Storia e memoria

In ricordo di Renzo Filippetti

Scomparso due giorni fa, era il direttore artistico del Teatro Ridotto. Un geniaccio della sperimentazione artistica e teatrale, un compagno con cui valeva la pena stare ore e ore a chiacchierare: riproponiamo un’intervista che rilasciò nel 1997 a Zero in Condotta.

15 Gennaio 2020 - 11:54

“Siamo come zingari, sospesi, inafferrabili, non etichettabili”. Renzo Filippetti, direttore artistico del Teatro Ridotto, è venuto a mancare due giorni fa. Per ricordare un geniaccio della sperimentazione artistica e teatrale, un compagno con cui valeva la pena stare ore e ore a chiacchierare, ma soprattutto una persona capace di trasmettere una grande umanità, siamo andati a cercare un’intervista che Zero in Condotta gli fece verso la fine del 1997 sul suo progetto, nato da poco, della Casa della Cultura e dei Teatri.

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Vista di Toledo ritratta da Escher. Un quadro esemplare che esprime la posizione di Renzo Filippetti, regista del Teatro Ridotto. Il paesaggio rappresentato nella Vista non esiste realmente; nasce dalla somma di differenti punti di vista, o meglio dalla somma di diversi punti di osservazione del medesimo paesaggio da parte di una moltitudine di spettatori. Sguardi diversi su uno stesso luogo raccolti e amalgamati, infine, dal pittore in una unica visione. Il compito e la visione del regista nel teatro sono sostanzialmente gli stessi. Per Renzo Filippetti, anche il teatro è una somma di differenti punti di vista, è lo spazio delle angolazioni, delle differenze, delle linee oblique, ma anche della magia e del gioco. La mente collettiva, di cui parla Filippetti, è un grande contenitore di idee diverse, spunti, collaborazioni, interazioni. Lascia ampio spazio alle suggestioni degli attori, alle loro proposte. Filippetti si illumina quando parla del suo lavoro di ricerca sull’oriente del teatro.

«E’ stato fondamentale per il nostro gruppo – dice – aprirci ad altre culture, ad altre formazioni teatrali. Abbiamo lavorato con Eugenio Barba e Iben Nagel Rasmussen dell’Odin Teatret in diversi momenti ampliando il lavoro di training sviluppato da Barba e Rasmussen con tecniche di improvvisazione, composizione e montaggio. Abbiamo dato vita a spettacoli, sia all’aperto che al chiuso cercando sempre un’unità tra il lavoro dell’attore e le tecniche di montaggio dell’attenzione dello spettatore».

Come nasce il nome Teatro Ridotto? «Eravamo in pochi quando abbiamo iniziato nel 1983 e il nome ci è sembrato adatto alla nostra presenza. Il nucleo di allora è ancora presente oggi ed è formato da Lina, Anna, Franco e da me. Siamo nati come laboratorio permanente di ricerca sull’arte dell’attore. Siamo tutti autodidatti: nessuno di noi ha frequentato accademie o ha avuto esperienze presso altre scuole teatrali».

Filippetti ricorda i primi anni di lavoro, dedicati all’allenamento e alla preparazione tecnica. Gli spettacoli erano ancora lontani e il gruppo inventava diversi modi per presentarsi al pubblico.

Nascono in quegli anni i primi progetti e i primi scambi con altre culture. Per cinque anni a partire dal 1990 il gruppo ha organizzato le attività di produzione e organizzazione del centro teatrale La Soffitta dell’Università di Bologna. Ha avuto, inoltre, scambi di lavoro con il Work Center di Jerzy Grotowski che recentemente ha ottenuto il riconoscimento della laurea ad honorem dalla Università di Bologna.

Il gruppo, spiega Filippetti, non avendo nessuna tradizione scenica alle spalle, si è data una propria identità artistica e culturale puntando proprio sullo scambio con altre culture. Da questa pluralità nasce la condizione di nomadismo che caratterizza l’animo del teatro Ridotto: «Siamo come zingari», dice Filippetti, sospesi, inafferrabili, non eticchettabili. Piace a Filippetti l’idea del loro essere sospesi. L’essere zingari rafforza la pluralità, l’insieme dii differenti punti di vista, di differenti origini che si amalgamano in una unica visione come nel quadro di Escher.

E la pluralità è la condizione base nella programmazione della Casa delle culture e dei teatri . Ricorre ancora il plurale, l’insieme delle culture e dei teatri in unica visione, in un’unica Casa.

Nella Casa delle culture e dei teatri , che ha sede a Lavino di Mezzo via Marco Emilio Lepido, 255, vengono accolti e presentati spettacoli provenienti dalle diverse tradizioni di ricerca, per rendere visibili nuovi modi di concepire il teatro.

Come Grotowski, Filippetti dice che non c’è un io del teatro, che non esiste un teatro dell’avvenire, ma tanti teatri. Come Grotowski Filippetti si inserisce nel magma di progettualità future, di non stanzializzazione nel rifiuto delle atrofizzazioni e degli -ismi. Obiettivo di Filippetti e del Teatro Ridotto è creare un “precedente”, così da costituire un altro punto di vista per nuovi lavori di ricerca. Filippetti ora si infervora. «Siamo tutti figli di Barba e di Grotowski, e se adesso puoi fare di un garage un teatro lo devi a loro. E’ un essere figli per dignità; è un riconoscimento del lavoro altrui, non un rifacimento».

Gli chiediamo se non ci sono contraddizioni nelle sue affermazioni. Come è possibile l’autenticità, la caratterizzazione personale, avendo davanti grandi modelli, essendo figli di qualcuno?

Filippetti ritrova Grotowski per spiegarci la sua posizione e dice: «E’ tutto qui: essere nel proprio processo, cioè essere in armonia con le proprie sfere personali, aderire a se stessi. Se non ci riesci ti va male». Quello che propone Filippetti è un ritorno alle proprie origini, tornare indietro per trovare l’identità di se stessi. Nella vita quotidiana l’attore ha contro di sé un’accezione negativa del suo essere attore; di chi è falso, infatti, nella vita quotidiana si dice che recita. Bisogna tornare alle cose stesse (Husserl), alle verità elementari. E il linguaggio è il sintomo più profondo di una concezione riduttiva del teatro. Recitare in italiano indica un ridire qualcosa già detto da altri; l’inglese e il francese con play e jouer sottolineano, invece, la struttura di base del gioco, una maggiore creatività, magia e fantasia. Il teatro Ridotto si sente stretto da queste definizioni, Filippetti volutamente non si etichetta, i termini per lui sono gabbie, messaggi imbottigliati dove non c’è più il mare. Filippetti vuole togliere il teatrale dal teatrale, eliminare gli orpelli che ingombrano l’essenzialità del teatro.