Migliaia di persone in piazza, tanti volti giovani, l’incontro di una miriade di lotte diverse e connesse, un convinto passo anticapitalista: il corteo insorgente del 26 marzo ripercorso per istantanee, spunti di riflessione e qualche domanda.
Nel nostro Paese non c’è la censura come per la stampa russa ma, nei grandi organi di informazione, c’è una miopia politica strabiliante. Sulle pagine nazionali della grande maggioranza dei giornali non si è letta una riga sulla manifestazione di sabato 26 marzo a Firenze, promossa dalle/gli operaie/i della GKN. Sulle cronache locali, i siti dei quotidiani alcune decine di battute le hanno concesse, amplificando soprattutto le stime della Questura (che ha parlato di 12.000 manifestanti) e i disagi provocati al traffico.
A noi non interessano i giochi a crescere, possiamo solo dire, avendo partecipato al corteo, che, dopo la partenza delle file di testa, migliaia di manifestanti hanno sfilato per più di un’ora e mezza senza che si riuscissero a vedere le file di coda. Insomma, per la seconda volta in sei mesi, una massa enorme è venuta nel capoluogo toscano aderendo all’appello dei lavoratori della fabbrica in lotta.
Una giornata di mobilitazione che è arrivata dopo oltre otto mesi di presidio permanente alla GKN e oltre sessanta tra appuntamenti, eventi, iniziative che, dal 5 febbraio scorso, sono state organizzate in giro per l’Italia durante l’Insorgiamo tour, coinvolgendo centinaia e centinaia di persone in ogni città.
Vedendo sfilare il corteo si è capito come le parole degli operai della GKN avessero fatto presa: «La nostra manifestazione non avrà padroni e proprietari. Non avrà “ordine” se non quello imposto dalla nostra fiducia e credibilità reciproca. E chi si pone fuori da questi concetti, non sarà evidentemente in sintonia con la piazza stessa. Sarà benvenuta la gioia e il colore, rifiutata la provocazione. Torniamo a stupire. Facciamo la storia, per non doverla più subire».
Dietro allo slogan “Insorgiamo”, scritto sul grande striscione che apriva il corteo, ci stavano i contenuti di chi aveva dato vita a una vertenza collettiva capace di tenere insieme i temi del lavoro, delle crisi industriali e del rifiuto delle delocalizzazioni, rivendicando non solo la reindustrializzazione della fabbrica, ma un vero e proprio cambio di sistema con al centro un polo pubblico per la mobilità sostenibile. Nella lotta dei lavoratori della GKN è emersa pure la volontà di rimettere al centro la questione salariale, il carovita e gli aumenti delle bollette, la riduzione d’orario a parità di salario, l’abolizione del precariato. Si è tornati a parlare con forza della condizione di tutti i lavoratori e di tutte le lavoratrici, rivendicando diritti non solo per la classe operaia ma per tutta la società, abbracciando i ragazzi e le ragazze che sono stati in prima fila nelle mobilitazioni ambientali e sui cambiamenti climatici, ribadendo un NO chiaro alla guerra, a tutte le guerre.
Un altro striscione in cui c’era scritto “Siamo classe dirigente” sintetizzava bene il ruolo che i lavoratori e le lavoratrici della GKN hanno svolto in questi mesi. Solo loro, con i loro contenuti e le loro inclusive pratiche di lotta, potevano riempire per due volte, a poca distanza di tempo, le strade di Firenze dando vita a un “corteo mescolato”, capace di tenere insieme i giovanissimi di Fridays for future, gli studenti e le studentesse che hanno occupato le scuole, gli operai che hanno occupato le fabbriche contro i licenziamenti, gli occupanti di case e i contadini resistenti per la sovranità alimentare, i centri sociali “consolidati” e i nuovi occupanti di spazi liberati, delegazioni operaie e Rsu di fabbrica, i sindacati di base e le pacifiste e i pacifisti, con una miriade di sigle di associazioni, di piccoli gruppi, di reti e organizzazioni di “sinistra/sinistra”.
Se ci venisse chiesto quali fossero i connotati più espliciti della manifestazione, risponderemmo senza esitazione: quelli anticapitalisti. Non solo per lo slogan gridato come un mantra “agli operai solidarietà… via Confindustria dalle città” o per i tanti altri “contro la guerra del capitale”. Che il capitalismo non sia il migliore dei mondi possibili è convinzione anche dei giovani ecologisti che lo considerano la causa dei tanti disastri ambientali. E, in effetti, come dare torto a quanto scritto su un piccolo cartellino: “Per colpa del capitalismo si rischia di arrivare alla fine del mondo e già da ora non si arriva alla fine del mese”.
Un altro elemento distintivo della grande sfilata è stato il colore rosso che ha sovrastato di gran lunga il black dei k-way andato per la maggiore negli anni passati. Tante le bandiere rosse, tutte con sigle diverse stampate in bella vista. Moltissime anche le bandiere della pace, nessuna bandiera ucraina; a chiazze, disseminate lungo il serpentone, diverse aste anarco-libertarie con drappo “rosso/nero”. Non potevano mancare le bandiere No Tav, insieme a quelle dei No Muos e dei No Tap. Molto colorati i drappi dell’Arci Toscana, un bel colpo d’occhio la davano anche le sventolanti bandiere bianche con la scritta verde “Fridays for future”, numerose anche quelle di Potere al Popolo, tantissime quelle antifa.
Se lo guardiamo dal punto di vista della “storia dei movimenti e dei conflitti sociali”, il corteo del 26 marzo ha raffigurato bene il presente dei movimenti nel nostro Paese, con un bel po’ di passato remoto, poco passato prossimo e tanto (auspicabile) futuro. Lo scorrere delle e dei manifestanti ha dato una rappresentazione abbastanza precisa di quello che abbiamo appena affermato.
In testa, logicamente, gli operai della GKN e del Collettivo di fabbrica, poi gli striscioni delle vertenze in atto: la Caterpillar (con il motto partigiano “Senza tregua”), la fabbrica di marroni di Marradi, il cartonificio di Sesto, la Sanac e le Rsu dei dipendenti del Comune di Firenze, erano presenti delegazioni di fabbriche soprattutto metalmeccaniche con le bandiere della Fiom.
L’ordine dello sfilare non era un ordine di “priorità politica”, ma, come hanno detto al microfono alla partenza quelli della Gkn, un “ordine logistico/organizzativo” e, sempre secondo le loro indicazioni, il corteo si è sviluppato per “zone consapevoli”.
Subito dopo le realtà fiorentine, c’erano i “solidali di Insorgiamo”, poi il consistente spezzone giovanile ed ecologista di Fridays for future, poi, a seguire, troncone giovanile studentesco: i ragazzi e le ragazze che in queste settimane hanno occupato le scuole medie superiori in tutta Italia.
Proseguendo, si arrivava alla “zona pacifista”, tante bandiere arcobaleno, tanti cartelli, tanti striscioni contro la guerra, tanti “Né… né”.
La presenza dei centri sociali non è stata impattante, molti erano sparsi lungo tutto il corteo. Chi ha prodotto più visibilità sono stati due grandi striscioni: uno dei centri sociali delle Marche e uno del Nord-Est.
Disseminata, ma parecchio rumorosa, la presenza delle e degli occupanti (di scuole, di case e di spazi sociali). C’erano e si sono fatti sentire, anche perché sono stanchi di essere “compresi” nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi, ma, allo stesso tempo, di essere regolarmente contrastati dall’informazione ufficiale e dalla politica istituzionale, “per quella forma di lotta ormai usurata che è un atto di forza illegale che impone la protesta anche a chi non la condivide”.
Quando si parlava del “passato” non si può non far riferimento alla “zona comunista”. Sei partiti con la falce e martello, una rete, un fronte, tutti che predicano l’unità (nella frammentazione): Rifondazione comunista (lo spezzone più grosso), il Partito Comunista di Rizzo, il nuovo PCI (fondato a San Lazzaro nel 2016, con le bandiere che non si capisce se sono del nuovo Pci o di quello vecchio), il nuovo Pci – Partito dei Carc, il Partito Comunista dei Lavoratori, il Partito di Alternativa Comunista, la Rete dei Comunisti, il Fronte della Gioventù Comunista (un troncone consistente, con una bandiera rossa a testa).
Anche nella “zona del sindacalismo di base e/o conflittuale” il numero delle sigle non è indifferente: Usb, Sgb, Cub, Cobas, Si Cobas, Adl Cobas, Slai Cobas, Sol Cobas. In parecchi sono dietro allo striscione dell’Adl Cobas e quasi tutti migranti. Diversi anche gli striscioni delle categorie di Usb e Sgb. Il troncone più grosso e combattivo è stato quello del Si,Cobas, composto nella quasi totalità da lavoratori migranti delle piattaforme della logistica. A sovrastare questa parte di corteo un bandierone rosso con disegnata la scritta “8×5”. Sta per otto ore per cinque giorni, un obiettivo che nelle aziende della logistica, dove i turni sono di 10/12 ore al giorno per salari da fame, è purtroppo di grande attualità. Fa parecchio tristezza, non tanto la rivendicazione del sindacato dei facchini, ma il pensare che le 40 ore settimanali per cinque giorni fu un obiettivo conquistato con i contratti di lavoro del 1973. Sono passati quasi cinquant’anni e, in certi settori produttivi, si è tornati a vecchie forme di schiavismo precedenti il Novecento.
In conclusione, gli aspetti che forse hanno lasciato un’impronta maggiore sono l’elevata presenza di volti giovani e giovanissimi insieme al clima non solo molto positivo ma anche – così ci è sembrato – molto genuino. Si respirava, insomma, un’aria bella carica. Due elementi che arricchiscono una partecipazione importante e una convergenza davvero ampia di segmenti politici diversi (e a volte anche distanti: inutile negare che l’altra faccia della medaglia inevitabilmente è una certa confusione di fondo, anche su argomenti delicati come la guerra). Una fotografia tutt’altro che scontata, considerando che stavolta la manifestazione non era una risposta diretta al dramma aperto dei licenziamenti di massa ma una scommessa da costruire su una proposta eterogenea di avanzamento. Una prospettiva probabilmente inedita per la gran parte dei manifestanti, che senz’altro ha tratto una spinta iniziale dalla vertenza aperta nei mesi scorsi ma che poi si è costruita su un fattivo lavoro di prossimità e di relazione, come ha potuto constatare chi nei mesi precedenti ha avuto l’occasione di toccare con mano una delle tappe dell’Insorgiamo tour. Tutto ciò senza dimenticare le difficoltà connesse al prolungarsi della pandemia e l’avvento del conflitto in Ucraina, che da un lato ha sì alimentato la partecipazione “no war” ma dall’altro ha anche cannibalizzato lo spazio pubblico.