Editoriale

Trasformare via Borgolocchi in un luogo liberato dagli orrori del fascismo

Lo stabile ex militare, ora occupazione abitativa, tra il ’43 e il ’45 fu luogo deputato a torture e uccisioni sommarie di partigiani e antifascisti: sarebbe un segnale importante se fosse destinato a finalità sociali.

04 Maggio 2023 - 14:58
Questa targa era stata affissa all’interno della caserma Masini nel 2013, quando era occupata da Làbas

Le conseguenze della guerra ad alta intensità che il governo Meloni ha lanciato alle donne e agli uomini migranti si sono cominciate a vedere in città, le misure varate con il decreto Cutro sono tese a colpire l’esistenza quotidiana di tante persone, aggravando le loro condizioni di vita e innalzando muri sempre meno metaforici per impedire l’accesso ai diritti di base a coloro che provengono dai paesi del Sud del mondo. La risposta istituzionale al sovraffollamento del Cas di via Mattei è stata la predisposizione di una tendopoli, sullo stile del campo profughi, dove collocare i migranti appena arrivati nel nostro territorio.

Per fortuna, in queste settimane si sono viste in città alcune folate di “aria fresca”: le occupazioni di Vivaia, dell’area “cantierizzabile” di via Agucchi che purtroppo ha visto lo sgombero proprio ieri, dell’Hub di Organizzazione Meticcia di via Borgolocchi, il “Radical housing project” di via Raimondi. Insieme alle occupazioni di diverse scuole medie superiori, hanno dato una bella spinta nel riempire, in alcuni momenti di protesta, le strade e le piazze della nostra città di decine di migliaia di ragazze e ragazzi.

Vogliamo qui focalizzare la nostra attenzione soprattutto sull’occupazione dell’immobile di via Borgolocchi, perché le motivazioni di questa azione di lotta promossa dal Collettivo LUnA e dallo Sportello per il diritto all’abitare, insieme a quella di Plat in Bolognina, hanno al centro la questione abitativa. Un dramma sociale per tante e tanti, spaventoso per chi vive una condizione di precarietà, irrisolvibile per chi come le persone migranti subisce una crescente esclusione dalla possibilità di accesso alla casa e a una piena cittadinanza.

Ma c’è una ragione in più per parlare di via Borgolocchi, ed è una ragione storica, legata alla necessità di ribadire il valore dell’antifascismo, contro i tentativi sempre più frequenti di riscrivere la storia dei movimenti sociali e di liberazione di questo paese.

Durante la lotta di liberazione a Bologna due postacci deputati a torture e uccisioni sommarie di partigiani e antifascisti furono le caserme della Gnr (Guardia Nazionale Repubblicana, la milizia della Repubblica di Salò) di via Borgolocchi e di via del Piombo. Qui seviziatori come il colonnello Angelo Serantini (capo delle Brigate Nere e dell’Upi), il capitano Pifferi, i commissari Monti e Berti, facevano bastonare i prigionieri, li legavano alle sedie con catene di ferro, gli mettevano maschere antigas col tappo chiuso, li facevano sedere su fornelli accesi e inscenavano finte fucilazioni.

Alla faccia di quelli che, da Violante in poi, fino ad arrivare a La Russa, vorrebbero mettere sullo stesso piano repubblichini e partigiani, vogliamo raccontare alcuni episodi che avvennero tra le mura della caserma di via Borgolocchi.

Nel mese di settembre del 1944, Massenzo Masia (il comandante Max), uno dei fondatori della Brigata Università di Giustizia e Libertà, venne arrestato e finì nel famigerato presidio delle brigate nere di via Borgolocchi. Qui venne sottoposto a feroci torture, ma non fece nomi e non tradì la Resistenza. Cercò anche di suicidarsi, ma glielo impedirono. Al processo ci arrivò con le gambe spezzate. Il tribunale speciale lo condannò alla fucilazione: la sentenza fu eseguita al poligono di tiro di via Agucchi il 23 settembre 1944.

Un altro episodio riguarda Giovanni Martini (nome di battaglia Paolo), uno dei fondatori della 7a Brigata Garibaldi GAP Gianni, fu tra i partecipanti all’azione al carcere di San Giovanni in Monte del 9 agosto 1944 (dove vennero liberati più di 330 detenuti) e alla battaglia di Porta Lame del 7 novembre 1944. Nei primi giorni del dicembre ’44 fu arrestato per una delazione in un bar di via del Pratello dai militi dell’Ufficio politico della Gnr. Fu portato nella caserma di via Borgolocchi, dove venne interrogato e torturato per giorni. Fu sottoposto ad orribili sevizie: un cerchio di ferro gli venne applicato attorno alla testa e venne stretto a poco a poco per strappargli notizie sulla sua attività partigiana. Martini però resistette e si rifiutò di fornire informazioni. Mentre con un ultimo giro di vite i carnefici gli fracassarono la scatola cranica, le sue labbra si dischiusero e, con tutto l’orgoglio che gli era rimasto in corpo, rispose: «l’idea non si serve con la delazione, ma con il sacrificio». Alla fine venne fucilato e il suo cadavere fu trovato davanti all’ingresso principale del cimitero della Certosa il 15 dicembre 1944.

L’ultima vigliaccata venne perpetrata la sera del 20 aprile 1945, qualche ora prima della liberazione di Bologna e riguardò Sante Vincenzi e Giuseppe Bentivogli. Uno comunista, l’altro socialista, erano due uomini fatti, tra i più grandi d’età in mezzo ai partigiani. La loro scelta di campo antifascista, l’avevano compiuta quando di anni ne avevano ancora pochi e li aveva ficcati in un mare di guai e disavventure: esilio, carcere e confino, tutte cose, però, che per loro valevano la pena. Fatte o subite a sostegno di battaglie durissime e di lotte avvincenti. Per la libertà e per il sole dell’avvenire. Ebbero la malasorte di non riuscirlo mai a vedere quel nuovo orizzonte.

Vincenzi e Bentivogli si erano incontrati in Piazza Trento e Trieste per parlare della sostituzione di un comandante partigiano in una brigata di pianura. Purtroppo, dopo alcuni minuti, giunse una pattuglia di camicie nere e i due partigiani vennero arrestati fra piazza Trento e Trieste e porta Santo Stefano. Da qui vennero tradotti nella caserma di via Borgolocchi dove furono torturati e orribilmente sfigurati. I loro corpi furono abbandonati in una piccola strada vicino alle fabbriche del quartiere Santa Viola.

Finalmente, il 21 aprile 1945, arrivò il giorno della liberazione. Nella notte del 20 aprile i tedeschi se ne andarono da Bologna. I brigatisti neri e tutta l’accozzaglia di squadristi e di criminali di cui erano composte le loro bande, accodandosi ai reparti germanici in ritirata, se la diedero a gambe. La Gnr e le varie squadre speciali si dissolsero in un baleno. Nessuno tra quella gentaglia accennò nemmeno a un tentativo per contrastare l’insurrezione dei partigiani.

La mattina del 21 aprile i ribelli della Prima Brigata Garibaldi “Irma Bandiera”, che si era costituita nel nome di “Mimma” nell’estate precedente, entrarono nella caserma di via Borgolocchi. Quando arrivarono, i brigatisti neri erano già tutti scappati. I partigiani invasero il cortile di quell’ignobile avamposto fascista, poi entrarono nella sala dove si eseguivano le sevizie e i maltrattamenti: c’era ancora sangue dappertutto. Trovarono, tra gli strumenti di tortura, una fucina da fabbro, una corona per schiacciare le teste, i micidiali manganelli degli squadristi, un po’ ricurvi e con delle grosse borchie appuntite piantate nella parte superiore. C’era di tutto e di più, per fare male a chi finiva sotto interrogatorio.

I partigiani, quella mattina, fecero man bassa di quel macabro bottino. Ognuno si portò via qualche “cimelio”, erano i pezzi di un incubo che stava finalmente svanendo.

Non sarebbe male se in quelle stanze degli orrori, poi utilizzate per altri fini (sempre militari), da anni vuote e abbandonate, a partire dall’occupazione di queste settimane si creasse un meccanismo simile a quello dei “luoghi sequestrati alla mafia” e dati in uso ad associazioni per finalità sociali.

La caserma di via Borgolocchi potrebbe diventare un “luogo liberato dagli orrori del fascismo” per essere utilizzato come spazio di accoglienza, aperto, ospitale e antirazzista.

Al di là delle tante chiacchiere che si fanno su “Bologna città più progressista d’Italia”, su “Bologna antifascista”, ogni tanto dare dei segnali “forti” (anche sul terreno simbolico) di questi tempi non farebbe di certo danni, anzi…