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Amedeo Ricucci, gli occhi “lucidi” sugli scenari delle guerre

E’ morto il giornalista Rai che mosse i suoi primi passi da reporter a Bologna, prima col giornale Mongolfiera, poi con Radio Città del Capo.

12 Luglio 2022 - 11:26

Se n’è andato troppo presto, a soli 63 anni, Amedeo Ricucci, uno dei più apprezzati reporter della Rai dalle zone di guerra.

Lui, di origini calabresi, era venuto a studiare a Bologna, dove si era laureato presso la Facoltà di Scienze politiche, nel 1985, in Cooperazione internazionale e aveva poi frequentato il Master in Relazioni internazionali.

La sua attività di giornalista iniziò nel 1986 presso il settimanale indipendente Mongolfiera, un giornale fatto da redattori non professionisti che in città ebbe un discreto seguito soprattutto nei circuiti delle culture alternative.

Poi passò a Radio Città del Capo, quando la redazione era in via Mura di Porta San Felice. Vi rimase per anni, avvicendando i servizi radiofonici a diverse collaborazioni con altri giornali.

Dopo di che venne chiamato in Rai, diventando per più di vent’anni un inviato dei più importanti conflitti bellici: dall’Algeria al Kosovo, dall’Afghanistan all’Iraq. Nel 1994 era con Ilaria Alpi e Miran Hrovatin nel viaggio in Somalia, dove i due giornalisti del Tg3 vennero uccisi. Nel 2002 era a Ramallah, presente anche al momento dell’uccisione del fotografo Raffaele Ciriello. Nel 2013 fu sequestrato in Siria, assieme ad altri tre giornalisti italiani ad opera del Fronte al-Nura.

Per via del suo prezioso lavoro ha ottenuto moltissimi riconoscimenti a livello nazionale e internazionale.

Per la tivù di Stato fu inviato per “Professione Reporter”, “Mixer”, “TG1” e “La Storia siamo noi”; i suoi reportage erano rivolti soprattutto agli scenari di guerra, ai profughi che ne subivano le conseguenze e ai migranti in fuga dai conflitti bellici e dalla miseria.

Più di una volta Amedeo Ricucci ha rischiato la pelle per portare a casa i suoi servizi, ma i suoi racconti sono stati sempre lucidi e precisi, fatti da uno che ha sempre tenuto gli occhi ben aperti, che ha osservato quello che accadeva in assoluta autonomia e che non è mai stato disposto a farsi mettere il silenziatore da nessuno. E fu così anche quando decise di farci vedere su Rai 1 la vergogna dei lager libici per migranti, quelle terribili prigioni etniche fatte nascere dall’accordo del ministro Minniti con i potentati di quel paese, sbandierate dal suo successore Salvini e dimenticate dall’ultima arrivata, la ministra Lamorgese.

Si intitolava “L’imbroglio – La tratta dei migranti in Libia” quel reportage, fu messo in onda, in seconda serata, sul programma “Tv Sette”. Erano immagini aspre e crude che ci gettavano in faccia le troppe “vite di scarto” rinchiuse nei campi di concentramento del terzo millennio. Esseri umani gettati per terra in capannoni assimilabili a porcilaie. La tragedia dei fuggiaschi delle tante fughe (dalla miseria, dalla guerra, dalla persecuzione, dalla desolazione). Alla fine del deserto, con il mare all’orizzonte, non c’era la terra promessa ma una nuova oppressione più feroce di quelle precedenti.

Ricucci montò la testimonianza di un libico, il cui volto venne oscurato, che diceva: “C’è stato un accordo fra gli italiani, non so se dei servizi segreti, e il comandante della Guardia Costiera di Zawiya, Bija. Il quale ha preso l’impegno di parlare con i trafficanti per bloccare le partenze”.

Con “L’imbroglio” Ricucci non aveva la pretesa di dirci come si sarebbe usciti da quella situazione, a lui “bastava” produrre l’effetto necessario per indurci a riflettere.

Dopo la trasmissione, arrivò l’oscuramento: sul sito della Rai non c’era traccia del reportage. Così Amedeo cominciò a girare per l’Italia, per farlo vedere quel documentario. Andò “molto laicamente” nei centri sociali, nei circoli Arci e nelle comunità religiose, incontrò i volontari di tante associazioni.

A Bologna ritornò per proiettare il filmato a Vag61, il 13 ottobre 2017, in una serata organizzata da Resistenze in Cirenaica, nella presentazione dell’evento si leggeva: “Cose che non si riescono a vedere spesso… Infatti, se seguite il link del Post al sito della Rai non vedrete un bel niente. Provate a cercare ‘L’imbroglio’ là fuori e scoprirete che non è facilissimo trovarlo. Eppure è un servizio fatto per la tv pubblica, un servizio di quelli come non se ne vedevano da tempo e come, forse, non se ne vedranno per molto altro tempo. Troppi nervi scoperti, troppi interessi in ballo, troppi italiani ‘brava gente’ coinvolti…”.

In quella serata Amedeo rincontrò tanti compagni di lotte di un tempo, molti amici che con lui avevano mosso i primi passi nelle redazioni bolognesi, ma c’erano anche tanti giovani sbalorditi e strabiliati dalla forza di quello straordinario lavoro di inchiesta giornalistica.

Queste poche righe non possono essere esaustive per descrivere le capacità di Amedeo Ricucci nel suo lavoro di inviato e, soprattutto, per ritrarre anche la sua bellezza d’animo.

E allora, per ricordarlo compiutamente, abbiamo preso in prestito le parole di Beppe Ramina, con lui a Radio Città del Capo e suo grande amico: “Morire a soli 63 anni per un tumore al fegato con ancora tanta energia e voglia di fare è ingiusto. La vita è ingiusta. Ma è anche bella se vissuta intensamente, con empatia verso chi subisce ingiustizie e tenendo gli occhi aperti. Fin che si può…”.

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Il suo primo articolo su Mongolfiera (27 ottobre 1986)

“Poche smorfie col computer. Per giocare al Lotto ormai trionfa il computer, in declino la cabala”.

Giocare al lotto a Bologna è un po’ come mangiare la pizza in Carnaby Street a Londra. Gli ingredienti sono sempre quelli, per carità, ma il gusto… quello no di certo, perché quello è tutt’altro con l’atmosfera e la cultura di una città, e Bologna non è Palermo, né tantomeno Napoli.

Eppure anche qui, per chi non avesse di meglio da fare e si diverte ancora a curiosare in mezzo alla vita e alle storie della gente, qualche giornata passata a bighellonare tra le ricevitorie del Lotto può essere un passatempo magari anche piacevole.

L’importante innanzitutto è scegliere accuratamente i giorni giusti. Il lunedì oppure il martedì, ad esempio. Quando la puntata minima e di sole 1.000 lire, e ci si può imbattere in una straordinaria moltitudine di popolo di dickensiana memoria che contrasta non poco con il solito andirivieni commercial/bottegaio delle vie del centro. Sono i fedeli della smorfia e delle filosofie cabalistiche, dei morti che parlano e dei numeri del destino: giovani e vecchi, uomini e donne, poveri e impoveriti che con la vita si ostinano a mantenere un rapporto magico, e che conservano una trasandata diversità fatta di bigodini e abiti sgualciti, linguaggi cifrati e sguardi profondi.

Per tutti costoro la realtà è un enigma numerabile, un gioco dalle soluzioni diverse, il Lotto una delle possibili… pur di trovare il sistema giusto. E’ solo un problema di sensibilità, riuscire a tirar fuori i numeri giusti dalla nostra vita quotidiana e fare un po’ di fila davanti al botteghino… tanto prima o poi la fortuna arriva!

A sentire gli impiegati delle ricevitorie, comunque, sembra che si tratti di una popolazione in via di estinzione, che mai si adegua alle regole del gioco, del gioco della vita come del Lotto. Che ormai è anch’esso divenuto zona di caccia dei nuovi professionisti dell’azzardo, di tutti quelli che bazzicano sui tavoli dei giochi più diversi non più in nome del vizio e del tentar la sorte, bensì di una vera e propria matematica della certezza attraverso cui ottimizzare i propri investimenti.

Gente organizzata, che persegue razionalmente il proprio interesse e crede che debba essere la realtà a doversi trasformare in sogno e non viceversa: sono i seguaci del rischio calcolato che non hanno tempo e denaro da perdere con le cabale napoletane e scendono in campo solo per seguire i numeri “caldi”, i famosi “ritardatari”, quelli che prima o poi secondo il calcolo delle probabilità finiranno per uscire.

Basta dare un’occhiata alle riviste specializzate fiorite in questi anni per rendersi conto che questa filosofia del gioco, che pure affonda le proprie radici nella logica del Lotto, sta ora dilagando con la stessa velocità della computeristica che la sorregge a suon di sistemi probabilistici a basso rischio. Ciò che si perde dall’altra parte, nel tentativo di padroneggiare le leggi del caso e della fortuna, è proprio il gusto del gioco, la sua magica, intima, appartenenza alla nostra vita più viscerale.

Sta di fatto che il volume delle giocate, a Bologna come in tutto il Centro-Nord, continua irrimediabilmente a calare. Dalle 15/20 ricevitorie del passato, confermano alla Direzione Lotto dell’Intendenza di Finanza, ne sono rimaste aperte solo 8, un numero più che sufficiente per star dietro a un gioco che ormai si ravviva solo quando qualche numerosi “riscalda” abbastanza da allettare i professionisti.

E poi c’è la piaga del “lotto clandestino” che paga meglio dello Stato e soprattutto paga più in fretta, col risultato che i soldi investiti diventano più sicuri.

“Oh niente di grosso, giri sempre modesti”, assicurano all’Intendenza di Finanza, “la verità è che a Bologna preferiscono le riffe delle Feste dell’Unità. Non è un problema di giocate clandestine o meno… il Lotto è un’altra cosa…”: ed ecco che l’accento napoletano del funzionario si fa improvvisamente più deciso, e non ci resta che rassegnarci. E’ proprio vero, giocare al Lotto e un po’ come mangiare la pizza…

(Amedeo Maria Ricucci)