Acabnews Bologna

Ci ha lasciato per sempre un comunista libertario

Lo scorso 10 gennaio è deceduto Bruno Giorgini, militante di spicco di Lotta continua, ricercatore universitario di fisica, giornalista, scrittore, poeta e libero pensatore. Nel 1977 fu colpito dalla repressione dopo le giornate della rivolta del marzo e dovette espatriare da latitante in Francia. L’ultimo saluto sabato dalle 13,30 alle 15,30 nel Pantheon della Certosa.

12 Gennaio 2023 - 17:57

In questi giorni è stato un susseguirsi di pessime notizie, la morte di Bruno Giorgini è l’aggiungersi di un’altra ancora, orribile e tristissima.

Bruno è stato, fin dai primi anni ’70, uno dei compagni più conosciuti di Lotta continua, una delle voci più ascoltate nelle assemblee di movimento delle aule universitarie, nei comizi durante le manifestazioni della sinistra rivoluzionaria, negli happening e negli incontri di massa del movimento del ’77. Poi le sue parole dai tono squillanti sono uscite dai microfoni delle radio libere, soprattutto dalle frequenze di Radio popolare.

Attraverso gli stereotipi da sintesi giornalistica, molto spesso il “compagno Giorgini” è stato definito un leader, ma l’alterigia da “esponente di punta” del movimento non ha mai fatto parte del suo dna. E, in effetti, se in tante e tanti gli hanno voluto bene e lo hanno seguito con attenzione nelle innumerevoli attività e nei diversi progetti a cui ha partecipato è perché si è sempre rapportato alle persone con gentilezza, disponibilità e intelligenza. E sono veramente tante le cose che ha fatto: militante politico senza sosta, ricercatore universitario di fisica, giornalista, scrittore, poeta, libero pensatore (con una bella testa). Nel 1977 fu colpito dalla repressione dopo le giornate della rivolta del marzo e dovette espatriare da latitante in Francia. Quell’esperienza di esilio gli fu utile per diventare poi un corrispondente di Radio popolare da Parigi e da Marsiglia. A metà degli anni ’80, ritornato sotto le Due Torri, diede vita, con altre compagne e altri compagni che avevano partecipato all’esperienza del movimento del ’77, alla casa editrice Agalev. Bologna era la sua città d’appoggio, ma per anni la sua vita è stato un bel pellegrinare tra altre città italiane, come Milano e Genova, e la Francia

Bruno Giorgini è stato un cittadino del mondo, ma ci ha tenuto sempre a far sapere di essere nato nel cuore della Romagna, in quel di Forlì. Un segno tangibile di questo legame profondo è stato il suo ultimo (bellissimo) libro “L’Adria – storia di un amore partigiano”, dedicato a sua madre e alla lotta di liberazione, dove ha risuonare la voce dei diseredati romagnoli tra fascismo e socialismo.

Particolare fu il suo rapporto con Roberto Roversi, iniziato probabilmente quando il poeta “prestò” il suo nome come “direttore responsabile” del giornale Lotta continua. Bruno lo citava spesso in diversi suoi articoli, soprattutto era la “preveggenza poetica” dello splendido poema di Roversi “L’Italia sotto la neve” che l’aveva colpito.

Diceva Giorgini: “Se una società rompe i vincoli elementari di solidarietà tra i suoi componenti, se la concorrenza tra individui diventa l’imperativo sociale primario, ebbene la probabilità che il sistema vada rapidamente in catastrofe alle prime difficoltà sono molto alte”. E rafforzava questo suo ragionamento con i versi di Roversi: “Leggi un poco dovunque/ non stancarti di chiedere e parlare /- nei film gialli di gangsters americani/ la vittima inseguita imbocca un vicolo stretto/ e laggiù in fondo c’è un muro/ un muro alto un muro insormontabile un muro/ con cocci di bottiglia/- la tensione è ricomposta da quell’ostacolo invalicabile/ che si avvicina/ mentre nella fanghiglia brulica un fanale/vedere”.

A Bruno piacevano molto anche gli aforismi e le citazioni, a seconda dei momenti compilava dei suoi personalissimi quaderni. Gli piaceva particolarmente un pensiero di Luisa Muraro: “Non lasciamo che il significato e il valore delle nostre vite, come acqua preziosa messa in un secchio bucato dalla ruggine, siano risucchiati nell’agonia di forme politiche senza anima”.

Del resto come diceva un anonimo che aveva rintracciato su qualche testo: “Se una cosa non è giusta non è che si accetta a capo chino e basta, ma si continua a lottare”.

Ciao Bruno, amorevole comunista libertario, simpatico mangiapreti romagnolo, sarà impossibile dimenticarti.

Per ricordare Bruno Giorgini e conoscere meglio il suo pensiero pubblichiamo una piccola selezione di sue riflessioni tratte da articoli e corrispondenze.

* * *

La diffidenza operaia (da una testimonianza sull’intervento degli studenti
davanti ai cancelli delle fabbriche – anni 1969/1970)

«Gli operai ti accoglievano bene perché aumentavi molto il loro grado di libertà. La Costituzione in Italia si era sempre fermata ai cancelli delle fabbriche, col movimento ha cominciato ad entrare un pochino in fabbrica, anche se poi è stata ributtata fuori… C’erano iniziative sulla sanità, sulla mensa: per esempio in molte fabbriche non c’era la mensa e molti operai venivano a mangiare alla mensa universitaria. Nello stesso tempo c’erano però anche difficoltà con gli operai, quelli del partito comunista in particolare, difficoltà profonde… Gli operai più vecchi dicevano che, alla fine, noi studenti stavamo al caldo e tornavamo a studiare e ci saremmo laureati mentre loro rimanevano operai di seconda o terza categoria, c’era una sorta di diffidenza oggettiva, di condizioni materiali di vita che era innegabile, per cui noi potevamo rischiare di più e loro di meno… Nello stesso tempo però gli operai erano molto contenti perché facevamo i picchetti; c’è stato un periodo che c’erano picchetti tutte le mattine: alla Ducati, alla Menarini, alla Sasib, alla Minganti, alla Ico.

Il Pci e il sindacato avevano il timore che gli studenti si rapportassero agli operai direttamente, senza la loro mediazione. Verso gli studenti più radicali, più estremisti, c’era una tendenza non dico a picchiarli, ma a tenerli lontani: voi pascolate nella vostra scuola che noi pascoliamo nella nostra fabbrica».

Gli operai di Gramsci (da uno scritto del 3 marzo 2012)

«Subito dopo la Grande Guerra, negli anni 19-21 del novecento, Torino fu teatro di una eccezionale lotta in particolare degli operai FIAT, il famoso sciopero delle lancette, sulla riduzione dell’orario di lavoro, e quindi l’occupazione degli stabilimenti. Nacquero lì i consigli operai, composti da delegati eletti direttamente dagli operai reparto per reparto. C’erano obiettivi sindacali come l’aumento salariale, ma anche il controllo operaio sull’organizzazione del lavoro e i modi di produzione, un potere operaio in nuce che si organizza con forme di democrazia diretta. Gramsci intende la portata dello sciopero, fonda L’Ordine Nuovo prima settimanale poi quotidiano…».

Gli operai e il presidente (da un reportage da Marsiglia del 3 aprile 2012)

«Un gruppo di venti (20) operai sta camminando lungo le strade di Francia in una marcia di protesta contro la chiusura degli altiforni delle storiche acciaierie Arcelor Mittal. Arriveranno a Parigi il 6 aprile, sotto la Tour Eiffel, dove alle 19 troveranno a accoglierli una festa concerto per il lavoro con tra l’altro gli Zebda, una band di Tolosa molto nota e assai di sinistra. Sembrano una entità trascurabile venti operai tra le tante manifestazioni di protesta, eppure il Presidente candidato UMP Sarkozy li ha pesantemente attaccati…. Quando cominciò la crisi di Arcelor Sarkozy impegnò la sua parola e la sua autorità, promettendo che avrebbe trovato una soluzione socialmente accettabile, e che comunque avrebbe evitato la chiusura degli altiforni. Ovvero gli operai dell’Arcelor in marcia su Parigi, sotto la Tour Eiffel, monumento dell’eccellenza francese nella metallurgia, sono la rappresentazione carnale del fallimento della politica presidenziale nel campo economico e sociale. Una rappresentazione che potrebbe diventare un simbolo ben oltre gli operai dell’Arcelor. Insomma quei venti operai possono essere il classico granello di sabbia capace di inceppare il motore della macchina del capitale…».

Il Capitale di Piketty (da una recensione del 30 dicembre 2014)

«Nel suo Capitale Piketty incendia e brucia i dogmi principali del neoliberismo fino a ridurli in cenere. Una boccata d’aria fresca e una manciata di colori arcobaleni a squarciare l’atmosfera mefitica e plumbea indotta dalle oscenità del capitalismo libero e selvaggio, proponendo una conoscenza che ristabilisce un codice di verità contro le mistificazioni ideologiche sparse a piene mani sub specie di una pretesa scienza oggettiva a sostegno del neoliberismo, addirittura per alcuni inscritto nella natura e nella sua evoluzione fino al vivente. Questo è il primo punto: Piketty ci dice che ogni economia è economia politica, cosa già enunciata da Smith, Ricardo, Malthus, Marx, ma di cui si era tentato di cancellare la memoria…».

La sconfitta della sinistra (da un articolo dell’8 maggio 2013)

«Muore Andreotti, nasce Letta. Non avrei voluto morire democristiano. Forse morirò demoberlusconiano, nel nostro attuale panorama politico la scelta essendo al più tra la padella e la brace. L’ultima tornata elettorale, il suo sbocco istituzionale e di governo rappresentano una sconfitta secca, brutale, della sinistra in tutti i suoi sensi: riformista, rivoluzionaria, alternativa, critica, libertaria e quant’altro. La sinistra e il centrosinistra, quella sociale, quella politica, quella sindacale…».

La triste Italia vista da lontano (da un articolo scritto da Marsiglia il 28 maggio 2012)

«Ci apparenta al fascismo d’antan, il flusso della nostra emigrazione, specie quella intellettuale, dagli studenti ai ricercatori, e quella legata alle professioni liberali, architetti per esempio a frotte, e tecniche, ingegneri molti. Non perché siano particolarmente ribelli, ma perché l’intelligenza anche professionale in un paese reazionario calcinato d’imbecillità, è sempre malvista, e sprecata e se del caso invisa, osteggiata apertamente – mentre invece democrazia è il luogo dove nessun sapere viene disperso – da questo punto di vista l’Italia è assai poco democratica, se non antidemocratica. Adesso viene il difficile: perché e come è avvenuto che ci siamo così ridotti, e dove possono esserci bagliori di speranza, e quali forme può assumere una iniziativa politica, civile, sociale e culturale in grado di contrastare questa deriva melmosa, e di pensare, progettare, costruire una alternativa. Ma questa è un’altra storia…».

La memoria dei ragazzi del ’77 (da una recensione del 27 gennaio 2012)

«La memoria del ’77 è stata fino a ora spezzettata, spesso stravolta, oppure trasformata in retorica quando non ideologia, ovvero: falsa coscienza. Si sono scritti molti libri, pubblicate molte interviste, sparpagliati video ma personalmente mi sono sempre sentito a disagio, quando non amareggiato. Qualcosa veniva sempre travisato, se non usato a fini politici, per affermare la propria esistenza ancora sulla scena o per attivare polemiche stantie di ciò che fu, oppure per rilanciare lo stereotipo degli anni di piombo, dei cattivi maestri, dei provocatori e quant’altro: tutto il liquame. Poi è arrivata da un posto magico la memoria a tutto tondo del meraviglioso, letteralmente: che destò meraviglia, movimento del ’77. Una memoria colorata come un prisma che scompone la luce bianca in un arcobaleno girando pagina dopo pagina del libro “I ragazzi del ‘77”, stupenda narrazione finalmente densa di verità e di vita, di politica e d’avventura, e col dolore per la morte di Francesco che si staglia nitido ma non incarognito, direi puro, se non temessi la parola. Sfogliandolo ridiventiamo tutti giovani, io non lo ero già più al tempo, e pieni di futuro, e vogliosi di libertà, nonché rivoluzione, una voglia che oggi ci vuole, è necessaria per far fronte alla crisi di civiltà capitalistica, e forse oltre, che ci attanaglia e disfa corpi sociali, generazioni, speranze, vite. Per far fronte alla brutalità della finanza internazionale, a questo cancro che ha dichiarato guerra alla comune degli umani. È una storia di immagini e parole che Enrico Scuro ha composto, con la collaborazione di molte/i altre/i, se dovessi fare un paragone, e senza scherzi, direi Guerra e Pace, racchiuso tra le mura della vecchia Bologna…».

Storie di ordinarie pensioni al tempo del Governo liberista (da un dialogo sotto i portici nella vecchia Bologna – 1 dicembre 2011)

«Giancarlo mi ferma sotto il portico: “Tu che hai studiato, perché l’infamia del debito e della caduta dell’euro, come ha detto Monti, dipende dalla mia pensione, che colpa ne ho?”

Giancarlo ha lavorato in Germania e Francia, operaio migrante per una vita, poi è tornato in Italia e si è comperato un piccolo appartamento in una stabile di questa strada dentro mura, due stanze e un bugigattolo, come lo chiama, per i nipoti quando vengono a trovarlo. Non ha la macchina, lui e sua moglie non vanno mai in vacanza e nemmeno al ristorante, ogni tanto il lusso di un trancio di pizza al taglio comperato dal pizzaiolo egiziano sotto casa. E poi dice anche che “la mia pensione impedisce di dare lavoro ai giovani, che con la mia pensione rubo il loro pane, che rovino il futuro dei miei nipoti. A me un paere ad dvintè matt, a me pare di diventare matto”, Giancarlo parla in dialetto, come tutti sotto questi portici compresi gli studenti calabresi e il pizzaiolo egiziano…».

Siamo tutti Bartleby (da un articolo scritto il 27 gennaio 2013 per lo sgombero di un centro sociale a Bologna)

«Per un momento ho pensato a un impazzimento del potere, che come è noto non ama l’autorganizzazione né tantomeno l’autogestione dal basso, insomma mi è venuto in mente che l’autorità accademica e cittadina fosse andata out of jail, fuori dai gangheri (Shakespeare), o fuori dai coppi come si dice a Bologna. Dopo è arrivata la pezza, peggiore del buco: la lettera di una cinquantina di docenti. La lettera è strutturata in tre parti. Nella prima si parla di “toni minacciosi e a tratti apertamente violenti con cui il collettivo aggredisce” l’ateneo e il suo rettore, e siamo ai fantasmi con un buon tasso di delirio. Nella seconda si rincara la dose con “l’evocazione” del “sangue” e della “guerra”, invitando tutti i lavoratori dell’università a non manifestare alcun ascolto né solidarietà nei confronti di Bartleby, e siamo al surrealismo con un pizzico di “intimidazione” sotto traccia. La terza è un capolavoro di ipocrisia viscida, parlando di eccesso di protagonismo che nuocerebbe agli altri studenti e giovani, nonché di pretese eccezionali di Bartleby, non ricevibili in tempi di crisi economica. Intanto notiamo che nella lettera non si fa cenno al nodo in discussione, se il centro culturale Bartleby abbia o no il diritto di esistere e operare nel tessuto del “campus” urbano bolognese. Senza sciogliere questo nodo con un dibattito pubblico e franco in università e in città, si alza soltanto fumo e polvere inquinati e inquinanti. Poi si tratta in tutta evidenza di una lettera che definirei borderline: qualcuno si è sentito troppo solo, esposto non alla “violenza” e “minacce” studentesche, ma probabilmente al biasimo più ampio dentro la comunità universitaria, e quindi ha voluto mettere le mani avanti. Con una acrobazia logica e una inversione temporale, la lettera decodificata ci dice: abbiamo murato il Bartleby perché lì dentro ci sono i “violenti”, che vogliono la “guerra” e lo “scorrere del sangue”, la cultura è un puro pretesto, per di più vogliono essere protagonisti, oibò, questi giovani, che imparino a stare al loro posto, sottomessi come si conviene. Ora, a parte il fatto che le inversioni temporali funzionano solo nella fantascienza, rimane da comprendere perché e come persone dotate di ragione e intelligenza possano sottoscrivere un tale cumulo di proposizioni che violano la logica, il principio di causa e effetto, la causa viene nel tempo prima dell’effetto e non viceversa come i simpatici cinquantadue (52) professori fanno, nonché mi sembra compaia una certa debolezza etica. Per finire, si rimprovera ai giovani Bartleby di usare un linguaggio “violento” e “guerresco”…

Certamente, in filigrana, si intravede la paura di trovarsi di fronte a un nuovo ‘77, una rivolta di massa degli studenti, accentuata dalla crisi economica generale, e dalla specifica crisi culturale, scientifica, di ruolo dell’università. Ma mai come in questo caso la paura è stata cattiva consigliera, perché ha coinvolto nel teatro dell’assurdo e in un abisso di imbecillaggine molti docenti, per altro brave persone intelligenti, di cui alcuni ben conobbero prima il ’68, e poi il ’77, e forse ancora ricordano come ciò che oggi essi scrivono di Bartleby assomigli, per fortuna solo allo stadio iniziale, e quindi si è ancora in tempo per tornare a posizioni più ragionevoli, assomigli dicevo in modo addirittura grottesco a ciò che a quei tempi di loro non ancora professori scrivevano e dicevano giornali e uomini specie del Pci, bugie falsità e calunnie…».

Antigone e la città (un commento in radio ai tempi del sindaco sceriffo Cofferati)

«Banalmente non si capisce come e perché una città opulenta quale Bologna non riesca a mettere mano a situazioni di disagio e povertà circoscritte se non con sfratti, demolizioni, ruspe, confinamenti, eccetera, talché dall’altra parte si è obbligati allo sciopero della fame o allo spettacolo della propria miseria offerto in sacrificio coi pochi oggetti strascinati a terra o infagottati alla bell’e meglio, e altre consimili cose. Nel contempo lavoro e affitti in nero prolificano, il lavoro sottopagato, l’affitto superpagato. E ipotesi o proposte come l’agenzia per la casa tra Comune e Università per calmierare i prezzi e costituire un osservatorio e un aiuto per gli studenti sembrano lontane utopie; anch’esse infernalmente rivoluzionarie?

Le case sono meglio abitate o tenute sbarrate, murate, vuote per anni o decenni in nome della speculazione edilizia?

E l’illegalità di una occupazione di casa è poi molto diversa da quella dell’occupazione di una fabbrica o dall’illegalità dello sciopero in Europa nel 1800 e oggi in Cina?».

Se non ora quando (testo scritto per il manifesto di Bologna città libera il 6 settembre 2012, ma ancora oggi di grande attualità)

«L’umanità si trova di fronte, per la prima volta nella sua evoluzione storica, cioè di cui si ha notizia, a un limite imposto dalla natura. Un limite di spazio, un limite di materie prime, un limite di energia, un limite di aria, acqua, verde, cibo, un limite alla sua espansione, alla sua crescita, alla sua ricchezza, che fino a ieri parevano essere potenzialmente infinite. Stiamo divorando la terra che ci ospita, segando il ramo su cui stiamo seduti. Per di più l’umanità sta scoprendo quanto siano delicati gli equilibri vitali, quello climatico per esempio, o quello tra le speci viventi. Contro questo limite l’umanità può sfracellarsi, in una competizione tanto stupida quanto suicida per spartirsi la miseria, in una concezione insieme autoritaria e claustrofobica. Oppure può tentare di definire una cultura, una antropologia che assuma il limite, il perimetro dei confini etici, produttivi, conoscitivi, eccetera cercando la strada per cui il mondo sia abitabile nella convivenza civile, nella cooperazione, nella libertà. E anche qualunque prospettiva di lotta degli oppressi contro gli oppressori, di emancipazione degli sfruttati, deve fare i conti con questo limite, almeno fin quando non si andrà a passeggio per il cosmo, magari incontro a altre civiltà possibili, che non sembra proprio una prospettiva dietro l’angolo. Si tratta di una scommessa non facile, ma altrimenti rimane soltanto o la fede in un Dio magari in punta di spada oppure l’ultimo ballo sul ponte del Titanic prima che affondi».