Pene comprese fra i tre e i 15 mesi per accuse, a vario titolo, di resistenza a pubblico ufficiale, manifestazione non autorizzata, interruzione di pubblico servizio, accensioni ed esplosioni pericolose. Tpo: “Sentenza spropositata, che ha il sapore della vendetta”.
Conferma di 13 condanne su 16. Si è concluso così il processo di appello a carico di collettivi e centri sociali per la manifestazione il 12 ottobre del 2011 davanti alla sede di Bankitalia in piazza Cavour e per il successivo blitz negli uffici Unep in vicolo Monticelli. Agli imputati, condannati a pene comprese fra i tre e i 15 mesi, erano contestati a vario titolo i reati di resistenza a pubblico ufficiale, manifestazione non autorizzata, interruzione di pubblico servizio e accensioni ed esplosioni pericolose. Le tre condanne non confermate riguardano due posizioni stralciate per difetto di notifica, mentre per un manifestante condannato in primo grado a tre mesi per manifestazione non autorizzata è scattata la prescrizione. Riconosciuto anche un risarcimento di 500 euro a testa, che dovrà essere pagato in solido dai 13 condannati, per due agenti che si erano costituiti parte civile.
Parla di “condanne spropositate” il Tpo: “Undici anni. Tanti sono gli anni di condanna comminati in secondo grado a 13 persone rinviate a giudizio per i fatti di Bankitalia, avvenuti a ottobre 2011. Tra i reati c’è la resistenza aggravata dal fatto di essere almeno in dieci. Eravamo più di dieci, sicuramente. Quel giorno donne e uomini liberi hanno manifestato contro le violentissime politiche di austerità chieste al nostro Paese da organismi economici internazionali. Le pressioni politiche esercitate nei confronti dell’Italia portarono, a fine 2011, all’imposizione del governo Monti e delle sue politiche di violenti tagli alla spesa sociale. Ricordando quella giornata, è impossibile negare che si tratta di condanne spropositate che hanno il sapore della vendetta. Quel 12 ottobre, infatti, si è vista una gestione dell’ordine pubblico scellerata: ripetute cariche laterali, immotivate, eseguite dal VII reparto. Una mera dimostrazione di brutalità e violenza che portò anche alla manganellata in faccia a Martina, giovane attivista, causandole la rottura di quattro denti. Abbiamo denunciato quell’episodio che sarebbe altrimenti passato sotto silenzio, perché pensiamo che gli abusi delle forze dell’ordine si possono combattere solo con il coraggio di renderli pubblici e di colpire il muro di omertà che protegge i colpevoli. Come hanno dimostrato le vicende di Stefano Cucchi, la cui famiglia lotta da dieci anni per avere giustizia: solo recentemente si sta facendo luce sulla rete di complicità e di coperture assicurate ai colpevoli dai loro superiori. Non è sufficiente che l’arma dei Carabinieri pensi di costituirsi parte civile per cancellare l’orrore e l’omertà intorno alla morte di Stefano. A Bologna, porre il problema degli abusi delle forze dell’ordine porterebbe ad aprire un vaso di Pandora nel quale sono contenuti molti altri episodi simili, direttamente legati alla questura cittadina che, per convenienza di molti, sono troppo spesso taciuti. Quel processo, per noi, ha significato lottare contro l’omertà del reparto mobile bolognese, alla ricerca del colpevole protetto da bugie, silenzi e insabbiamenti. Il poliziotto venne condannato in primo grado nel 2013 per lesioni gravi, provocando in città un’immediata reazione di protesta del reparto mobile che, in quei giorni, si rifiutò di svolgere il servizio in piazza Verdi, facendo proprio riferimento alle vicende giudiziarie a loro sfavorevoli. La sentenza di primo grado è stata appellata dal poliziotto e il processo procede lentamente, con tutta probabilità si interromperà per prescrizione. Invece, subito dopo la manifestazione, è iniziato il processo contro quei manifestanti che hanno cercato di bloccare le violentissime cariche della polizia, mettendo in gioco con generosità anche i loro corpi. Nel nostro caso, la procura non ha perso tempo: indagini lampo, processi rapidi e le pesantissime condanne con cui si conclude oggi il processo d’appello. Pensiamo che i motivi di quella manifestazione, guardata con gli occhiali di oggi, siano più che validi e il commissariamento economico e politico dell’Italia, iniziato allora da parte di organismi internazionali, ha tra i suoi frutti avvelenati l’attuale torsione sovranista. Infine, la richiesta di una discussione vera sugli abusi delle forze dell’ordine e le coperture istituzionali di cui godono resta un problema aperto e attuale che non si vuole affrontare. Come abbiamo sempre detto, non saranno le condanne né le ferite a farci cambiare idea. Continueremo, sulla stessa strada, sorridendo. Libere tutte, liberi tutti!”.