanistica da parte delle Regione, parere che doveva essere rilasciato entro il 15 marzo 2000, data prevista per la gara d’appalto. Anche questo ostacolo venne superato con grande “unanimismo istituzionale” e, quindi, si potè procedere con la gara a “licitazione privata al massimo ribasso con anomalia”. Essendo un’opera secretata, il numero delle imprese fu limitato. La data di inizio ai lavori era prevista nel mese di aprile. Erano già pronti 10 miliardi di vecchie lire per la ristrutturazione. Il parere favorevole della Commissione Edilizia era stato espresso sugli aspetti architettonici degli interventi previsti sui 5.000 mq coperti, ma non sugli strumenti e sulle strutture che sarebbero stati realizzati per i controlli e la sicurezza. Di questo, però, non tenne conto nessuno.

L’intervento di “recupero funzionale” prevedeva la realizzazione di opere di ristrutturazione edilizia per consentire l’adattamento degli edifici esistenti alle nuove destinazioni d’uso che comportavano la presenza di “alloggi controllati per gli stranieri ospitati nel complesso”, locali di servizio per l’assistenza sanitaria e legale ed alloggiamenti ed uffici per il personale di servizio. Nessuno, però, rappresentanti della Prefettura o del ministero degli Interni, andò mai davanti alle assemblee elettive a presentare il progetto del CPT, quindi tutto venne ratificato come un vero e proprio “assegno in bianco”.

UN VERO E PROPRIO CARCERE, E DEI PEGGIORI

Poco prima che il Comune approvasse la delibera per la realizzazione del CPT di via Mattei, il quindicinale Zero in condotta venne a conoscenza di alcune caratteristiche strutturali del nuovo Centro che non potevano non allarmare e le rese pubbliche. Questo è il reportage che il giornale pubblicò:

“Dalle parti di chi ha caldeggiato l’iniziativa si è detto più volte che il Centro di via Mattei sarebbe stato diverso da quelli aperti in altre città italiane, che si sarebbe fatta molta più attenzione alle condizioni di vita di coloro i quali, eufemisticamente, venivano chiamati ‘ospiti’. Noi, invece, sappiamo che in quel posto ci sono celle/stanze con sei letti ciascuno, al cui interno non c’è molto altro spazio se non quello di rimanere sdraiati sulle brande che sono dei parallelepipedi di cemento. I parametri igienico-ambientali per fabbricati che hanno lo scopo di “ospitare” delle persone non sono mai stati rispettati. Le stanze hanno come unico punto luce naturale la porta di ingresso, che, però, vede sorgere davanti un muro e, quindi, si deve fare ricorso continuamente all’illuminazione artificiale. Ogni stanza è collegata con un cortiletto di dimensioni simili a quelle della cella, circondato per il suo perimetro da una rete alta circa tre metri e mezzo. Quelli che chiamano ‘ospiti’ passeranno la stragrande maggioranza delle ore della loro giornata all’interno di questo spazio angusto. Dato, però, che i cortili non sono coperti, nelle giornate piovose o fredde (a Bologna sei mesi all’anno) dovranno stare dentro la stanza, cioè stesi sul letto.

Tutt’attorno al fabbricato dove sono alloggiati i migranti corre un camminatoio ‘protetto’ con una cancellata continua, situata su un muro perimetrale, con un’altezza complessiva attorno ai 4 metri e mezzo, con la punta delle inferriate ripiegate, alla loro estremità, verso l’interno, per sconsigliare eventuali propositi di fuga. Da questo recinto gli immigrati possono uscire due volte al giorno per essere accompagnati, secondo turni, da agenti polizia alla mensa collettiva che si trova in un corpo esterno al fabbricato centrale. Anche eventuali attività ricreative si limitano all’utilizzo di un campo da calcetto in cemento (e non quindi i due campi da calcio in erba strombazzati) in cui, a turno, potrebbero accedere non più di 10/12 reclusi, naturalmente scortati e controllati da agenti di polizia.

Attorno a tutto questo ‘ben di dio’, ci sarà naturalmente il muro di cinta esterno, limitato agli angoli da quattro belle ‘torri/faro’ che, si dice, potranno raggiungere l’altezza di 15/20 metri. Se questo non è un carcere, diteci voi di cosa si tratta? Forse di una prigione? Almeno tutti quelli che lo hanno invocato a gran voce dovrebbero avere il coraggio delle loro azioni e, quanto meno, dovrebbero chiamarlo per quello che effettivamente è e non con quell’ipocrita definizione di Centro di Permanenza Temporanea.

Via Mattei, per le soluzioni edilizie prescelte, per il tipo di vigilanza a cui saranno sottoposti gli internati, per l’immagine che comunicherà, sarà un vero e proprio campo di detenzione, nel quale all’immigrato irregolare, in attesa di espulsione, verrà applicato un regime assai simile a quello che un tempo veniva riservato ai prigionieri di guerra: stranieri catturati sul proprio territorio; presenze ostili da trattare come ‘nemici’; soggetti pericolosi da sorvegliare e punire”.

PERCHE’ FU CHIAMATO LAGER

Mentre il Consiglio comunale approvava la delibera per il CPT in via Mattei, un centinaio di attivisti del movimento bolognese entrò nell’aula consiliare e si legò alle sedie con fascette di plastica e catene. Venne letto questo intervento:

“Oggi voi state decidendo della vita di tante persone con la stessa preoccupazione con cui solitamente bevete un caffè, ma i Centri di detenzione per migranti hanno mostrato palesi violazioni costituzionali e dei diritti fondamentali dell’uomo. Quando noi li chiamiamo lager etnici, non intendiamo confonderli con i nomi, tristemente noti, di Buchenwald, di Dachau e, tanto meno, con quello di Auschwitz e degli altri campi di sterminio. Lo facciamo perché l’esistenza di un posto in cui la pratica della privazione arbitraria e illegittima delle libertà delle persone diventa la regola, segnala il venir meno del sistema dello stato di diritto.

Questo non ci può non allarmare, anche perché furono queste le caratteristiche con cui nacquero i campi di concentramento. Questi Centri sono il sintomo di una concezione politica, comune all’Italia e all’Unione Europea, che nella gestione dell’immigrazione tende a creare invalicabili barriere tra coloro che godono dei diritti e coloro che, perché nati altrove, non possono godere nemmeno del diritto alla libertà.

Questa divisione tra un mondo di persone e un mondo di non-persone, così come il fatto che essa si regga non sugli atti compiuti dai singoli, ma sulla loro nascita, è inaccettabile. Considerate che qualunque cittadino europeo e degli altri paesi dominanti può viaggiare liberamente in qualsiasi paese africano, mentre un cittadino senegalese deve dimostrare di essere ricco quanto un europeo per entrare in Europa.

Chi non è cittadino dei paesi dominanti o non è dominante nei paesi poveri non ha diritto alla libera migrazione e perciò non è persona libera. E’ inaccettabile che uomini e donne – ‘persone’- la cui unica colpa è quella di aver tentato di sfuggire alla miseria, alla fame, forse alla morte attraverso l’antico strumento della migrazione, siano considerati, per ciò, alla stregua di criminali.

E’ inaccettabile che il diritto naturale alla sopravvivenza sia rovesciato in un ‘reato’. E’ inaccettabile che nel cuore delle nostre città si elevino questi monumenti all’avarizia, all’estraneità e all’ostilità etnica. Si tratta di un’offesa alla coscienza civile e, soprattutto, a quella sensibilità multietnica che dovrà inevitabilmente caratterizzare la ‘società che viene’. Va cancellata dal nostro panorama sociale l’immagine dell’immigrato come ‘nemico’ o come ‘prigioniero’. Per questo i Centri di detenzione etnica vanno denunciati per quello che realmente sono.

Per questo bisogna lottare per l’immediata chiusura di quelli già esistenti. Per questo occorre mobilitarsi, mettendo a disposizione oltre alle nostre menti, anche i nostri corpi, per chiudere impedirne l’apertura di altri nuovi”.

LO SMONTAGGIO

Dopo le decisioni delle istituzioni fu un susseguirsi di manifestazioni, presidi, azioni di protesta eclatanti da parte del movimento bolognese. Ma i lavori proseguirono a ritmi forsennati, per rispettare i tempi previsti. Il 25 gennaio del 2002, ormai a cantiere ultimato, 15 giorni prima dell’apertura, centinaia di persone entrarono nell’ex caserma Chiarini di via Mattei per compiere una vera e propria azione di smontaggio. Ecco come gli “smontatori” e le “smontatrici” raccontarono quell’episodio:

“Erano giorni in cui eravamo in pochi a spendere una parola contro i centri detenzione per migranti. Da tempo eravamo a conoscenza di altri centri sul territorio italiano, come quelli di Porta Galeria a Roma o di via Corelli a Milano. Le nostre voci non si erano mai stancate di denunciare, inascoltate, la sospensione della libertà e le continue violazioni dei diritti umani nei confronti di quelle persone migranti che lì venivano rinchiuse.

Ora anche nella democratica Bologna si sarebbe inaugurato un luogo di sospensione del diritto e di reclusione coatta per uomini e donne colpevoli di aver lasciato il proprio paese d’origine per cercare una vita migliore o una speranza. Entrammo quella mattina in un carcere a tutti gli effetti, con tanto di gabbie a cielo aperto e celle di detenzione. Dietro i muri appena intonacati e i sanitari in acciaio satinato, quella struttura tutto assomigliava tranne che ad un centro di accoglienza. Smontammo tutto, il più possibile, pezzo per pezzo…

La nostra indignazione era così forte di fronte a quel lager da farci venire in mente i peggiori esempi di disumanità operati dagli Stati e dalle Società occidentali del ‘900: un campo di detenzione con prevalenza etnica come quelli che la storia ci ha insegnato a disprezzare. La nostra azione fu considerata eclatante ed ebbe riverberi in tutta Europa. Non si trattò di una devastazione, ma di uno ‘smontaggio’. Lo realizzammo affinché tutti e tutte sapessero che era possibile, per chiunque, armarsi di attrezzi da lavoro per smontare un pezzo di un ‘lager’ e costruire un pezzo di libertà.

La nostra azione ruppe la routine della denuncia rassegnata a rimanere atto verbale, del dissenso che non diventa disobbedienza civile. Mettemmo i nostri corpi come ostacoli concreti alla realizzazione del prossimo lager. Quel giorno decidemmo di disobbedire alle leggi per un senso di giustizia superiore in virtù di una concezione che vede le costituzioni, statuali ed extrastatuali, come processi non conclusi, emendabili con battaglie e richieste di libertà di milioni di uomini e di donne. Noi ci riteniamo parte di un’umanità radicale e senza compromessi, fatta di persone a cui non
piace abbassare lo sguardo.

Era vivo in noi, e lo è tuttora, quel sentimento profondo di giustizia che condividiamo con una parte critica della società civile e che definì quel gesto un gesto di estrema civiltà, o di civiltà estrema, fate voi…”

APRE IL CPT E SONO VIOLENZE E SOPRUSI

Lo smontaggio fece ritardare l’apertura di quasi un anno, ma poi il centro di detenzione venne aperto. Immediatamente vennero alla luce episodi violenza, atti di autolesionismo per protestare contro le condizioni in cui i migranti erano costretti a vivere. Nel corso del tempo le denunce di soprusi e violenze furono innumerevoli, qui ne riportiamo solo alcune tra le più significative.

Nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2003 nel Cpt di via Mattei si consumò una violenza gravissima ai danni dei detenuti e delle detenute. Guidate da un ispettore di polizia e accompagnati dal responsabile della Croce Rossa Italiana che gestiva la struttura, diversi uomini della polizia irruppero nelle camere e nella saletta TV dei detenuti e picchiarono violentemente decine e decine di persone. Era un raid punitivo, una ritorsione esemplare degli agenti di polizia contro tutti i detenuti perché poco prima due immigrati avevano tentato una fuga. Quando due parlamentari entrarono il giorno dopo per un sopralluogo, trovarono in diverse stanze e sui corpi di diverse persone le tracce del mattatoio. Una delle vittime di quel pestaggio era Said, oltre ai colpi di manganello gli spezzarono un dito e gli spaccarono lo scudo antisommossa in testa. Infine i poliziotti fotografarono per ricordo gli immigrati più malridotti, e Said fu scelto tra i più attraenti per lo scatto. Da quella data nessuno ha più tentato di scappare, niente più rivolte o proteste. Improvvisamente tutti gli immigrati reclusi sono diventati mansueti…

Il 20 gennaio 2004 ci furono le denunce di tre migranti reclusi al Cpt di via Mattei. Sostenevano di aver ricevuto a loro insaputa, mischiati nei cibi e nelle bevande, sostanze sedative. Allegate alle denunce, le analisi del sangue, da cui risultavano tracce di Phenobarbital, un barbiturico usato per la cura dell’epilessia e per la pre-anestesia in caso di operazioni chirurgiche e di Carbamazepina, un tranquillante. Solo uno dei tre denuncianti, un giovane equadoregno, ha detto di aver chiesto, durante il periodo di permanenza al Cpt, cure mediche per cefalea e vomito. Gli altri due, di nazionalità marocchina, hanno escluso di aver assunto sedativi o calmanti. I tre immigrati (uno dei quali veniva chiamato “Mummia” perché non interagiva mai con nessuno) questa volta non sono stati rimpatriati e hanno potuto raccontare la loro detenzione all’interno della struttura denunciando ai loro avvocati la situazione igienica, alimentare, di assistenza negata, ma soprattutto delle continue emicranie, della nausea, di una sensibilità ridotta delle capacità percettive e della strana sonnolenza dopo la somministrazione dei pasti.

In una delle tre denunce si fa riferimento anche a un pestaggio subito da un giovane tunisino che aveva protestato per essere stato rinchiuso all’interno del Cpt. Il ragazzo sarebbe stato picchiato da alcuni agenti di polizia ed espulso il giorno successivo. Uno dei due giovani marocchini era stato fermato a Genova ed espulso nonostante avesse i requisiti per chiedere il permesso di soggiorno per motivi di famiglia: il fratello ha la cittadinanza italiana.

IL CPT FUNZIONALE AGLI SGOMBERI DELLO “SCERIFFO” COFFERATI

Tra i vari sindaci che hanno avuto a che fare con il centro di detenzione di via Mattei quello che lo usò più organicamente nel suo mandato amministrativo fu Sergio Cofferati. Più di una volta le ruspe arrivavano la mattina presto per abbattere le baracche degli accampamenti dei rumeni lungo il fiume Reno e, subito dopo scattava la retata “interforze” (vigili, carabinieri e poliziotti) che si concludeva sempre con l’invio di alcune decine di poveracci al CPT, mentre per gli altri sgomberati c’erano ancora la strada e l’esodo da un posto all’altro.

Questa storia, raccontata dagli attivisti dello Spazio Internazionale Migranti dell’ex Ferrotel occupato di via Casarini, è significativa di quello che accadeva all’epoca:

“Omar è un giovane rumeno arrivato in Italia con l’illusione di trovare una sistemazione lavorativa ed abitativa dignitosa, che gli permettesse di costruire un piccolo futuro per sé e la propria famiglia. Omar, come molti migranti, si è trovato costretto a trovare rifugio in una precaria baracca costruita lungo le rive del fiume Reno di Bologna, città che da sempre si è posta come punto di riferimento di politiche sociali, d’accoglienza e d’interazione tra culture differenti. Omar è sposato con una ragazza che condivide con lui le sofferenze del fiume, della pioggia e del freddo, il timore perpetuo di passeggiare liberamente per strada senza rischiare l’espulsione, i pregiudizi della cittadinanza perbenista bolognese che ha deciso di non guardare in faccia le contraddizioni che caratterizzano sempre più questa città, relegandola nella clandestinità di periferia.

Omar è appena diventato padre. Proprio per domani aveva fissato un appuntamento presso l’ufficio anagrafico per registrare la sua bambina nata solamente una settimana fa, e per la quale l’unica sistemazione trovata ad oggi dai Servizi sociali è risultato il ritorno nella baracca. Omar è un lavoratore in nero, reclutato da un sistema di caporalato e sfruttato incessantemente da biechi padroncini che lo costringono a lavorare dieci ore al giorno per una misera paga giornaliera.

Questa mattina Omar è stato fermato dalla polizia e rinchiuso presso il Centro di Permanenza Temporanea di via Mattei, è passato dalla prigione della clandestinità esistenziale a quella dei lager etnici”.

LOTTE, RIVOLTE E MANIFESTAZIONI

La battaglia prima contro il CPT e poi contro il CIE di via Mattei è stata lunga, costante e coinvolto, in momenti diversi, o l’intero movimento bolognese o singole realtà antagoniste e/o antirazziste. Ci sono stati tanti cortei e decine di azioni più o meno clamorose. Molti sono stati i presidi a sostegno delle proteste e delle rivolte che i migranti portavano avanti dentro la struttura. Molti sono stati anche i manganelli che sono finiti sopra le teste di chi in via Mattei era andato a protestare. Descriverli tutti questi episodi sarebbe stato lunghissimo, come impossibile farne una cernita dei più significativi.

Invitiamo le/i nostre/i lettrici/ori pertanto, a rivivere questi momenti attraverso la mostra “Dal Cpt al Cie: anni di lotte contro le fabbriche di sofferenza”, a cura del Centro di documentazioni dei movimenti “Lorusso-Giuliani”, allestita a Vag61 (in via Paolo Fabbri 110) dal 10 ottobre. La mostra contiene le foto di Luciano Nadalini, Michele Lapini, Yara Nardi, Valerio Muscella e Stefano Santi: una parte delle immagini è riproposta in questo articolo e nella gallery pubblicata in fondo a questa pagina.

E, comunque, il modo migliore per rinfrescare la memoria su questa storia è partecipare alla manifestazione che si terrà sabato 14 ottobre, alle ore 15 (con partenza del corteo in piazza XX Settembre), contro l’apertura del CPR nella nostra città e altrove. Buona sfilata!

“Dal Cpt al Cie: anni di lotte contro le fabbriche di sofferenza”