Un ricordo molto personale di un “narratore d’arte”, di un intellettuale altruista che considerava il “diffondere cultura” come un servizio civile.
di Valerio Monteventi
Eugenio Riccomini purtroppo non c’è più… In questi giorni tanti l’hanno ricordato (giustamente) per le cose che ha fatto, gli incarichi che ha avuto, i testi che ha scritto e per le tante persone “normali” che ha avvicinato alla storia e alla bellezza dell’arte. Che con la sua morte Bologna abbia perso un intellettuale e uno studioso di grande rilievo è fuor di dubbio, ma è altrettanto certo che ad andarsene è stato un uomo generoso ed altruista, orgoglioso di essere comunista, che considerava la divulgazione della cultura un servizio civile. Nel corso della sua vita, in tanti modi, ha sempre voluto condividere il suo amore per la storia dell’arte con tanti altri uomini e donne, riuscendo ad entrare nelle “viscere” di un’opera, collocandola nel contesto sociale e negli avvenimenti realmente accaduti.
Amava definirsi un narratore d’arte, un divulgatore. E, in effetti, me ne accorsi “dal vivo”, quando, a metà degli anni Ottanta, per il giornale Mongolfiera (che da poco avevamo fondato) seguii alcune sue conferenze al cinema Settebello in piazza Calderini. La sala era sempre piena, più di 500 persone, la maggior parte donne di diverse età, attentissime ai suoi racconti e allo scorrere delle diapositive che, molto ordinatamente, mettevano in mostra i particolari di un quadro o di una scultura o la decorazione di un palazzo antico. Fui colpito dal modo raffinato e coinvolgente con cui esponeva concetti difficili e non comuni. I suoi “arnesi culturali” venivano usati con grande maestria e permettevano a chiunque di capire. Riusciva a trasmettere a chi l’ascoltava lo stesso amore che lui provava per quelle storie d’arte che stava raccontando, riuscendo a far vedere agli altri quello che lui vedeva in un’opera.
Altrettanto stupefacenti erano le proiezioni delle immagini su grande schermo, le diapositive che solitamente erano uno strumento molto “casalingo” per raccontare agli amici un viaggio o una gita, si trasformavano in un mezzo “tecnologico” a supporto delle narrazioni di Riccomini sull’arte antica.
Non fu un caso se poi quelle conferenze diventarono uno dei primi libri della cooperativa editoriale Mongolfiera. Ci trovammo bene noi e il prof, ci capimmo subito… Noi, da poco piccoli editori indipendenti, in massima parte ex operai, lui grande affabulatore, stimato intellettuale di formazione comunista (una strada “quasi obbligata” per un giovane che negli anni Cinquanta volesse dedicarsi alla cultura senza essere ricco di famiglia e poco propenso all’altra via, quella ecclesiastica, e agli studi in seminario). Ma Eugenio non aveva nulla dell’intellettuale “organico”, la sua eleganza, i suoi “farfallini”, i suoi vistosi fazzoletti nel taschino della giacca, il suo approccio alla vita intriso d’ironia (e di autoironia), denotavano uno spirito libero che mal si combinava con l’ortodossia del partito. E, del resto, anche noi eravamo sempre stati “comunisti con la c minuscola”, quindi…
La comune “sintonia editoriale” portò, nel 1990, alla pubblicazione del suo libro “1789 e dintorni – L’arte negli anni della rivoluzione francese” (rieditato poi da Pendragon nel 2015), in cui Riccomini approfondiva il rapporto tra storia e arte fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento e le trasformazioni sociali avvenute in quel periodo raccontate attraverso le opere dei grandi artisti europei, soprattutto francesi.
Nel frattempo, però, Eugenio regalava saltuariamente al giornale Mongolfiera qualche recensione di una mostra che valeva la pena vedere, come, per esempio, quella di Gianni Castagnoli, “Figure di Carta”, che si tenne nel 1989 nel periodo natalizio.
«Che fine faranno queste figure, cui Gianni Castagnoli ha pure dedicato e tempo, e attenta cura, e studio d’ogni posizione e d’ogni flettersi dei corpi, e d’ogni brivido possibile della luce sui volti, sui grembi, sui dorsi? Che ne sarà di loro, dopo questi pochi giorni; dopo i nostri sguardi incuriositi, o distratti? La cura è la stessa, io penso, che avrebbe meritato la cera, per formarne altrettanti bronzi. Ma queste figure sono di carta, e neppure pregiata. E se il bronzo, si sa, ambisce a essere perenne almeno come i carmi latini, la carta che fine gli tocca? La carta, ci sono appunto i cestini: e la si butta via. Queste cose, Castagnoli le sa benissimo; e non se ne cruccia… Queste cose di carta, di carta da pacchi, insomma, staranno lì un po’: e ne resterà, al più, qualche fotografia. Ed è già una bella prova d’umiltà, questa: darsi da fare, e torcere, e lisciare, e dar forma a un materiale così indocile e refrattario; far tutta la fatica d’un Nicolò dell’Arca a plasmar figure, e per un solo momento, e quasi per nulla… Ma del proprio sopravvivere nell’opera, Castagnoli proprio non s’interessa. Gli piace fare: e il resto non lo riguarda».
Il giorno che gli chiedemmo un breve parere all’interno di uno “speciale sulla seduzione”, Riccomini ci rispose con un “Madrigale in rima”:
Due righe, mi dici, per la Mongolfiera.
Due righe, poi, sulla seduzione;
entro stasera.
D’accordo, perché no?
scrivo e parlo di tutto
come fan tutti, più o meno,
e senza trarne alcun frutto;
ma di questo argomento, che ne so?
avessi un po’ di pratica, almeno –
e invece no: nulla mi viene a mente;
meno che mai un detto intelligente –
certo m’è capitato
su qualche canapè
d’esser guardato
con una certa insistenza…
tenevo in mano la tazza del caffé
e fingevo una finta indifferenza –
parlavo, come sempre, di pittura –
tenevo la tazza con una mano sola,
e nell’altra la sigaretta;
ma quello sguardo, quella trafittura
destavano la voglia di una stretta,
d’un fruscio di lenzuola –
e anche un poco d’ansia, di paura –
E tutt’intorno la gente,
che non s’accorge di niente.
Poi, come, è l’ora dei saluti:
bella serata, ringrazi la signora
dio com’è tardi! m’è volata l’ora –
e tutti vanno donde son venuti –
Anche lei se n’è andata;
e te ne accorgi
soltanto quando porgi
il cappotto a qualcuno nell’entrata –
E torni a casa da solo, nella sera;
butti sul marciapiede il mozzicone –
Resta da scriver, sulla seduzione,
due righe in fretta per la Mongolfiera.
Tra le tante “donazioni culturali” che Riccomini ha dispensato alla città di Bologna, quella che io considero il suo “capolavoro” fu la scoperta di Wolfango, da lui considerato uno dei pittori più grandi del mondo (e questa sua scelta non dipendeva certo dai formati di grande o grandissima dimensione delle sue opere, ma «per la raffinatezza dei dettagli e per la disinvoltura della realizzazione»). E ancora più straordinario fu “costringere” Wolfango ad esordire nel 1986 con una sbalorditiva personale nella vecchia chiesa sconsacrata di Santa Lucia (negli anni successivi trasformata nell’aula magna dell’Ateneo).
Eugenio Riccomini così lo presentò in un bellissimo catalogo (intitolato “Wolfango”) dedicato alle sue opere: «Il silenzio è la prima risposta allo stupore… se ti trovi all’improvviso faccia a faccia con cose così inconsuete… la qualità che per prima e d’acchito s’avverte in queste opere sembra consistere in una capacità mimetica assolutamente straordinaria, in un’abilità perfino imbarazzante nella resa delle cose viste, osservate. Ciò che l’occhio scruta e registra, la mano ricrea su tela, senza varianti: ed anzi, con un’intensità di visione che neppure la fotografia potrebbe permettere…».
E sulla mostra nella chiesa sconsacrata di via Castiglione il prof dedicò queste parole: «E alla luce uscirò queste cose gigantesche e misteriose nell’invaso vasto e luminoso, e cadente di Santa Lucia…. Ma siamo in tanti a ricordare l’incontro assolutamente inconsueto, e inatteso, tra la gente e i suoi dipinti. Sì: proprio la gente, quella che s’indica con questo termine ormai non più maneggiabile, sciupata dall’uso populista che tutti ne fanno. A quella prima, e finora unica sua mostra a Santa Lucia il pubblico non venne. Voglio dire che non comparve il solito pubblico delle inaugurazioni d’ogni mostra alla moda: i critici, gli addetti, i cronisti, e quelli che vanno alla mostra per esserci, e per mettersi anch’essi in mostra. Vennero, invece, gli altri. Ogni giorno, per tutta la durata della mostra, un ininterrotto fluire di persone; davvero di ogni ceto, e d’ogni possibile estrazione culturale… i ragazzi del vicino liceo, nel quarto d’ora di intervallo e certo senza sollecitazioni professorali; le signore (e anche le sempre invocate e latitanti massaie) con la borsa della spesa; e il droghiere, e il giornalaio, e il soldato in libera uscita… e non pochi allievi dell’accademia di belle arti. Tutta gente, insomma, che ben di rado s’incontra alle mostre dopo il giorno dell’apertura. Un pubblico eterogeneo, e un continuo, sommesso trapestio, un rispettoso bisbigliare: come se quello fosse ancora, o fosse tornata ad essere, una chiesa… Eravamo sorpresi. Ma più ancora, ricordo per l’atteggiamento di quello strano pubblico… la gente si sedeva sulle panche, e stava attenta e silenziosa, a guardare… In meno di un mese vennero a Santa Lucia più di ventimila persone: e senza un articolo di giornale, senza richiami in tivù,senza il parere del critico illustre; in un arcaico tam-tam solo orale…».
Wolfango me lo ritrovai, in un altro quadro di grandi dimensioni, dopo pochi mesi che ero in Consiglio comunale nel 1993: chiesi a Riccomini, che nell’aula di Palazzo d’Accursio c’era dal 1970, se durante una pausa dell’assemblea avesse voglia di parlarmi del “Cassetto”, quel dipinto gigantesco che campeggia nella sala stampa “Luca Savonuzzi” del palazzo comunale e che, quando ci sei davanti, è impossibile staccare gli occhi. Eugenio lo fece ben volentieri, con la stessa passione e la stessa abilità nella divulgazione con cui affrontava le conferenze al cinema Settebello.
Mi prese come per mano e mi accompagnò nella scoperta del “Cassetto” di Wolfango, ad addentrarmi tra tutti quegli oggetti poveri, dimenticati, inutili. Mi fece notare l’immaginaria linea simmetrica che scendeva dall’alto del quadro e di cui non mi sarei mai accorto. Mi fece notare le ombre dei vari pacchetti, la cartolina in cui la firma del mittente non si leggeva perché coperta da una scatola circolare che era rimasta aperta e, a causa di ciò, quello che conteneva si era seccato. Tutte cose che la bellezza così abbagliante del “Cassetto” mi aveva impedito di notare. A quel tempo gli mancavano due anni alla fine di quello che sarebbe stato il suo ultimo mandato ed era tornato al ruolo di semplice consigliere. A differenza mia che, essendo in un mono-gruppo, mi toccava intervenire quasi su ogni ordine del giorno, delibera o singolo atto amministrativo, Riccomini prendeva la parola raramente, ma i suoi interventi erano “impegnativi”, importanti, venivano ascoltati da tutti, perché al da là delle tesi sostenute o dei contenuti c’era il piacere di starlo a sentire… come solo i grandi interpreti teatrali riescono a tenere viva l’attenzione e la tensione emotiva per tutto il tempo dei loro monologhi.
C’era solo un altro “grande interprete”, un altro prof (non di storia dell’arte ma di ginecologia), Carlo Flamigni, ateo dichiarato, maestro di laicità… anche i suoi “rari interventi” si portavano appresso un carisma narrativo raro… anche lui da qualche anno non c’è più…
Nei momenti di “piatta” o di noia mortifera di una normale seduta del Consiglio comunale Riccomini mi si avvicinava e, con un sorriso ironico, mi chiedeva: «Posso sedermi qui?… Sai, siamo rimasti così in pochi di comunisti in quest’aula che è meglio che ci facciamo un po’ di compagnia».
In uno di quei momenti di chiacchiere in libertà, sempre molto piacevoli e utili per temprare il nostro spirito resistente, presi nota della sua personale declinazione di quel verbo particolare che è l’“essere compagni”: «Mi piace ancora di essere chiamato compagno perché il mio “cum panis” prevede che chi ha la fortuna di “conoscere”, di “sapere”, non può farsi forte di quello che ha a proprio vantaggio; deve trasmettere la cultura, “spezzare il pane”, agli altri… almeno credo di aver cercato di farlo».
Finita la sua esperienza in Consiglio comunale non ci siamo visti molto, a qualche manifestazione politica, oppure quando venivo a conoscenza di una sua conferenza, se potevo, lo andavo a sentire (continuava ad essere un gran piacere).
E, a proposito di piacere, gradii molto la sua presa di posizione pubblica in contrasto alla campagna da “sindaco sceriffo” di Cofferati contro i lavavetri.
Ci fu anche una situazione in cui ci trovammo in profondo disaccordo. Era in corso la campagna del sindaco Vitali sul “rusco verticale” e i “muri puliti”, con il giornale Zero in Condotta, nel mese marzo del 1999, lavorammo a un inchiesta sul fenomeno del graffitismo in città. Andai a intervistare Riccomini, facendo riferimento al fatto che, negli anni ottanta, Bologna ospitava i graffitisti newyorkesi e in città un gruppo di giovani artisti si era spinto fuori dalla sfera dell’arte per legarsi alle esperienze urbane degli anni settanta.
La sua risposta fu tranchant: «Scrivere su un muro indica il disperato bisogno di lasciare una traccia di sé, di presenza, di autoaffermazione. Finalmente per questo fenomeno non “dobbiamo” dare la colpa agli extracomunitari. Sono ragazzi delle nostre periferie, sono italiani… anche se siamo di fronte all’imitazione di un fenomeno prettamente americano. Se i graffitisti inondano la zona universitaria, questo sta a dimostrare che l’università ha fallito nella sua funzione… La città soffre di un problema ormai diffuso e a tutti evidente… Soprattutto i muri, ma anche ogni altra superficie, appaiono aggrediti dalle scritte di varia natura… L’imbrattamento indiscriminato e diffuso è in prima istanza una mera mancanza di rispetto verso il patrimonio collettivo, anche quando si presenta come forma espressiva di carattere alternativo, come nei cosiddetti graffiti e nell’uso dei “tag”…».
Negli successivi la questione dei murales e dei graffiti prese un’altra piega. Ci fu un volantino del centro sociale Xm24 che tentava di far aprire gli occhi: «Dopo aver denunciato e stigmatizzato graffiti e disegni come vandalismo, dopo avere oppresso le culture giovanili che li hanno prodotti, dopo avere sgomberato i luoghi che sono stati laboratorio per quegli artisti, ora i poteri forti della città vogliono diventare i salvatori della street art…».
Nel 2013 su un muro del centro sociale Xm24 fu inaugurato un enorme e importantissimo murale. L’aveva dipinto il noto street artist Blu. Quel muro doveva essere abbattuto dal Comune per realizzare una rotonda. La storia che il murale raccontava era ispirata al romanzo epico “Il Signore degli Anelli” di Tolkien. Mi sarebbe piaciuto andare a vedere quel murale insieme ad Eugenio Riccomini e sentire un suo commento, ma non ci fu mai occasione…
E’ da qualche anno che il murale di Blu non c’è più… Anche l’Xm24 non c’è più…
E da qualche giorno, purtroppo, anche Eugenio Riccomini se n’è andato per sempre… E’ stata una gran fortuna per me averlo conosciuto, non se ne incontrano tante di persone così nel corso di un’intera vita.