Il lunghissimo corteo dei metalmeccanici vissuto e “ragionato” insieme a due operai della Ducati Motor.
Proviamo, per una volta, a fare il resoconto di un evento importante come lo sciopero generale della FIOM da un punto di vista diverso, quello degli operai.
Ci penseranno già altri a soffermarsi sulle dichiarazioni di questo o quell’esponente politico, a contare quanti fischi ha preso la Camusso per non aver proferito una parola sullo sciopero generale. La segretaria generale della CGIL avrebbe dovuto accorgersi che, tra i trentamila che riempivano la piazza, la stragrande maggioranza “Sciopero Generale” l’aveva gridato in tutti i modi, l’aveva scritto sugli striscioni, sui cartelli, sui volonatini. E che nessuno ci venga a raccontare, come hanno fatto quelli dello staff della leader sindacale, che “erano solo una trentina” e solo studenti. Gli operai della Ferrari, dietro a uno striscione della RSU in cui era rimasta solo la firma della FIOM, mentre FIM e UILM erano state coperte, non si può dire che fossero invisibili e muti. Così come le decine di “scafandali blu notte” della Marcegaglia di Ravenna, uno schieramento metallurgico come si deve dalle cui fila usciva chiara una parola d’ordine: “Sciopero generale subito”.
Del resto, la Camusso avrebbe dovuto sentirli gli applausi scroscianti che la piazza intera ha tributato al segretario dei metalmeccanici, Maurizio Landini, quando, alla fine del suo comizio ha detto: “Non ci fermeremo, continueremo fabbrica per fabbrica, fino a riconquistare un contratto… Credo sia il momento di dire con chiarezza che tutta la Cgil metta in campo lo sciopero generale in tutto il paese, per sconfiggere Confindustria e cambiare governo”.
Detto questo, veniamo al corteo, partito da Porta Saragozza. A farci da guide, due operai della Ducati Motor che, insieme a noi, l’hanno percorso in lungo e in largo.
Si trovavano da soli, perché i loro compagni sono andati, con lo striscione, direttamente in Piazza Maggiore. Non si capacitano della scelta: “Questi fessi hanno deciso di perdersi tutta la bellezza e la vivacità di questo corteo”.
Lo sciopero alla Ducati, questa mattina, è andato bene. La stragrande maggioranza degli operai non è andata in fabbrica, mentre parecchi impiegati sono entrati: “E’ un po’ quello che è successo a Mirafiori col referendum… Chissà perché, pur prendendo degli stipendi non molto diversi dai nostri, delegano completamente la loro condizione lavorativa e i loro diritti all’azienda… e poi c’è questa cosa che si sentono un po’ dei fenomeni perché lavorano nella fabbrica della moto mondiale… e chissà cosa succederà quest’anno che arriva Valentino Rossi”.
Il confronto con la Fiat viene fuori in diverse occasioni: quando si parla della catena di montaggio, delle malattie professionali che spuntano dopo dieci anni di lavoro in linea (tendiniti, tunnel carpale, schiene a pezzi), della ripetitività delle operazioni, delle basse categorie in cui si trovano tutti i montatori; quando si parla dei tempi biblici per un nuovo assunto per passare da precario a tempo indeterminato; quando si parla dell’utilizzo ciclico della cassa integrazione legata alla stagionalità del mercato della moto; quando si parla dell’intenzione della proprietà Ducati di trasferire certe produzioni in Asia, portare lo stabilimento in un’area ad alcuni chilometri da Borgo Panigale e, nel vecchio sito, fare business urbanistico (quanti addetti scompariranno in questa ristrutturazione?).
Ma questi due operai ducatisti sono anche preoccupati per la condizione di tanti loro amici e coetanei, dipendenti di aziende in crisi, che tra qualche mese vedranno cessare la cassa integrazione in deroga e non avranno più uno straccio di reddito.
“La stragrande maggioranza di loro in fabbrica non ci tornerà più e non avrà nessun’altra opportunità lavorativa… Cosa ne sarà del loro futuro?”, si domandano.
“Fin che sei in fabbrica, pur con tutte le contraddizioni che ci sono, pur con tutte le porcherie e le ruffianate che vedi, ti senti vicino a tanti tuoi compagni di lavoro, ma quando sei in cassa ti trovi da solo a ciondolare in giro per tutta la giornata… Non ci vuole niente ad andare fuori di testa… Bisogna trovare qualcosa per dare una risposta collettiva a questa condizione di disagio che coinvolge tanti lavoratori”.
Proseguendo insieme il percorso della manifestazione, abbiamo tutti la sensazione che quello di oggi sia un corteo “molto operaio”, dove i pensionati dello SPI non sono la maggioranza, a differenza di tanti altri cortei sindacali. Non che si abbia nulla contro i “compagni pensionati”, ma è importante che chi viene colpito in prima persona (nelle condizioni di lavoro e nella diminuzione dei diritti) da “accordi in stile Marchionne”, destinati a diffondersi in tante aziende, sia consapevole dell’importanza di dare battaglia e proseguire con la lotta.
Molti che si incontrano vedono il cambiamento di rotta a partire dalla manifestazione del 16 ottobre. Tutti apprezzano la presenza degli studenti, dei precari e dei giovani. I due terzi dei partecipanti al corteo, soprattutto per età, sanno poco o nulla della contrapposizione tra garantiti e non garantiti tirata fuori da Asor Rosa alla fine degli anni settanta. Anche perché c’è una consapevolezza diffusa che oggi di garantito non c’è più nessuno, sia i tempi indeterminati sia quelli determinati, sia i contratti a termine sia quelli a progetto. Per non parlare poi per chi al lavoro ci deve arrivare.
E, allora, sono i nostri due amici della Ducati a dire che ci vorrebbe una forma di garanzia per un reddito minimo a cui tutti dovrebbero avere diritto, a prescindere dalla loro condizione di lavoro o non lavoro.
Proseguendo il nostro camminare/ragionando, si arriva verso la parte finale del corteo. Qui c’è un grande striscione “Uniti contro la crisi” ad aprire questo spezzone della manifestazione. I due compagni della Ducati ci chiedono notizie. Non hanno sentito parlare della due giorni che si è tenuta al Centro Sociale Rivolta di Porto Marghera. Dopo alcune frettolose informazioni date sul campo e sul percorso che questa nuova aggregazione vuole intraprendere. Stimolati, si lasciano andare ad alcune considerazioni: “Contro questa crisi causata dai padroni, contro gli attacchi ai diritti e alle condizioni di vita e di lavoro, contro l’imposizione di sacrifici insopportabili, bisogna attuare forme di resistenza che vadano oltre a quelle che si mettono in campo nei luoghi di lavoro. Va bene il “sindacalismo resistente” della FIOM, contro il nuovo (vecchio) “sindacalismo collaborazionista” di CISL, UIL, UGL, di quelli che dicono “bisogna prendere quello che propongono le aziende, altrimenti se ne vanno… meglio questo che niente”.
La crisi economica travolge tutto questo, agli operai, ai precari, agli studenti rimane il niente e il meno di niente. Questa crisi economica è la prova del fallimento del modello di produzione che ci propone Marchionne, pertanto è venuto il momento di non accantentarsi di gestire socialmente la miseria, in attesa che passi la bufera”.
Se chiediamo quali siano le prospettive che abbiamo di fronte, prontamente uno dei due risponde: “Un tempo queste risposte cercavano di darle i partiti di sinistra, ma adesso, in parlamento o nelle istituzioni chi c’è a rappresentare le istanze degli operai, dei precari, dei disoccupati, dei giovani?
Nessuno, altrimenti non ci sarebbe stato quello squallido allineamento sulle posizioni di Marchionne. Non serve a un cazzo essere antiberlusconiani se poi si sta con l’amministratore delegato della FIAT.
Allora, dobbiamo imboccare tutti insieme un’altra strada, dobbiamo discutere cosa fare e, al tempo stesso, muoverci, lottare. Le forme organizzative le scopriremo insieme, mano a mano che si va avanti”.
Ma avanti come?
“Si può continuare a simpatizzare o mostrare interesse per la FIOM o per un sindacato di base, si può svolgere la propria attività in una associazione, in un gruppo di base, in un comitato o in un centro socialie, ma l’imporante che si cominci a ragionare a partire dalla nostra condizione materiale, ad elaborare un nostro punto di vista su tutte le questioni che ci riguardano direttamente.
La crisi ha fatto alzare la nebbia che aveva coperto i tanti interessi contrapposti su cui si regge questo schifo di società. La ricchezza prodotta col lavoro di milioni di operai dove è finita in questi anni? Nelle tasche dei padroni, negli stipendi d’oro dei super manager, nei forzieri delle banche. Agli operai sono toccate prima le briciole e adesso ci aspetta la miseria. Quello che fa schifo è che tutti chiedono a noi di fare squadra comune per superare la crisi. Ma la crisi è la crisi del loro sistema, il loro modo di accumulare ricchezza sul nostro lavoro ad un certo punto è collassato e noi dovremmo, come caproni senza sale in zucca, accettare di fare ancora sacrifici?”.
Interviene l’altro compagno: “Siamo sicuri che per andare avanti, abbiamo bisogno di manager come Marchionne, di governanti bunga bunga come Berlusconi, di politicanti che fanno politica solo per il loro interesse e quello del gruppo dei loro amici?
Qui a Bologna, hanno fatto molto in fretta a dimenticarsi del caso Delbono, perché forse ce ne sono tanti altri così.
Dobbiamo essere noi a prendere in mano il nostro destino, se lo facciamo uniti è più facile raggiungere un qualche risultato.
Si stanno ribellando in Tunisia, in Egitto, in Albania, prima ci hanno provato in Grecia, in Francia, in Inghilterra.
In Italia, gli studenti hanno cominciato a muoversi, gli operai di Mirafiori e di Pomigliano hanno detto NO, chissà che prima o poi non ci scappi una rivolta anche qui.
E’ stato giusto arrampicarsi sui tetti e sulle gru, perché nessuno ci cagava, ma adesso che siamo sulle strade, restiamoci e facciamoci sentire”.