Acabnews Bologna

“Naufraga di un progetto-isola”

Lo sportello migranti del Tpo raccoglie la testimonianza di Maria, rifugiata minacciata di sgombero alla vigilia del World Refugee Day.

18 Giugno 2013 - 15:35

Cosa vuoi ancora? Da dove sei venuta? Torna là! Per te qua non c’è posto, lo vuoi capire, il progetto è finito, sparisci, per noi non esisti, non sei di nostra “competenza”!

Questo si evince dalle “risposte” del Comune a Maria, una donna rifugiata in Italia, sola, con un figlio di 8 anni. Succede a Bologna, nell’Emilia Romagna “accogliente ed efficiente” (una volta, forse).
Dopo peregrinazioni da Sud a Nord, Maria viene contattata per entrare in un progetto che promette percorsi di transizione verso l’autonomia abitativa e lavorativa. Deve cambiare città, ma la proposta sembra seria, la prima che riceve in Italia in 8 anni. D’altra parte in sette anni nessuna città è mai stata “un porto sicuro” per lei e suo figlio.
Un’associazione, con vari enti partner, ha ricevuto tramite il Fondo Europeo Rifugiati circa 300.000 euro in due anni per gestire a Bologna un progetto per circa una decina di donne sole rifugiate con figli.
A Maria viene assegnato un alloggio “transitorio” di proprietà del Comune, partner del progetto, per il quale paga mensilmente 150 euro più le spese delle utenze.
Durante i 18 mesi, altro che “autonomia”: per Maria solo lavoretti trovati da lei stessa, tirocini gratuiti e borse lavoro minime e senza prospettive. Nessuna transizione verso una casa, né agli inarrivabili prezzi di mercato, né tantomeno di edilizia pubblica.

Allora, cosa le ha dato il progetto?
L’associazione le comunica che deve lasciare la casa al più presto. Maria non sa dove andare e in Agosto arriverà sua madre, con cui ha potuto effettuare il ricongiungimento familiare malgrado i molti ostacoli burocratici.
Nonostante le pesanti pressioni che riceve per lasciare al più presto l’appartamento, decide di restare lì, chiede incontri e scrive alle istituzioni, che non si curano di risponderle per mesi. Si rivolge allo Sportello Migranti di Ya Basta! presso il TPO, che a sua volta, senza risposta dal Comune fino al 6 giugno, chiede di discutere la situazione.
L’Ufficio Politiche Abitative del Comune la minaccia di sgombero forzoso senza preavviso, ma anche di considerarla “occupante abusiva”, titolo con cui sarebbe esclusa da tutte le graduatorie future. E minaccia di toglierle il figlio (per il quale è fuggita rischiando la vita), come sempre più spesso avviene, non certo per tutelare un minore ma per spezzare la resistenza psicologica delle madri, allontanarle dai servizi o costringerle alla rinuncia dei propri diritti.

Sei rifugiata, è vero che lo Stato ti ha garantito protezione, ma non conti niente.
Maria traduce così le “conversazioni” con i referenti del progetto e del Comune: da quasi due anni hai la residenza a Bologna, ma è meglio che con tuo figlio torni in quel Comune dove eri capitata quasi per caso. Sei un pacco da spostare, perché in quanto rifugiata le istituzioni ti dovrebbero qualcosa, ma quando dicono “non c’è posto” stanno di fatto dicendo “i tuoi diritti di rifugiata non contano”.
E i progetti di autonomia rischiano così di diventare solo una parentesi, che quando si chiude riportano i beneficiari al punto di partenza, a combattere in solitudine le stesse difficoltà, perché nel frattempo non si sono sviluppati quei percorsi e quegli strumenti che invece venivano promessi, anche grazie ai fondi UE.
Ma Maria non accetta questi “respingimenti terrestri”, questa negazione continua della propria libertà di scelta, di movimento, della propria tranquillità. Cerca solidarietà per resistere, per non finire in strada, per avere una vita degna per lei e per suo figlio. Racconta e denuncia, perché se una donna sola con un bambino può essere sgomberata e messa in strada, allora la sorte di chiunque è in pericolo, e la lotteria del diritto di asilo diventa una guerra ai rifugiati e a tutte le persone più fragili e sole.

Alla vigilia della Giornata Mondiale del Rifugiato, sempre più storie raccontano le contraddizioni di un sistema che investe i fondi del FER (milioni di euro all’anno a livello nazionale) per progetti senza prospettive, senza connessione col territorio, senza presa di responsabilità da parte dei Comuni. Isole, non progetti, dove i rifugiati sono soltanto naufraghi. Pezzi della “lotteria dell’asilo” dell’Italia, che comincia con le difficoltà nel presentare la richiesta e vedersi riconosciuto lo status, e prosegue con l’obiettivo integrazione. Ma anziché riconoscere che esiste un grave problema di assenza di programmazione, di articolazione, verifica e discussione dei progetti, di visione strategica, di articolazione ed integrazione dei soggetti competenti – privato sociale e amministrazioni – sull’inclusione dei titolari di protezione internazionale, gli attori coinvolti e responsabili di queste politiche si limitano a guardare al proprio frammento di competenze. E troppe volte la responsabilità viene scaricata sulla presunta “mancanza di impegno e volontà” dei rifugiati, che preferirebbero essere assititi.

Pretendere che sia fatto di meglio è giusto, per non accettare che l’accoglienza respingente che abbiamo conosciuto anche durante la cosiddetta Emergenza Nord Africa (ricordiamoci dei Prati di Caprara, degli ostacoli a ottenere la residenza e l’accesso ai servizi) si sedimenti pericolosamente e diventi l’unica modalità di rispettare gli impegni che derivano dalla Convenzione di Ginevra.
Siamo con “Maria” e con i tanti e tante come lei, per il diritto a una vita degna nel paese che dando rifugio dovrebbe assumere l’impegno di proteggere davvero le persone.
E’ il momento che il Comune di Bologna trovi una una soluzione concreta ed immediata, in accordo con Maria e le altre donne rifugiate.

Sportello Migranti TPO, Bologna