Storia e memoria

Cosa è stato l’Autunno Caldo

Articolo di inquadramento storico e politico degli anni della Strage: l’Autunno Caldo della conflittualità operaia. Dallo speciale realizzato da Zic in occasione del trentennale della strage di Piazza Fontana.

10 Dicembre 2009 - 17:06

COS’È STATO L’AUTUNNO CALDO

Quarant’anni di storia, quasi sempre sono un nonnulla, nel caso delle lotte operaie e studentesche della fine degli anni Sessanta, sembra invece di fare riferimento a un secolo lontano. Oggi, parlare degli operai di Marghera e Mirafiori è come interessarsi di preistoria. C’è una rimozione diffusa di quello straordinario periodo di lotta e partecipazione di massa. Provate a parlarne oggi a ragazzi di 20/25 anni: strabuzzano gli occhi non tanto contro i pericoli di un nostalgico retaggio, ma perché pensano che si stia ricordando la discesa dei marziani o degli UFO sulla terra. Un po’ di memoria storica, dunque, non fa di certo male.

QUELL’ESTATE A PORTO MARGHERA

Estate ’68, Petrolchimico di Porto Marghera. Per la prima volta, in questa occasione, un organismo autonomo di base operaio, sufficientemente forte e rappresentativo da guidare una lotta su obiettivi rivendicativi egualitari, impone l’obiettivo di un aumento salariale uguale per tutti: la cifra è di 5000 lire al mese, sotto la voce “premio di produzione”.

La richiesta sembrava scandalosa ai padroni ed alla stampa di destra, ma anche a buona parte dei dirigenti sindacali. Si pensi che, ancora nel marzo 1969, Bruno Trentin, che pure nel sindacato era uno dei più aperti verso i fermenti innovativi provenienti dalla base, in un discorso pronunciato a Rimini, dichiarò che parlare di aumenti salariali uguali per tutti era un’utopia.

Ma questa utopia gli operai del Petrolchimico riuscirono ad imporla prima al sindacato e poi al padrone, e questo ebbe un effetto così forte che solo un anno dopo, nell’autunno del 1969, i metalmeccanici ed i chimici riuscirono ad imporre nella piattaforma contrattuale l’obiettivo salariale egualitario, insieme all’altro grande obiettivo unificante, quello della riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore pagate 48.

Quella stagione di movimento e di lotta che passò alla storia come “autunno caldo degli operai italiani” inizia lì, inizia a Porto Marghera; nell’estate del ’68, perché in quella vertenza gli operai riuscirono ad ottenere un aumento in paga base uguale per tutti.

IL “PARTITO” DI MIRAFIORI

Nella primavera del ’69 dopo un crescendo di vertenze aziendali disseminate in tutt’Italia, esplode la lotta autonoma alla FIAT, che coinvolge molte officine di Mirafiori, e particolarmente le officine delle Carrozzerie.

Intorno alle lotte della FIAT, tra il ’69 ed il ’73, si giocano molte delle questioni essenziali della storia politica di quegli anni.

Con la lotta degli operai FIAT acquista forza di maggioranza un nuovo linguaggio politico, il linguaggio dell’egualitarismo operaio e dell’autonomia degli operai dal dominio.

Più soldi, meno lavoro. Fuori i soldi, per il resto sbrigatevela voi. Aumenti salariali uguali per tutti in paga base. Lotta continua.

Parole semplici che vanno dritte al cuore delle questioni fondamentali: la libertà dal lavoro, la riduzione del tempo di lavoro, l’autonomia della società dal capitale, l’uguaglianza, un’altra idea di ricchezza, fondata sul piacere della socialità e non sulla competizione economica.

Queste parole danno vita al “partito di Mirafiori”, che non è un partito, ma un divenire.

Il movimento degli studenti, soprattutto a Torino, a Roma, e a Padova, percepisce l’importanza della lotta che è iniziata alla FIAT Mirafiori.

“La FIAT è la nostra università”, c’era scritto nel ’68 su un muro dell’università di Roma. La Fiat diventava il centro dell’attenzione di tutti coloro che, con il ’68, avevano cominciato a riconoscersi in un movimento unitario anticapitalista.

LA BATTAGLIA DI CORSO TRAIANO

Quotidianamente veniva distribuito ai cancelli un volantino-giornale, stampato in decine di migliaia di copie, con il titolo Lotta continua. Ma tra i militanti esterni non tardarono a manifestarsi divergenze di stile politico ed agitatorio, e soprattutto divergenze di prospettiva, relative alla concezione dell’organizzazione, ed alla filosofia del rapporto tra lotta di fabbrica e processo rivoluzionario di lungo periodo.

Il momento culminante della lotta giunse a luglio, quando la tensione accumulata in tre mesi di cortei interni alla fabbrica, di assemblee e discussioni, scioperi a singhiozzo e blocchi a scacchiera si concentrò e si scaricò, con una violenza senza precedenti in una giornata di lotta “per la riforma della casa” indetta dal sindacato, che passò alla storia delle lotte operaie come la giornata di Corso Traiano.

E’ il 3 luglio. Il sindacato indice lo sciopero generale per tentare di riconquistare, tramite una scadenza esterna alla fabbrica, il controllo su una classe operaia ormai largamente egemonizzata da posizioni rivoluzionarie. I comizi indetti dal sindacato la mattina vanno quasi tutti deserti. L’assemblea operai-studenti ha deciso di non andarci, e di concentrarsi invece nel pomeriggio, alle 14.30, davanti alla Porta 2, la porta principale di Mirafiori, il punto di incontro di tutti gli operai rivoluzionari. Ma alla porta 2 c’è il questore Voria, un vecchio nemico degli operai di Torino, che guida il battaglione celere giunto da Padova. La polizia carica due volte gli operai davanti ai cancelli, cercando di disperderli. Ma la cosa non riesce; nel giro di mezz’ora il corteo si riforma, ed è forte di dodicimila  operai, che sfilano davanti alle palazzine, e raggiungono Corso Traiano, un viale immenso, assolato, polveroso.

I carabinieri si schierano in mezzo al viale, in fondo, per aspettare con i manganelli sguainati gli operai. Ma gli operai si fermano a metà, formano decine di barricate, incendiano alcuni camion-bisarca pieni di automobili, ed iniziano una battaglia a suon di molotov, sampietrini, che dura fino alle 2 di notte. Ogni casa del quartiere, ogni cortile, ogni magazzino, garage, diventa un luogo in cui si organizza la resistenza operaia.

Il giorno dopo il governo Rumor cade davanti alle Camere. Singolare coincidenza o forse no. La lotta operaia, lungi dall’essere rinchiusa nei limiti dell’economicismo, assumeva potenza di sovversione politica radicale.

Il 27 e 28 luglio, su appello dell’assemblea operai- studenti di Torino, che aveva svolto un ruolo importante nella lotta FIAT, si riuniscono a Torino, al Palazzo dello Sport, i comitati di lotta di Milano, del Veneto, di Roma, ed i gruppi di studenti e di militanti di Bologna, Firenze, Padova e di altre città.

GLI SCIOPERI DEI METALMECCANICI

Ritornati dalle brevi ferie; gli operai di Mirafiori riprendono le agitazioni, e la direzione mette in libertà (cioè sospende) circa seimila dipendenti. Nei primi giorni di settembre l’esplosione sembra prossima. La mediazione sindacale sembra molto debole, e lo scontro rischia di vedere operai e padronato direttamente a confronto.

Il 5 settembre la direzione FIAT ritira le sospensioni. E’ un gesto di buona volontà finalizzato a restituire credibilità al sindacato ed alla mediazione politica esercitata dal Ministero del Lavoro. Il giorno seguente iniziano gli scioperi per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Chi gestirà queste lotte? Gli operai autonomi o sindacati? Fin dall’inizio è chiaro che gran parte della partita si gioca alla FIAT di Torino.

I sindacati si presentano a questo appuntamento con la forza che viene dalla presenza in tutte le fabbriche del paese, da una rete di collegamenti tra una fabbrica e l’altra, tra una città e l’altra; dalla delega formale, dall’apparato di funzionari permanenti. Gli operai della FIAT, che si sono organizzati nella assemblea autonoma durante i mesi della primavera ed autunno non hanno niente di tutto ciò. Nessuna organizzazione formale, nessun collegamento stabile, nessun appoggio esterno, se non i gruppi che si sono costituiti proprio in questo periodo. Ed i gruppi, particolarmente Lotta continua e Potere operaio, giocano, in questa fase, un ruolo di coordinamento fra le avanguardie operaie, senza generalmente svolgere un ruolo di direzione e di indicazione che vada al di là del coordinamento.

Sarà solo dopo l’autunno caldo, dopo la conclusione di quella ondata di lotte, dopo la Strage di Stato, che, con un processo di autolegittimazione discutibile, i gruppi si definiranno come organizzazioni politiche con vocazione di direzione esterna della lotta di classe. Ma per il momento, la funzione dei gruppi è strettamente legata al ruolo di coordinamento delle avanguardie operaie che la lotta ha espresso al di fuori dei sindacati.

Per questo, nel periodo delle lotte contrattuali, uno dei principali temi di contrapposizione e di discussione è costituito dalla questione dei delegati. Istituendo la figura del delegato, il sindacato punta a riqualificare la sua organizzazione e la sua presenza in fabbrica, legando questa presenza non più al funzionario esterno, ma al delegato, un operaio eletto direttamente dal suo reparto, che rappresenta in modo diretto la realtà della sua squadra e della sua officina.

Il sindacato comincia a trasformarsi in seguito ai mutamenti che sono avvenuti nella composizione di classe dal ’68 al ’69; ma in questa trasformazione agiscono naturalmente diverse motivazioni: una motivazione è rendere più agile e democratico il sindacato, e fornire alla classe operaia strumenti di organizzazione più immediati ed informativamente più ricchi.

Allo stesso tempo, però, agisce la motivazione di riconquistare tramite i delegati un controllo sulla base operaia che i vertici sindacali hanno perduto, per poter poi ricostituire l’obbedienza alla linea politica dei vertici sindacali.

La minoranza “estremista” di fabbrica, e i gruppi Lotta continua e Potere operaio si lanciano in un attacco contro la figura del delegato, accentuando in modo esasperato la sua funzione di controllo.

“PIU’ SOLDI MENO LAVORO”

E’ nel vivo della lotta di questa primavera che si affaccia a Mirafiori, e più precisamente all’officina 13 la figura del delegato, innanzitutto come delegato di squadra, eletto dagli operai in lotta senza la formalità della scheda, scegliendo semplicemente il compagno più combattivo. Il pieno di democrazia è totale, tanto che alcuni, presi dall’euforia, parlano di una prima forma di organizzazione controllata unicamente dagli operai. E’ fuor di dubbio che il delegato e l’autolimitazione della produzione nei vari reparti costituiscono all’inizio delle lotte di questo anno alla FIAT un forte elemento propulsore nelle lotte, perché sembrano intaccare il potere di controllo del padrone in fabbrica.

Senonché, è proprio all’interno delle lotte e particolarmente quando si scatena la lotta continua operaia che il delegato rivela i suoi limiti.

Una prima frattura avviene sulla parola d’ordine dell’autolimitazione della produzione per cui con un minimo di perdita di salario si procura un massimo di danno alla produzione. Una formula che ricalca quella con cui gli operai hanno lanciato i loro scioperi autonomi concentrati in un punto nodale di Mirafiori. Ma con questa sostanziale differenza: negli scioperi autonomi, il minimo di danno per gli operai consiste nella perdita di salario per una esigua minoranza dei lavoratori, dato che lo sciopero si sposta qui e là. Mentre con l’autolimitazione si propone agli operai di perdere d’ora in avanti 10 o 15 mila lire al mese rallentando la produzione. Il delegato dovrebbe appunto controllare questa retromarcia della produzione. Ma agli operai, che a giugno hanno iniziato il processo di lotta continua in tutto il ciclo, non gliene frega niente di far perdere miliardi al padrone, ciò che gli importa è avere più soldi per sé. Più soldi e meno lavoro, non meno lavoro meno soldi.

Ma non è che l’inizio. L’organizzazione dei delegati viene proposta ancora reparto per reparto, con il compito di proporre la rotazione di tutti gli operai nella mansione di capomacchine, al fine di ridurre e controllare i ritmi di produzione. E inoltre partendo dal principio per cui nessuno sa meglio degli operai chi merita (sic) il passaggio di categoria, si arriva a sostenere che l’assemblea di reparto convocata dal delegato deve decidere sui passaggi di categoria, e non solo il padrone.

“SIAMO TUTTI DELEGATI”

Per quanto la figura del delegato contenesse, come abbiamo visto un elemento di forte ambiguità, la parola d’ordine “siamo tutti delegati”, lanciata dai militanti e dagli operai legati a Lotta continua, pur essendo carica di un significato di rottura radicale verso l’organizzazione capitalistica del lavoro, e verso la subordinazione del salario alla produttività ed al merito, rimane debole, ambigua, in una prospettiva organizzativa generale.

Per questo la parola d’ordine “siamo tutti delegati” portò, poco alla volta, le avanguardie operaie autonome ad una posizione di minoranza, e portò i gruppi di militanti esterni alla fabbrica a perdere il mordente che avevano avuto nella fase iniziale delle lotte, quando si trattava di proporre i contenuti, e non le linee di gestione del movimento.

L’OCCUPAZIONE DI MIRAFIORI

La parola d’ordine “siamo tutti delegati” riuscì a conquistare un ascolto, un interesse, ma non a costituire un’alternativa organizzativa rispetto alla ricostruzione dal basso del sindacato.

Questa contrapposizione non fu lineare, né priva di contraddizioni. Fabbrica per fabbrica, la battaglia fra organizzazione rivoluzionaria di base e rifondazione consiliare del sindacato si intrecciò, nell’autunno e poi nell’anno seguente, con l’altra battaglia, quella principale, contro il padronato e contro lo stato capitalistico.

Ed un momento essenziale di questa battaglia fu costituito dalla occupazione della FIAT, nel corso della lotta contrattuale.

Così scrive Guido Viale, nel suo libro Sessantotto: “Se gli operai della FIAT non apprezzano gli scioperi esterni, è perché essi non danno loro forza, ma li indeboliscono, gli rubano salario, gli impediscono di organizzarsi, lasciano le decisioni in mano ad altri. Vogliono lo sciopero interno. I sindacalisti ripetono che gli operai non sono maturi per farlo. Come se in primavera non avessero dimostrato il contrario. In realtà i sindacalisti ne hanno paura. Ma il timore che lo sciopero interno parta autonomamente è troppo forte. Dopo qualche settimana sono costretti a dichiararlo. Poi gli operai impongono lo sciopero a scacchiera. Il 10 ottobre, si arriva all’occupazione autonoma di Mirafiori. Al mattino gli operai della Lancia e di altre fabbriche invadono gli uffici e fanno piazza pulita degli impiegati, e dei dirigenti. La palazzina degli uffici di Mirafiori viene cinta d’assedio nonostante il pompieraggio sindacale. Poi gli operai si spargono nei piazzali, bollando e rovesciando le automobili in sosta degli impiegati, e quelle pronte per la spedizione. Davanti ai cancelli la polizia carica i picchetti e spara lacrimogeni dentro le finestre dei capannoni. L’Unione industriale di Torino minaccia la serrata in tutte le fabbriche della città… Gli operai di Mirafiori si riuniscono in assemblea e decidono l’occupazione. Vengono alzate le bandiere rosse sui cancelli. Si chiudono in fabbrica, mentre all’esterno accorre tutto il mondo politico della città: dai notabili e dai partigiani del PCI agli esponenti dei gruppi estremisti emarginati dall’assemblea operai studenti, per fare i pompieri. A occupare sono in migliaia, ma poco per volta se ne escono. Resteranno in trecento all’entrata del turno del mattino”. (G. Viale: Sessantotto, cit. pag. 101).

Questa, dell’occupazione di Mirafiori è la prima e forse la più grossa iniziativa autonoma di lotta generale presa da strutture organizzate esterne al sindacato, nel corso dell’autunno. Ma è una prova contraddittoria: essa mostra che le parole d’ordine più radicali hanno un seguito consistente nelle grandi fabbriche, ma che questo seguito non si consolida organizzativamente.

NO AL CONTRATTO BIDONE

Il 7 novembre viene firmato il primo contratto di una delle categorie in lotta: gli edili. Questa categoria non aveva certo la forza organizzativa dei metalmeccanici, né la chiarezza politica e la radicalità dei settori più avanzati del movimento operaio. La piattaforma contrattuale degli edili, inoltre, era considerevolmente più arretrata. Prevedibile perciò che la conclusione fosse insoddisfacente, dal punto di vista dei settori più avanzati.

“No al contratto bidone”, scrivono sui volantini i militanti dei gruppi.

E gran parte degli operai metalmeccanici sentono la firma del contratto degli edili viene vista come la rottura del fronte di lotta.

Per gli operai autonomi e per i militanti dei gruppi, le lotte contrattuali dovevano essere l’inizio di una lotta politica per il potere operaio in fabbrica, mentre per il sindacato, ed anche per la maggioranza degli operai (ma questo non ci porti a sottovalutare l’importanza che in quegli anni aveva la minoranza rivoluzionaria tra gli operai, anche quella non organizzata) si trattava invece di un momento di lotta rivendicativa, carica di elementi di innovazione, certo, ma tutta riconducibile ad un progetto di consolidamento del potere sindacale nelle fabbriche e nella società. Quando il sindacato parla della novità politica delle lotte d’autunno parla essenzialmente di una concezione più democratica dell’organizzazione operaia e sindacale, di un maggior potere contrattuale nei rapporti col padronato, di una maggiore presenza delle organizzazioni operaie in fabbrica.

Mentre per la componente rivoluzionaria in quegli anni si trattava di mantenere aperta la lotta di fabbrica fino a farla diventare lotta sociale generale contro il potere capitalistico e contro lo stato. Secondo questa posizione, che in quel momento aveva un seguito di massa rilevante, seppure non maggioritario, nella lotta operaia è presente, in maniera immediata, un carattere anticapitalistico che il sindacato rimuove, contrattualizzandolo, ed il sistema politico riassorbe, cercando di istituzionalizzarlo nelle forme della rappresentanza formale.

LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA

I metalmeccanici, punta di diamante dell’agitazione, restano in lotta fino al mese di dicembre. Ed è a dicembre che, con le bombe di Piazza Fontana e l’assassinio del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, il carattere politico dello scontro in atto nel paese emerge con prepotenza.

Purtroppo, le bombe di Piazza Fontana portarono lo scontro – che fino a quel momento era stato radicale nei contenuti, ma generalmente rispettoso delle regole della convivenza sociale – oltre il limite di quelle regole, e diedero la parola alla violenza, bruta, all’aggressione fisica. L’iniziativa di far precipitare lo scontro sociale, e di trasferirlo, dal terreno del confronto radicale ma non violento, al terreno della violenza assassina, fu presa da settori dello Stato, da una componente del potere.

Non è qui il luogo di riaprire il capitolo sulla Strage di Stato. E’ verità storica ormai acquisita che i responsabili di quella precipitazione (che sta all’origine di un imbarbarimento del confronto politico, che progressivamente coinvolse settori sempre più ampi della società italiana) appartenevano a settori dello stato.

I servizi segreti, fascisti assoldati dagli apparati di stato e nazisti ispirati soltanto dal fanatismo, ed anche settori delle forze di polizia e settori del partito della Democrazia cristiana, furono all’origine di quel crimine, e della precipitazione che esso determinò nella psicologia e nel comportamento sociale.

Il 12 dicembre, dopo lo scoppio delle bombe di piazza Fontana, che uccisero quattordici persone innocenti, i giornali ed il sistema politico si scatenarono contro gli estremisti, contro le iniziative di lotta incontrollate. Si guardò alle lotte operaie come se fossero in qualche modo responsabili dell’evento delittuoso. La lotta operaia andava fermata prima di poter dilagare dappertutto.

Sulle colonne del Giorno, su cui scriveva a quell’epoca, Giorgio Bocca parlò per tutti, scrivendo: “si vorrebbe dire ai sindacati ed alle aziende che credono nella democrazia: signori, fate presto a concludere”. Da queste parole possiamo intendere che chi aveva messo le bombe aveva ottenuto il suo scopo: mettere un freno al movimento operaio, alla sua ricerca politica di massa, al suo egualitarismo.

Il 21 dicembre venne firmato il contratto dei metalmeccanici privati.

L’autunno caldo era terminato. Ma la chiusura dell’autunno caldo non chiuse assolutamente le lotte operaie nelle grandi fabbriche. Anzi, nel 1970 inizia un periodo molto lungo di conflittualità diffusa, nella quale prendono corpo da un lato il sindacato dei consigli, dall’altro le organizzazioni autonome degli operai.

> Gli altri articoli dello speciale