Verso il corteo del 26 novembre, l’analisi di ∫connessioni precarie: “Una presa di parola non come vittime, ma come parte attiva di una battaglia per il potere che si combatte sui loro corpi”.
È in corso una sollevazione globale delle donne. Per lo più al di fuori dei circuiti organizzati e riconosciuti, con l’impeto improvviso della loro rabbia e delle loro aspirazioni, con una costante presenza di massa, in luoghi del mondo e in momenti distanti e diversi, le donne alzano la testa e la voce. Il 26 dicembre 2012 in India, in seguito all’ennesimo stupro di una studentessa, centinaia di migliaia di donne sono scese in piazza per far sentire il proprio urlo di protesta. A febbraio del 2014 in Spagna le donne sono insorte contro il progetto del governo di restringere drasticamente il diritto di aborto, suscitando una mobilitazione transnazionale al loro fianco. Il 3 ottobre 2016 la Polonia è stata scossa dal primo sciopero delle donne contro le politiche antiabortiste di un patriarcato neoliberale che pretende di imporre un comando assoluto sui loro corpi. Solo due settimane dopo in Argentina e in molti paesi dell’America del sud centinaia di migliaia di donne hanno imbracciato l’arma dello sciopero e si sono riversate nelle strade per far valere la loro presenza e la loro forza collettiva in seguito all’ennesimo, brutale stupro e omicidio di una ragazza che si è vista strappare il futuro da un gruppo di uomini. Proprio in queste ore in Turchia sta montando la protesta contro la proposta di legge volta a legalizzare lo stupro delle bambine attraverso il ‘matrimonio riparatore’. La violenza sessuale è l’ultima risorsa di cui dispone il patriarcato per conservare con ogni mezzo necessario l’ordine produttivo e riproduttivo della società. In modi diversi e in ogni luogo del mondo, però, le donne si stanno ribellando contro la «cultura dello stupro» che vorrebbe fare dei loro corpi e delle loro vite oggetti pienamente disponibili. Le donne stanno obbligando gli uomini a una presa di posizione chiara, mostrando che la battaglia contro il patriarcato non è una «questione femminile», ma investe l’ordine globale della società. In questo contesto globale, la manifestazione organizzata in Italia il 26 novembre è un’opportunità che va ben oltre la semplice partecipazione alla giornata internazionale contro la violenza sulle donne. È l’opportunità di produrre uno schieramento a partire dalla rabbia delle donne, dalle loro aspirazioni, dal rifiuto incondizionato della violenza sessuale come espressione più estrema, eppure per niente eccezionale, del dominio patriarcale.
In questo contesto, invocare una manifestazione separatista per proteggere le donne dai maschi violenti o di alcuni che si presume siano pronti a innescare lo scontro di piazza ‒ come alcune hanno fatto in nome di un femminismo di origine controllata ‒ significa rinunciare all’ambizione di obbligare anche gli uomini a una presa di posizione contro l’ordine di cui sono i principali beneficiari, agenti e rappresentanti. Il problema non è verificare il significato storico e attuale del separatismo, ma di riconoscere la sfida globale raccolta dalle donne che il 26 novembre saranno in piazza. Eppure, mentre alcune pretendono la certificazione del femminismo d’ufficio, altre invocano la protezione delle istituzioni facendone l’unico luogo nel quale si può esprimere la piena cittadinanza delle donne. Il culto delle istituzioni e la paura dell’eventuale antagonismo della piazza ‒ che per loro a quanto pare è più rilevante dell’insubordinazione quotidiana e globale delle donne ‒ hanno così portato alcune donne ad annunciare la loro assenza dalla manifestazione del 26 novembre. Probabilmente chi ha fatto questa scelta coltiva rapporti con istituzioni diverse da quelle che hanno azzerato i fondi destinati ai centri antiviolenza e ne hanno sgomberati alcuni con la forza, istituzioni molto migliori di quelle che vogliono legalizzare lo stupro in Turchia, istituzioni più democratiche di quelle che hanno risposto coi manganelli alle migliaia di donne scese in piazza in Argentina, istituzioni più giuste di quelle che tutti i giorni, in ogni parte del mondo, mettono sul banco degli imputati le donne che denunciano una violenza subita. La rivendicazione di un’assoluta differenza e la preventiva neutralizzazione istituzionale del 26 novembre non colgono cosa è evidentemente in gioco nella lotta globale che stanno portando avanti le donne. Quella del 26 novembre non sarà una piazza ‘pura’, priva di contraddizioni, unita da un afflato femminile alla cura, alla relazione e alla non-violenza, ma sarà nondimeno una piazza che punta a coinvolgere in massa le donne per rendere visibile la guerra sessuale che viene quotidianamente combattuta contro di loro.
L’ispirata ricerca dell’autenticità femminile lascia poco spazio a conflitti e contraddizioni, quasi che avere un corpo di donna sia di per sé sufficiente a far valere una differenza politica. Le molte donne che negli Stati Uniti hanno votato Trump nonostante la sua aperta professione di fede maschilista dovrebbero però metterci in guardia contro queste illusioni naturalistiche. Noi sappiamo che non è un’impresa facile creare uno spazio di parola e visibilità per le donne che ogni giorno nelle case, per le strade, sui posti di lavoro fanno esperienza della violenza maschile o della sua costante minaccia, dello sfruttamento e dell’oppressione cui le costringe il regime transnazionale di divisione sessuale del lavoro, dell’ingiunzione al silenzio che impone sulle loro ambizioni l’ordine neoliberale con la sua pretesa di mettere a profitto i loro corpi fertili. Il risultato del percorso di organizzazione che porterà al 26 novembre non è scritto, ma quel percorso esprime l’urgenza di offrire a tutte queste donne l’occasione di una presa di parola non come vittime, non come cittadine, non come genuine portatrici di valori alternativi ricamati in qualche salotto filosofico, ma come parte attiva di una battaglia per il potere che si combatte sui loro corpi. Queste stesse donne, però, rischiano costantemente di essere messe a tacere anche da chi tratta la violenza maschile come una delle molteplici forme di violenza di genere cui ogni individuo sarebbe costantemente sottoposto per il solo fatto di avere un corpo. Benché i più avvertiti registrino la differenza tra uno stupro e la «violenza epistemica» subita da chi non si riconosce nei ruoli imposti dall’ordine eterosessuale, la definizione «violenza maschile contro le donne» non è il frutto di un arrendevole cedimento alla «matrice binaria» che regola il rapporto tra i sessi. Essa indica la continua pratica di potere che pretende di ridurre le donne a oggetti pienamente disponibili, a prescindere dal loro orientamento sessuale. Non si tratta di negare l’esistenza di molteplici forme di discriminazione, né di stabilire un’equazione naturalistica tra il maschio e lo stupratore, ma di riconoscere che ogni volta che una donna è stata picchiata, stuprata e uccisa è stato un uomo a farle violenza. E questa violenza diventa una reazione tanto più feroce quanto più le donne in ogni parte del mondo, nelle più diverse condizioni, individualmente oppure in massa dimostrano di non essere disponibili a subirla docilmente. La violenza sessuale maschile non è la manifestazione contingente di un’astratta norma eterosessuale che agisce indifferentemente su tutti gli individui e che produce le loro differenze. La violenza sessuale maschile è un fatto sociale globale, l’espressione più brutale di un rapporto patriarcale di dominio che, in forme aggiornate all’ordine neoliberale, pretende di assoggettare le donne in quanto donne agli imperativi della produzione e della riproduzione sociale.
Se il 26 novembre ci offre l’opportunità di far sentire la nostra voce contro questo sistema di dominio, unendoci alla presa di parola di milioni di donne nel mondo, lo scontro che anima siti e social network italiani attorno al suo ‘vero’ significato rischia di oscurare e magari di vanificare quest’opportunità. Non c’è alcuna disponibilità alla discussione e alla contestazione, ma solo fazioni irreggimentate lungo confini tra generazioni e pratiche politiche che poco o niente dicono e permettono di dire alle donne che ostinatamente cercano di dare al proprio corpo e alla propria vita un ruolo e un significato diverso da quelli ai quali le obbliga il patriarcato neoliberale. Le parti in causa si compiacciono di costituire piccole comunità di eletti a cui è dato decifrare il gergo delle ideologie mainstream (e ormai mainstream indica solamente chi la pensa diversamente da quella o quello che parla o che scrive), identificandosi attraverso un «like». Intanto, per fortuna, ci sono moltissime donne che al grido «Non una di meno» stanno creando le condizioni perché il 26 novembre siano protagoniste anche coloro che da quelle comunità sono ben distanti, che non agiscono secondo i canoni certificati della «differenza» o del «genere», ma più ambiziosamente potrebbero infine riconoscersi politicamente a partire dal rifiuto della loro oppressione. Questo rifiuto, probabilmente, non sarà in grado di esprimere e generare un nuovo ordine simbolico femminile, finalmente pacificato da ogni scomodo antagonismo, e neppure un nuovo universalismo nel quale, in un tripudio pluralistico, molteplici identità equivalenti potranno infine coalizzarsi. Eppure, esso può indicare la strada di una pratica femminista che è tale perché cerca di produrre per tutte le donne la possibilità di far valere politicamente, in un gesto di sovversione, la differenza specifica di cui ogni giorno fanno esperienza a partire dal proprio corpo. La posta in gioco di questo femminismo possibile senza ipoteche e senza tutele è questa: essere parte di una sollevazione globale delle donne contro la violenza, per una presa di potere e di parola tale da obbligare ciascuno a schierarsi dalla parte delle donne.