Culture

I “Rendiconti” del poeta

Questa bellissima intervista fu realizzata, per Zic, da Gilberto Centi, a metà degli anni novanta. Era il mese di settembre e Roberto Roversi aveva deciso di ricominciare le pubblicazioni della rivista “Rendiconti”.

17 Settembre 2012 - 02:54

Gli occhi sono chiari nello studiolo minuscolo che i libri sommergono. Quegli occhi chiari che ne han viste tante, conservano luci d’infanzia…

«Un’infanzia molto solitaria, in ampi spazi. Estati in ville con grandi giardini dove, per accompagnarmi, mi inventavo amici fantastici… Ricordo granai, travi di legno con rumore di topi, un’infinità di carabattole dove andavo a frugare… e la polvere del granaio, il rumore dei cavalli in basso, sul selciato… i rumori li ricordo come sempre percepiti in lontananza… Mio padre era sicuro che avrei fatto il medico come lui e così gli ho dato un gran dolore. Ma non mi pento anche se un poco soffro ancora sapendo quanto ci tenesse. Buona parte della mia prima giovinezza l’ho passata dentro un ambulatorio radiologico… mio padre è stato uno dei primi medici a morire “radioleso”, per ragioni di servizio… Era un eccellente medico, un padre severo. Fu mia madre a comprarmi la prima macchina da scrivere per battere le mie poesiolette, un regalo che mi esaltò… allora non era così facile ricevere una cosa così…»
Lo guardi, questo grande poeta del nostro tempo – e potresti indulgere a una certa oleografia: barba bianca, mani che si muovono vivaci dietro ad una scrivania dove stanno accumulati fascicoli, libri, cataloghi, manoscritti. Una lampada – col paralume – rischiara, proteggendo il raccoglimento. Un superficiale ne trarrebbe impressioni da vecchia istantanea. E invece quest’uomo ha interessi così vasti, sorprendenti…

Conosci i Baldi?
«Oh! Una generazione di eccellenti guidatori di cavalli trottatori… sono contento di poter dire di aver visto, in giovinezza, il mitico fondatore della dinastia…»

Quali sono le giovani promesse italiane nella Formula Uno?
«Ci sono giovani piloti che ammiro per determinare qualità, ma non saprei su chi giurare. Dovessi proprio scegliere… direi Capelli, perché mi sembra che abbia delle qualità importanti per un pilota: il coraggio non scriteriato, l’audacia non immotivata e un’abilità di conduzione legata alla tecnica e al rispetto per il motore».
Ma Roversi ama anche il ciclismo e la scherma: il fioretto in particolare… Naturalmente siamo nella libreria antiquaria “Palmaverde” – e l’occasione dell’incontro nasce dalla nuova serie della rivista Rendiconti che torna a uscire dopo una pausa di 17 anni. Uomo di parte, brusco con gli accomodanti, attento e paziente con i giovani che legge, incontra, esorta di continuo – Roberto Roversi è nato a Bologna nel 1923 ed è anche saggista, drammaturgo, narratore, oltre che grande promotore culturale antagonista. Non ama che si parli troppo di lui.

Hai avuto ottimi rapporti con Elio Vittorini: partecipasti, condividesti l’esperienza del Politecnico?
«No. Ho conosciuto Vittorini e sono entrato in rapporto con lui molto più tardi, dieci anni dopo. Sono stato un lettore del Politecnico, ma non partecipe, anche perché in quel periodo mi affannavo ad affilare qualche piccola spada che avevo in mano, ancora senza molto costrutto».

Officina nacque otto anni dopo la chiusura del Politecnico – nel 1955 – come riflessione culturale che la guerra aveva confuso o spezzato. Nella presentazione del nuovo Rendiconti parli di un nubifragio recente. Discorsi storici?
«Direi di no in quanto le due tragedie sono di grado, tipo e genere molto diversi. Il nubifragio recente è apparentemente meno cruento di quello precedente ma forse complessivamente più devastante: in negativo e in positivo. Devastante perché tende a scancellare tutto con una violenza inaudita, per sostituirlo con altre situazioni culturali e politiche che – almeno nella volontà dei gestori del potere – dovrebbe essere “per sempre”. Un “sempre” storico, seppure non infinito.
Nel ’45 si usciva da una tragedia ma c’erano dei grossi, anche se inquieti, riferimenti ai quali aggrapparsi. C’era del nuovo che emergeva. Ora invece sembra che una serie di situazioni stiano sprofondando: di questo bisogna prendere atto. In questo momento c’è meno possibilità di agganciarsi a qualcosa e perciò c’è sottrazione di volontà, di speranza, di previsione, di problematizzazione… Sembra ci si possa soltanto adeguare a quel che ci è dato, voluto, quotidianamente dal di sopra – come servizio, spettacolo, coinvolgimento. È questa la diversità sostanziale. In questo momento storico, come altri mi sento scampato a un naufragio. Siamo nella condizione di uscirne (sia pure con le difficoltà, le perplessità, gli errori del caso) se la volontà durerà, se le forze resteranno e se questa ricerca di agganci, di addentellati sia pure dispersi, darà qualche frutto. Parlo di persone, idee, libri, voci sparse qua e là. Occorre che ciascuno compia lo sforzo di intrecciare le reti, individuare i lontani, alzare la voce per richiamare quelli che sono assenti – non per indifferenza – ma perché vivono il loro dramma in solitudine, aspettando anche una loro voce. In tutto questo c’è la convinzione di una possibile speranza della ragione se si avrà la pazienza di operare a lungo termine, collegandosi agli altri – non i tutti – ma a quelli che sono nella condizione nostra. Condizione e posizione sicuramente minoritarie, perché gli interessi reali che si hanno, che si cerca di difendere – pur avendo bisogno di essere rinnovati – sono stati sconfitti dalla cultura in atto».
Spesso le parole – rifugge dall’equivoco – prevede le obiezioni. In altra occasione mi ha detto come la sua “intransigenza” sia sostanzialmente rabbia politica. Che nasce dalla convinzione di non aver nulla da insegnare, di voler continuamente imparare. E verificare. Parla… e improvvisamente penso a Umberto Saba. Forse perché anche il grande poeta triestino era un libraio. O perché fu tra i primi a leggere le sue poesie…

Rendiconti nacque nel 1961 in un negozio di via Rizzoli, se non mi sbaglio… qual era l’aria che si respirava in quegl’anni?
«Non era un negozio ma una sorta di curioso e neanche divertente sottoscala, dentro a una vecchia torre incorporata nel palazzo d’angolo tra via Rizzoli e via Indipendenza. Lì era nata anche Officina.
Si respirava un’aria complicata. Positiva e negativa, inquieta e problematica. Era come se soffiasse un vento estivo che sollevava polvere e frammenti abbandonati sulla strada – che entravano un po’ negli occhi. Ma bastava mettersi gli occhiali e il fastidio diminuiva. C’erano molte cose negative: era l’inizio del centro-sinistra. Culturalmente era il momento dell’affermazione e della prevalenza del Gruppo ’63 – un’operazione contro altri, a favore proprio che il Gruppo esercitava in modo intelligente, arrogante, fastidioso ma anche utile. Qualsiasi avanguardia è un po’ complicata… Personalmente ascoltavo con molto interesse, standomene un pochettino alla larga, cercando di assorbire da tutte le parti ciò che mi sembrava utile, anche se quei personaggi non è che mi fossero molto simpatici, tranne alcuni, soprattutto Elio Pagliarani e Giuseppe Guglielmi con i quali ero e resto in ottimi rapporti e che stimo moltissimo».

In quale situazione vi muovevate?
«Eravamo nel dopo-Officina. Sentivo molto che il lavoro di quella rivista era stato giustamente, intelligentemente, provocatoriamente impostato, ma si era sviluppato solo inizialmente. Cioè il lavoro di Officina era stato abbastanza approfondito in genere, parecchio approfondito per alcuni interventi particolari, ma limitato per assenza di sviluppi. Si era concluso e quindi mi aveva lasciato mancante di qualcosa, perché ritenevo – appunto – che non fosse stato concluso il progetto di lavoro al quale ci eravamo dedicati. In quel periodo io ero alla ricerca, per quanto potevo e sapevo (con un indirizzo di autogestione), a… non dico cercare il modo per continuare il lavoro di Officina, ma di portare avanti quella parte del progetto della rivista che mi era più congeniale. Da questa precisa, accentuata insoddisfazione, nacque Rendiconti, durato 17 anni, con rallentamenti, difficoltà economiche di ogni genere: un lavoro che – senza volersi creare meriti eccessivi – è stato anche un po’ nuovo».

La rivista attraversa “indenne” il ’68 ma cessa le pubblicazioni nel ’77: date fortuite? Cosa accadde?
« Rendiconti attraversò quel periodo anche anticipandone la documentazione: in uno dei primi numeri, quasi monografico, si tentò di dare una sorta di mappa dei gruppi extraparlamentari, una ricognizione molto specifica (fatta da mani autorevoli) di un fenomeno che negli anni seguenti acquisterà una drammaticità accentuata e individuabile.
Nel ’77 la rivista ebbe una grossa crisi economica. Da solo non riuscivo più a mandarla avanti. Non volendo sottostare ad altre possibilità, a ricercare altre soluzioni, decisi di non chiudere, ma di sospendere. Riprendiamo oggi con la sensazione come se invece che 17 anni siano passati 17 giorni. E non lo abbiamo fatto come operazione pretestuosa, né narcisista o arrogante, ma di naturale consumo. Lo possiamo fare perché così è: questa sospensione in apnea economica è stata riscattata dalla possibilità realizzata in questi giorni».

Ci vuole un bel coraggio, nella situazione attuale, a proporre una rivista letteraria in generale…
«Questa è una domanda seria che merita una risposta seria. È vero che il cercare di chiarire le ragioni per cui si fa una rivista come Rendiconti, adesso, è già l’inizio di una serie di domande che sono dinanzi a noi. Non giovano a giustificare l’avvio rinnovato di una iniziativa di questo genere ragioni di reinserimento o di piccoli giochetti letterari ai quali non siamo affatto abituati. Cercherò di chiarire il senso specifico di questa domanda nel prossimo intervento che farò nel n. 32 e che avevo già in progetto. Sicuramente la domanda porta a un punto abbastanza nodale, che sembra marginale e che invece è di sostanza. Si può, attraverso il confronto, l’esame della parte della letteratura che ci interessa, fare realmente, senza perdere di intensità, un discorso che scavi nel politico? Che aiuti a progredire nella direzione generale? Che non consenta di disperdersi, di frazionarsi, mettendo delle griglie in questo desiderio di inserirsi nella ricerca di una rinnovata conseguenzialità politica ai giorni nostri? Questa è una delle scommesse che ci stanno davanti. Io penso di sì, anche se non sono convinto fino in fondo perché il discorso è aperto. Lo vedremo nei prossimi numeri, lasciando aperta la problematicità di questa domanda e della mia risposta…»

La rivista, un canale di comunicazione tradizionale…
«Può sembrarlo e può sembrare già datato, sostituito da altri sistemi di comunicazione. Ma all’interno di questo mondo così fortemente scompaginato, in cui le situazioni si radunano e consolidano solamente al vertice, in basso c’è ancora una quantità di buchi-neri, di vuoti che si possono riempire. È operando da questa prospettiva, in questa situazione la possibilità per rendere giustificabile la nuova uscita di Rendiconti.
E ancora: documentare il consenso di una certa area e il desiderio di scontro da parte di altri. Non si vive senza nemici. Uno dei vuoti che più si avverte in giro è questa generalizzazione del consenso seppure mistificato dentro ai mugugni, che non cela nessuno scontro diretto.
Rintracciare, suscitare avversione decisa (risvegliare i leoni perché ci azzannino). Provocare sane, inquiete rabbie per avere degli scontri duri. Perché nella maretta non si vive: ci vuole mare forza dieci per poter navigare nel mare che cerchiamo…»
Altrove – chissà dove – in questo istante si contrattano opinioni. Barellieri senza volto trasportano in ospedale banchieri presi da malore appena pochi istanti prima di finire in prigione.
Altrove – chissà dove – le “manovre economiche” del governo sono colpi di pistola. Cade qualche indigente, qualche basso-salariato. Ma è solo un caso. Pallottole vaganti. E inganni.

La tua scelta di campo contro i grandi monopoli culturali mi sembra si faccia sempre più aspra e proprio in un momento in cui certi valori si fanno impopolari…
«Non ho modificato atteggiamento da trent’anni. La mia posizione è sempre stata abbastanza chiara, determinata dalla valutazione socioculturale del mondo in cui vivo».

Avverti una particolare solitudine?
«Certamente. Mi si domanda perché non partecipo a dibattiti eccetera, credendo che io sia qui rintanato perché sono schivo o solitario. Niente affatto. Non vado “in giro” perché ritengo che il bla-bla contemporaneo sia tale e tanto che aggiungere la mia voce sia assolutamente inutile e per me fastidioso. Si acquietasse tutto, ritornasse un mondo di silenzio dove la parola avesse la possibilità di essere decifrata pazientemente e giustamente… allora sarei il primo a rimettermi in circolazione. Non ho perplessità, né paure di alcun genere. Quando sarà possibile, e io non sarò del tutto rincitrullito, allora anch’io leggerò le mie poesie in pubblico, parteciperò a un onesto dibattito su di un argomento interessante e stimolante. Ora no: me ne sto alla larga dagli ambienti contaminati. Guardo, sono bene informato, seguo tutto, non credo di essere moralmente condizionato da nulla e non dò giudizi morali sulle altrui oneste scelte. Io faccio le mie chiedendo di poterle continuare in questo ambito di ricerca e autogestione».
Ancora, nell’ansia di un cedimento, in-via-del-tutto-eccezionale, più o meno forti gestori di potere tentano di circuirlo. Ancora – nella caccia isterica all’inedito, alla rivelazione-in-esclusiva, s’aggirano segugi attorno alla sua vita: magari per l’originale di una lettera di Pasolini o per architettare rivalse, polemiche antiche e recenti per diversi fronti. Invecchieranno nell’attesa. È che certuni, della scelta roversiana, non riescono proprio a farsene una ragione.
È settembre. Da tutti gli schermi – vestita di nuovo – ancora la stessa canzone.

di Gilberto Centi