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Messico / I migranti e la nuova economia del terrore

Dietro l’aumento della violenza nei confronti della popolazione migrante, una politica migratoria la cui parola d’ordine, “sicurezza”, si deve leggere come controllo, repressione, lucro.

22 Maggio 2013 - 18:04

(da napolimonitor)

È la sera del primo di maggio quando nei pressi di Las Barrancas, stato di Veracruz, il treno su cui stanno viaggiando centinaia di migranti centroamericani viene assaltato da un gruppo armato che costringe alla fuga le più di quattrocento persone ammassate sui vagoni. Gli aggressori seminano il panico con machete e armi da fuoco e la gente, nonostante il treno stia correndo a tutta velocità, inizia a lanciarsi dai tetti dei vagoni, trovandosi a scegliere tra il rischio di venire affettati e quello di essere triturati tra le rotaie. A partire dalle prime testimonianze – raccolte e diffuse dalla rete di attivisti che lottano per i diritti dei migranti – si parla di decine di feriti, diversi morti e dispersi.

Gli assaltati di Veracruz si sommano alle migliaia di casi analoghi di migranti centroamericani provenienti in particolare da Honduras, Guatemala e Salvador, che ogni anno percorrono il Messico diretti verso il nord del paese, per poi cercare di lasciarsi alle spalle la frontiera con gli Stati Uniti. La grandissima maggioranza di loro si muove in mancanza dei visti di soggiorno – documenti praticamente impossibili da ottenere, dati i requisiti di carattere economico richiesti – che gli permetterebbero di intraprendere un viaggio normalmente, senza doversi esporre alle innumerevoli violenze che oggi sono sistematiche lungo il cammino: estorsioni, pestaggi, stupri, torture, omicidi, sequestri.

Per viaggiare buona parte dei migranti usa i treni merci che partono dagli stati meridionali di Chiapas e Tabasco. Arrampicati sui tetti o stretti tra le piattaforme inferiori dei vagoni, macinano chilometri in condizioni disumane diventando il bersaglio della criminalità organizzata, di gruppi di assaltanti estemporanei, della polizia, dalle autorità di controllo sulle migrazioni e di chiunque veda in loro la possibilità di un guadagno. Ultimamente l’incremento dei controlli migratori ha provocato un cambio di rotta verso cammini più isolati e impraticabili, aumentando il pericolo di cadere in imboscate e di soffrire incidenti mortali.

Il ritrovamento nell’agosto del 2010 a San Fernando, Tamaulipas, di una fossa con settantadue cadaveri di migranti centroamericani ha riportato alla luce la tragedia dei sequestri di massa, forando il muro di gomma della connivenza delle istituzioni locali e nazionali. Per quanto possa sembrare assurdo, quello dei migranti si è trasformato in un fiorente business, e il sequestro in cambio di riscatto è una pratica lucrativa consolidata. Ogni anno circa ventimila persone vengono sequestrate lungo le rotte migratorie. Il prezzo per la libertà, che varia dai millecinquecento ai cinquemila dollari, apporta incassi che si aggirano intorno ai cinquanta milioni annui collocando così il mercato del sequestro in terza posizione, dopo il traffico d’armi e droga, nel giro d’affari del crimine organizzato.

Come spiega padre Tomas Gonzalez, della casa del migrante “La72”, di Tenosique, Tabasco – chiamata così proprio in ricordo delle persone assassinate a San Fernando – negli ultimi mesi i gruppi criminali che controllano il versante atlantico della repubblica hanno trasformato ogni stazione ferroviaria veracruzana in una sorta di casello di pedaggio. La tradizionale prassi dell’estorsione sembra essersi burocratizzata e la Bestia, come viene comunemente chiamato il treno su cui viaggiano i migranti, si sta paradossalmente convertendo nel mezzo di trasporto più esclusivo del paese.

Attualmente per continuare il cammino verso nord bisogna elargire una quota minima, almeno cento dollari per tappa, per cui arrivati alla stazione di Lecheria, all’altezza di Città del Messico, si può tranquillamente aver speso circa ottocento dollari. Meccanismo che ha tutta l’aria di essere un sistema di bilancio funzionante dal momento che centinaia di persone ultimamente stanno ripiegando verso il Centro America, non potendo permettersi di pagare il dazio imposto. In questo modo ha diritto di avvicinarsi al sueño americano solo chi può pagare. Chi non riesce a raccogliere il denaro sufficiente per proseguire viene bloccato con metodi che si stanno rivelando più efficaci di qualunque disincentivo più o meno istituzionalmente applicato in precedenza. Chi paga passa, chi no se ne ritorna. A meno che non voglia essere gettato dal treno o ricevere qualche machetazo di ricordo.

Dal canto suo, il governo di Veracruz ha prontamente imbastito una sua versione dei fatti, diffondendo un comunicato in cui si spiega come non si sia trattato di un assalto ma di una lite tra gli stessi migranti degenerata in violenza. Secondo il bollettino ufficiale, i feriti sarebbero nove, tutti non gravi e diligentemente assistiti dalle autorità preposte all’amministrazione delle questioni migratorie. Poco importa che già da parecchi mesi la nuova dinamica estorsiva sia stata denunciata, con tanto di segnalazioni accurate dei responsabili alla commissione nazionale dei diritti umani e alle corti di giustizia di diversi stati. Indagare sulla dinamica dei fatti o far luce sugli interessi più ampi che si muovono intorno al passaggio migrante non sembra rientrare nell’interesse dello Stato.

Già nell’ottobre 2012 a fronte della denuncia del sequestro di quaranta migranti centroamericani portata avanti da un altro degli esponenti più caparbi della rete dei difensori dei diritti dei migranti, padre Alejandro Solalinde, il governo veracruzano aveva agilmente dribblato la questione con resoconti artificiosi imposti prima di qualsiasi indagine. Anche all’epoca il sacerdote segnalava l’apatia e la collusione dello stato di Veracruz come le principali cause dell’aumento della violenza nei confronti della popolazione migrante.

L’arrogante manipolazione dell’informazione a opera del governo non sorprende se si pensa che lo stato di Veracruz è tra i più pericolosi del paese non solo per i migranti che lo attraversano, ma anche per chi ci lavora come giornalista. Dal primo dicembre 2010, giorno dell’installazione dell’attuale governatore dello stato, Javier Duarte, sono nove i giornalisti assassinati, tre continuano ad essere desaparecidos, mentre diversi hanno optato per l’auto-esilio trasferendosi in altri stati. A pochi giorni dell’anniversario dell’omicidio della giornalista Regina Martinez della rivista Proceso, strangolata a casa sua il 28 aprile 2012, risulta ancora più macabra la recente attribuzione a Duarte, da parte dell’Associazione messicana di editori di giornali (AME), del premio per la protezione della libertà d’espressione e di stampa.

A Duarte un premio effettivamente andrebbe assegnato, ma per l’abilità nella compravendita delle testate giornalistiche per le quali si parla di un investimento di duemila milioni di pesos messicani annui, cifra non da poco per uno dei governi con più debiti del paese. Attraverso l’acquisto di tutti gli spazi pubblicitari l’amministrazione Duarte si è ormai trasformata nel primo cliente dei gruppi mediatici, arrivando a dettare le linee editoriali e a mantenere un regime di censura pressoché infrangibile.

È in questo panorama che si inserisce il nuovo piano statale di gestione della questione migratoria, presentato da pochi giorni durante un incontro con autorità migratorie e consoli centroamericani. Il programma, che teoricamente prevede la promozione dell’attenzione medica, la formazione del personale migratorio in materia legislativa, l’appoggio alle case del migrante, coincide, a detta di Duarte, con una visione della migrazione non solo come questione di sicurezza ma anche di “solidarietà e cooperazione”. Termini che non possono essere interpretati se non attraverso il prisma poliziesco adottato dal nuovo governo.

Come nel resto del pianeta, anche in Messico le persone migranti sono ormai rientrate nella sfera della sicurezza nazionale in quanto nemico interno, offrendo un riscontro pratico e ideologico a una politica migratoria la cui parola d’ordine, “sicurezza”, si deve leggere come controllo, repressione, lucro. Non è casuale che negli ultimi anni gli apparati di sicurezza abbiano conquistato un’autorità sempre maggiore per quanto riguarda la gestione della migrazione. Basta pensare alla recente nomina a titolare dell’Istituto nazionale di migrazione di un personaggio dal passato sanguinario come Ardelio Vargas Fosado, responsabile dell’operazione a San Salvador Atenco (dove nel 2006 furono uccisi due ragazzi, pestate e arrestate circa duecento persone, abusate ventisei donne, per punire la popolazione che si era opposta all’esproprio delle terre per costruire un mega aeroporto) per avere chiara la linea in materia migratoria del nuovo governo. Presidente del PRI – il Partido revolucionario institucional, al potere da ben settant’anni ininterrotti – è attualmente Enrique Peña Nieto, capo dell’esecutivo dal primo dicembre 2012 grazie a quella che sembra essere la più sfacciata frode elettorale del paese.

L’aggressione ai migranti in Veracruz ha anticipato appena di un giorno la visita di Obama in Messico durante la quale, secondo quanto riportato dai diversi mass media, il presidente statunitense ha discusso con Peña Nieto di educazione, infrastrutture di frontiera, commercio, migrazione, sicurezza e competitività, dove quest’ultima è da intendersi come un eufemismo per privatizzazione e precarizzazione del lavoro a beneficio dell’élite imprenditoriale. In occasione della venuta di Obama diverse organizzazioni hanno manifestato a più riprese davanti all’ambasciata statunitense di Città del Messico per denunciare tanto la connivenza dello stato messicano rispetto agli abusi perpetrati nei confronti dei migranti centroamericani, quanto le centinaia di migliaia di deportazioni di migranti compiute durante il primo mandato di Obama, ricordando come questa pratica divida migliaia di minori dai propri genitori. Deportazioni massive, di fatto una cinica tattica di disarticolazione sociale, che rientrano nella logica del nuovo disegno di legge in materia migratoria attualmente in discussione presso il senato statunitense.

La nuova proposta di legge americana prevede la possibilità di ottenere la cittadinanza per chi sia in grado di dimostrare la propria presenza in territorio USA anteriormente al 31 dicembre 2011, un processo che oltre a durare complessivamente ben tredici anni, ha un costo di varie centinaia di dollari per chi intenda intraprenderlo. Il percorso, articolato in diversi passaggi di status migratorio, non stabilisce un passaggio automatico da una tappa all’altra, ma è direttamente collegato al potenziamento dei controlli della frontiera con il Messico. Secondo quanto previsto dal disegno di legge, sarà a seconda dell’esito dell’applicazione delle infrastrutture di contenimento dispiegate lungo la frontiera che le persone che hanno fatto richiesta di regolarizzazione vedranno avanzare o congelarsi la propria domanda. Ovvero, solo se alla frontiera verrà respinto un numero sufficientemente alto di persone, i migranti “provvisori” potranno accedere al lungo cammino che forse li porterà a regolarizzarsi.

In questo modo la legge, oltre a far affondare inesorabilmente la migrazione nelle acque torbide della sicurezza nazionale, incoraggia lo smantellamento delle reti di solidarietà tra i migranti, costretti in un’assurda competizione con quanti cerchino di attraversare la frontiera statunitense. Quanto successo in Veracruz rimane come monito, per non lasciarsi ingannare da quei mass media che hanno festeggiato l’incontro tra Peña Nieto e il premier statunitense, come punto di svolta per una nuova cooperazione da cui beneficieranno entrambi i paesi.

Caterina Morbiato