Attualità

Celati alla luce del giorno

Da Tripoli a Lampedusa, su un malandato barcone: “Noi, che ci sentiremo dovunque stranieri, fintanto che questa terra non sarà di tutti”. Riceviamo e pubblichiamo una narrazione da ‘Ningún ser humano es ilegal’.

11 Settembre 2015 - 10:07

Celati alla luce del giorno

cieE fu sera e fu mattino, centocinquantaquattresimo giorno.

Salpammo in più di cento dalle coste di Tripoli, con pochi soldi nelle tasche e talmente stipati su quel malandato barcone da dover lasciare a terra anche l’unico dio nel quale sapevamo pregare.

Per noi era quella l’ unica via di salvezza, la più misera possibilità di scampare alla morte certa.

Il mare era la strada, l’ignoto la nostra meta.

In quella notte buia in cui le prime luci sono comparse siamo stati condotti a riva da uno scafo delle guardie italiane, come si fa con i criminali colti in fragrante, rei di aver chiesto più dignità del dovuto.

Ci hanno scortati, accompagnati, e ospitati tra queste quattro mura, che a quanto dicono sono il loro migliore sinonimo di accoglienza.

Giunti in fila indiana dinnanzi al cancello principale, una guardia chiedeva ad ognuno la propria nazionalità, ignorante del fatto che i naviganti non appartengono ormai più a nessun luogo.

E fu sera e fu mattino, centocinquantacinquesimo giorno.

Il Centro di Identificazione ed Espulsione di Lampedusa sorge su un gruppo di scogli sui quali, dalle grate delle finestre, spesso possiamo osservare i gabbiani consumare il loro pasto fresco appena cacciato,probabilmente più invidiabile della nostra carne di maiale scaduta da ormai una settimana. D’altronde non ci si può certo lamentare quando si è ospiti in casa di altri, nè della qualità del cibo offerto, nè tanto meno delle abitudini dei nostri padroni di casa,anche quando queste consistono nel dover assumere qualche dose di sonnifero per stare più mansueti, rinunciare all’igiene personale per una settimana o ricevere la quotidiana manganellata da parte del celerino di turno.
E’ così che passiamo le giornate qui, in quello che è stato ribbatezzato “Centro di Prima Accoglienza” da persone dalle quali, visto il loro senso dell’ospitalità,sarebbe meglio non farsi invitare a casa loro nemmeno per prendere un caffè.

E fu sera e fu mattino, centocinquantaseiesimo giorno.

Girano voci qui dentro, di cose che sono successe qui o in centri simili a questo. Parlano di Reda, Moustapha e altri, morti durante la loro permanenza in circostanze poco chiare.

C’è chi ha tentato di fuggire, e chi c è pure riuscito, seppur rinunciando alla propria vita.

Perchè per uscire da questo inferno chiunque è disposto a pagare. C’ è chi ha provato ad infliggersi dolore, chi ad arrecarsi ferite, soltanto perla speranza di essere condotti in un centro sanitario più adeguato. Ibrahimsi è tagliato le vene all’altezza dell’incavo interno del gomito delbraccio destro. Mostra la ferita sanguinante con grossi punti che la ricuciono. Cucite sono le nostre bocche, a cui è stato impedito direclamare i diritti fondamentali. Diritti che abbiamo provato di prenderci un anno fa, con una rivolta esauritasi nei fumi dei lacrimogeni.

Chi non ha diritti è chi non esiste, come noi. Ci chiamano clandestini, termine che nella loro antica lingua deriva da clam-des-tìnus: nascosto, celato alla luce del giorno.

Eppure siamo qui, esistiamo, siamo sempre esistiti e probabilmente sempre esisteremo. Ma non ci vedi, ci tengono nascosti come merce di contrabbando. Figli illegittimi. Fratelli in esilio.

“Fermate l’ invasione”, ci chiedono. Lo stesso che da secoli noi chiediamo aloro, ai loro progetti coloniali di ieri, alle loro multinazionali di oggi che devastano e depredano le nostre terre. Ma quello che conta è la nostra di invasione. Perchè il passato è passato, il presente è il presente, e scrivere la storia è un privilegio di pochi.

Dicono che infanghiamo le loro tradizioni, mentre loro pregano un profeta venuto da Oriente e pestano la terra che fu di mille popoli.

Dicono che noi siamo il nemico, ma ancora non è chiaro come possiamo essere tale.

Se il nemico è chi nasce in una terra lontana, allora perchè adorare la merce che i ricchi mercanti portano dalle americhe o dall’ Australia?

Se il nemico è chi impone la propria visione del mondo con forza e coercizione, perchè continuare a dar credito a pastori e sacerdoti?

Ma se il nemico è chi ruba il pane, chi crea povertà, chi sfrutta e depreda risorse e terreni, chi vi dà sofferenza per potersi ergere a vostro padrone, allora sappiate, che il nemico non è tra noi.

Noi, che ci sentiremo dovunque stranieri, fintanto che questa terra non sarà di tutti.

(Dalla pagina Fb ‘Ningún ser humano es ilegal’)