Il progetto “L’Orto dei turat – Storia di un’acqua spremuta dalla pietra”, che sarà presentato venerdì sera a Vag61, è un parco culturale/agricolo/ecologico che verrà realizzato a Ugento (prov. Lecce), pubblichiamo l’intervista con Mino Specolizzi ideatore del progetto.
L’Orto dei turat – Storia di un’acqua spremuta dalla pietra
Venerdì 27 a Vag 61, lo spazio autogestito di via Paolo Fabbri 110 a Bologna, nel corso di una serata “salentina” dal titolo “MaralAcquaCiLaTene”, verrà presentato, il Progetto “L’Orto dei turat – Storia di un’acqua spremuta dalla pietra”. Si tratta di un Parco culturale/agricolo/ecologico che verrà realizzato a Ugento (prov. Lecce).
L’orto dei tu’rat, deriva il suo nome dalla componente agricola del contesto in cui si trova, dai requisiti di naturalità e funzionalità ecologica delle sistemazioni e delle attività previste dal progetto e dalla imponente presenza sul sito di strutture in pietra a forma di mezzaluna denominate TU’RAT che hanno una funzione di condensatori di umidità atmosferica. Le “mezzelune fertili” rappresentano un condensato di millenni di fatica e cura del mondo tradotti in forme architettoniche e utilizzando la conoscenza sul ciclo naturale dell’acqua e le sue interazioni con le pietre. Il progetto intende generare spazi dove il confine tra arte, ecologia del paesaggio, biodiversità, identità storica e paesaggistica dei luoghi si fa labile e indistinto.
Mino Specolizzi è l’ideatore di questo progetto. Originario del Salento, venne a Bologna per studiare all’Università. Dopo la laurea si è fermato nella nostra città, dove attualmente vive e lavora. Di idee libertarie, è stato uno dei fondatori di Urupia, la comune libertaria collettivista ed ecologista, fondata nel gennaio del 1995, nei pressi di Brindisi, dai membri di un collettivo anarchico di Lecce e da altri giovani di Berlino.
Da diversi anni sta pensando e studiando a questo progetto delle “mezzelune fertili”, adesso che si comincia a concretizzare, ha deciso che è venuto il momento di farlo conoscere. Con lui ne parliamo in una lunga chiacchierata che sintetizziamo per i lettori e le lettrici di ZIC.
Iniziamo con una frase che sta nel testo di presentazione dell’Orto dei Tu’rat: “C’è uno sguardo che si colloca a mezza via tra l’idea e la sua realizzazione. E’ quello che imprime sulla terra un punto di vista ‘altro’, una capacità magica di mischiare le carte fino a dirsi tra se e sé che qualcosa della propria proiezione sta diventando irreversibile”. Oltre a questo approccio filosofico, come si materializza concretamente il vostro progetto e qual è la storia alla base di questo lungo e intrigante viaggio che avete intrapreso?
“Circa due estati fa, verso la fine delle vacanze, sistemai alcuni blocchi di pietra calcarea in un terreno di mia proprietà in Salento, pensai che in mia assenza sarebbero state quelle pietre a sorvegliare la terra. Mesi dopo, mi fu spiegato che avevo costruito una “costellazione famigliare”.
L’idea di realizzare delle strutture megalitiche che ridessero “identità” ad un terreno arso dal sole e non più coltivato, fu il passo successivo, conoscevo la forma delle strutture e l’uso che ne era stato fatto in tempi molto remoti.
Con la collaborazione di un amico scenografo posizionammo su carta queste enormi mezzelune, già sulla carta era un’idea che muoveva energia come un vulcano in eruzione, non vedevo l’ora di vederle realizzate e di lì a poco presi una grande decisione, invitai lo scenografo a fare un sopralluogo in Salento perché sentisse, insieme a me, forza di quella terra e ne toccasse con i propri sensi gli odori la luce e i colori. Circa due mesi dopo lo invitai nuovamente perché assistesse all’inizio dei lavori di realizzazione. Intanto una banca mi aveva accordato un piccolo finanziamento grazie al quale mi trovai nella condizione di poter realizzare le dodici mezzelune che oggi sono presenti nel parco”.
Dopo di ché, come hai proseguito?
“Terminata la costruzione delle dodici lune ho capito però che da solo non potevo farcela, avevo bisogno della collaborazione di altri e così, grazie al coinvolgimento di alcuni amici tra cui due agronomi, fu messo a punto il progetto di impiantare intorno alle mezze lune un orto botanico la cui funzione principe è quella di dimostrare che è possibile far crescere le piante e gli alberi con il solo ricorso all’approviggionamento piovoso e allo sfruttamento dei venti umidi della costa jonica e le nebbie.
Su questi spunti e riflessioni è nata, all’inizio del 2008, l’associazione culturale “Orto dei tu’rat”, con l’intento di supportare un progetto la cui anima è rappresentata nella scommessa che i venti umidi diventino acqua. L’idea primogenita del progetto trae la sua linea guida da una tecnica idraulica che si perde nella notte dei tempi che in sé precede la stessa presenza dell’uomo sulla terra.
I venti umidi hanno il loro maggior successo durante le stagioni intermedie, quali fine estate autunno/inverno inizio primavera, conoscevamo il loro percorso nel Salento e due sono fondamentali e cioè il Libeccio e lo Scirocco. La forma e l’orientamento delle mezze lune in pietra a secco che avevo realizzato era studiato in modo tale da consentire una raccolta dell’umidità presente in questi venti, in modo tale da attuare un ‘irrigazione senza apporto meccanico e consentire di realizzare un orto botanico con tutte le specie autoctone e naturalizzate del Salento”.
Come sono state realizzate le mezze lune?
“Quando cominciai con il mio amico scenografo a progettare lo scenario dell’orto dei tu’rat sorsero molti dubbi sulla funzionalità delle strutture . Sapevamo che nella costruzione delle mezze lune di pietra, chiamate in arabo Tu’rat, eravamo supportati da secoli e millenni di pratiche di questo tipo ma dovemmo attuare però alcuni studi fatti sulla capacità di alcune pietre di produrre più gocce di rugiada di altre, data la loro conformazione minerale. Una di queste pietre è la “Pietra di Alessano”, tra le prime nella scala dei valori di compattezza subito dopo la pietra di Carrara. Per questo mi recai più volte ad Alessano e parlando con dei contadini della zona, riuscii ad avere tutte le pietre ammucchiate in alcuni campi agli inizi del secolo scorso, che erano quelle rimaste di risulta degli scavi per la realizzazione dell’acquedotto pugliese. Di questo fui molto contento perché anche la realizzazione delle mezzelune rientrava in un contesto di bassissimo impatto ambientale, poiché le pietre non sono state estirpate alla roccia ma solo trasportate a circa trenta chilometri dalle campagne di Alessano alle campagne di Ugento”.
Ti è mai stata rivolta la domanda “perché accumulare tante pietre quando è più semplice fare un pozzo, anche in termini di tempo”?
“Sì, nel corso della costruzione delle mezzelune, una delle domande più frequenti era proprio questa, e denotava un assoluto disinteresse delle persone rispetto ai temi così emergenti che riguardano i grandi i fenomeni della desertificazione, dell’erosione e salinizzazione del suolo.
Ovviamente siamo consapevoli che il nostro progetto non è altro che un pulviscolo nell’immensa mole di interventi che sarebbero necessari per sanare l’attuale situazione ambientale, e di certo non riusciremo a incidere più di tanto sulle problematiche ecologiche generali ma recuperare acqua dai venti e dalle nebbie ed accumularla nel sottosuolo per favorire la crescita degli alberi e piante in terra di Ugento pensiamo che sia possibile ed auspicabile.
Altri popoli del passato sono stati capaci di creare oasi e dare vita a giardini e frutteti in ambienti dove questo appariva impossibile”.
Su cosa si basa il funzionamento dei tu’rat?
“L’Orto dei tu’rat attualmente si stende su un’area di ca 16.000 mq e nel suo piccolo, vorrebbe entrare a far parte di una discussione più ampia sul problema della desertificazione erosione e salinizzazione del suolo.
L’area occidentale del Salento in cui è collocato (Gallipoli, Ugento), è quella che registra i valori annui minimi di pioggia.
I venti predominanti sono quelli caldi: lo Scirocco (da Sud Est), perché proveniente dal Bacino di Levante del Mediterraneo, ed il Libeccio (da Sud Ovest) entrambe carichi di umidità, in particolar modo il secondo che attraversa 550 miglia di mediterraneo.
E’ proprio per catturare e sfruttare al meglio il Libeccio che le “mezzelune fertili” sono state situate a ca 230° a Sud-Ovest.
Le mezzelune, realizzate con pietra a secco senza aggiunta di leganti di nessuna natura,.data la loro forma e il loro orientamento consentono di captare il vapore acqueo contenuto nell’atmosfera.
In sostanza si tratta di un impianto di captazione, condensazione e riutilizzo delle arie umide e delle nebbie per ottenenre il quale è fondamentale il posizionamento di pietre in determinati assi anziché altri, sì da fare in modo che gli accumuli di massi spugnosi assorbano la brina notturna e, per colamento, riforniscano di umidità il terreno.
L’uso di questa tecnica e della concimazione litica fu introdotto già nell’antichità, in maniera generalizzata, in molte zone aride del mondo, quali il deserto israeliano del Negev, i deserti degli Stati Uniti sudoccidentali e le aree secche del Perù, della Cina, dell’Italia di epoca romana della Nuova Zelanda Maori.
I massi che ricoprono il suolo rendono il terreno più umido, riducendo l’evaporazione dovuta al sole e al vento e rompendo la crosta indurita del suolo, che altrimenti lascerebbe scivolare via l’acqua senza trattenerla. La roccia riduce l’escursione diurna della temperatura, perché assorbe il calore solare durante il giorno e lo rilascia di notte, protegge il suolo dall’erosione attutendo l’impatto delle gocce di acqua piovana sul terreno. Infine, i sassi possono anche servire come “fertilizzanti in pillole” a lento rilascio (proprio come le pillole vitaminiche che alcuni di noi prendono a colazione), poiché a volte contengono minerali essenziali che gradatamente si disciolgono e filtrano nel terreno”.
Altre riflessioni intorno al progetto?…
“Noi pensiamo che il nostro progetto possa essere un elemento che qualifichi il terriotorio da un punto di vista paesaggistico e consenta di sviluppare e approfondire quelle tematiche che, a nostro parere, stanno seriamente compromettendo la nostra esistenza.
A questo riguardo ci preme far presente che sul fenomeno della desertificazione ed erosione del suolo, recentemente Jared Diamond ha scritto parole inquietanti, con le quali ha descritto le situazioni da lui analizzate, una delle quali è la desertificazione e la sparizione della civiltà sull’isola di Pasqua (J. Diamond, Collasso, Einaudi Edizioni) e di come le società, di fronte alle grandi sfide climatiche, possano scegliere di vivere odi morire ( che è anche il sottotitolo di un suo libro) .
E’ rispetto a questa questione che ci sembra importante sottolineare che nelle fasce costiere della puglia ed in particolar modo nel Salento si sta determinando una condizione generalizzata di eccessivo sfruttamento della risorsa idrica sotterranea. L’eccessiva estrazione delle acque di falda, provoca la risalita dell’interfaccia tra acqua dolce e acqua salata che, oltre ad innescare processi di contaminazione della falda, determina il degrado e la salinizzazione del suolo, dal momento che le acque emunte vengono utilizzate a scopo irriguo. Questo meccanismo determina una progressiva citotossicità e alterazione nella fisiologia delle colture, incidendo, nel medio e lungo termine, sulla produttività dei suoli”.
Uno dei fattori principali che causano la desertificazione è la deforestazione…
“Sì questo processo provoca la perdita della fertilità del terreno, la riduzione della diversità vegetale ed animale. In Salento, nell’arco Jonico tarantino, questo processo è rilevante e si può constatare nel bilancio idrologico negativo.
Noi riteniamo che il modo in cui noi abbiamo posizionato le pietre dei tu’rat possa avere un ruolo significativo anche rispetto a un’altra analisi fatta da J. Diamond in “Collasso” in cui egli ci spiega che la costruzione ed il trasporto delle enormi sculture da una capo all’altro dell’isola di Pasqua – nei decenni- aveva comportato la deforestazione di vasti boschi millenari i cui tronchi sarebbero serviti a far rotolare le gigantesche sculture alcune alte anche fino a 10 metri e del peso di circa 90 tonnellate.
Il momento di non ritorno fu quando, alla fase di deforestazione apparentemente innocua ne seguirono a catena altre ben più gravi. Intanto gli uccelli migratori non facevano sosta sull’isola per mancanza di un habitat ove depositare le loro uova, la mancanza di ombra faceva sì che il suolo fosse costantemente caldo d’estate e rigidamente ghiacciato d’inverno, i pollini spinti dai venti non trovando barriere frondose ove fermarsi passavano oltre e via dicendo, iniziò così il processo di desertificazione del suolo.
Per correre ai ripari gli ultimi abitanti dell’isola (dopo che si erano già verificati casi di cannibalismo) cominciarono ad accatastare “…grandi massi come barriere di protezione per evitare che i frequenti e forti venti inaridissero le colture. Massi di minori dimensioni erano invece posti a protezione di orti… Vaste aree di terreno venivano in parte ricoperte di sassi disposti a brevi intervalli l’uno dall’altro, in modo che le piante potessero crescervi in mezzo…”.
Per finire, veniamo alla serata di venerdì 27 novembre a Vag 61…
“Intanto il titolo “MaralAcquaCiLaTene” sta a significare, con una specie di scioglilingua, “è amara l’acqua per chi ce l’ha. Si tratta di un non sense tutto salentino (è infatti difficile da comprendere nella traduzione letterale in italiano) che vuole fare beffa dei “pregi degli altri”, Poi la serata inizierà alle 19,30 con la proiezione del documentario “Una goccia tira l’altra – Acqua: bene comune dell’umanità, diritto di tutti” di Elisa Mereghetti, molto di attualità in questo momento per quanto riguarda il tema della privatizzazione dell’acqua. Poi, alle ore 20, ci sarà un dibattito sulla tematica della desertificazione e della proprietà dell’acqua. Alle 21 ci sarà la cena, salentina naturalmente. E si concluderà con un concerto di musica popolare salentina in compagnia del gruppo Maracisente”.