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Speciale / Sante Notarnicola: “Piazza Statuto, dove tutto incominciò” [video]

Il secondo dei quattro articoli dedicati all’autore de “L’anima e il muro”. Nel 1962 la rivolta dei metalmeccanici torinesi: “La rottura con il Pci nacque lì”.

07 Febbraio 2014 - 14:41

Proseguiamo con gli articoli dedicati alla presentazione a Vag61 de “L’anima e il muro”, l’ultima antologia di poesie scritte da Sante Notarnicola. La serata comincia con la lettura di un brano tratto dal suo libro “L’evasione impossibile” (1972), poi ripreso anche da Dario Lanzardo nel 1979 per “La rivolta di piazza Statuto. Torino, luglio 1962”: è la testimonianza su quelle giornate a firma di Sante, all’epoca operaio chimico 25enne, che dopo la lettura del brano ne riprende i contenuti.

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Il brano: “Fu il primo segno di risveglio. E ci chiamarono teppisti”

http://www.leftcom.org/files/styles/galleryformatter_slide/public/1962-07-07-piazza-statuto.jpg“… Cominciai a lavorare sul serio, al mattino mi alzavo alle 5 per il primo turno; oppure rientravo a casa a mezzanotte quando facevo il secondo stanco morto, abbattuto. Al circolo continuavano a rompermi le scatole perché facessi attività di partito. Il Capra ingenuamente arrivava perfino al ricattino involontario: ‘Come, noi ti abbiamo aiutato a trovare un posto, ora datti un po’ da fare’. Così cominciai a lavorare per la cellula, il sindacato, la commissione interna. Ma in modo svogliato. Poi vennero i fatti di Piazza Statuto.

Fu il primo segno del risveglio. Nell’estate del 1962, per la prima volta la base rivoluzionaria scavalcò apertamente il partito, mandò affanculo i vecchi tromboni. La battaglia durò tre giorni e l’Unità ci chiamò teppisti allineandosi coi borghesi. Fu il crollo per molti compagni delle ultime illusioni di un ravvedimento rivoluzionario del Pci. Mi ricordo di Pajetta: era con noi, non sapeva cosa fare, il grande dirigente non era più davanti a un folla entusiasta, ma in mezzo a gente esasperata che gli stava mangiando il piedistallo eretto in tanti anni sul suo passato di combattente. Quando gli arrivò una pietrata, allora si risvegliò mettendosi a sbraitare contro i padroni e gli sbirri, spingendoci all’attacco. Il suo passato di partigiano riemergeva dall’inconscio. Poi, a mente fredda, il giorno dopo, su
l’Unità ci chiamò fascisti! Demmo tante botte in quei giorni e ne prendemmo. Alcuni compagni del gruppo come ‘Piero il tranviere’ erano addirittura arrivati con le pistole. Mi ricordo bene di Adriano in quei giorni, si batteva contro tre o quattro poliziotti per volta.

La delusione più grossa l’avemmo l’ultimo pomeriggio; la polizia, quelle carogne fasciste del battaglione Padova avevano arrestato uno dei nostri più cari compagni della Fgci, Garino. Si era rimasti in pochi, eravamo alla fine; durante una delle ultime cariche Garino si era buttato avanti da solo, contro i plotoni che avanzavano compatti. Lo chiusero in mezzo pestandolo selvaggiamente, cercammo di strapparlo ai poliziotti, ma erano in troppi, ci ritirammo tutti pesti. Poi, la sera, andammo alla festa dell’Unità rionale: cercammo di fare una colletta per Garino e per gli altri. I dirigenti ci aggredirono con aspre critiche dicendo che ci eravamo lasciati trascinare dai fascisti e dai teppisti provocatori. Ricordo quella scena con rabbia e con dolore. C’era la tavolta solita, di ‘capoccia’. Le bottiglie di barbera, gli agnolotti, i salamini caldi: la classica tavola piemontese a cui si riduceva ormai tutta la prassi rivoluzionaria di un partito che aveva innalzato un tempo su tutta la merda fascista e
borghese la bandiera rossa della speranza e della rivolta. Tra un agnolotto e l’altro cu rimproverarono con disprezzo, loro che non si erano mossi dalla botte del vino per tutto il giorno. ‘Se quelli che si sono battuti contro la polizia sono fascisti’, gridammo, ‘siamo
fascisti pure noi!’ ‘Certo che quasi quasi vi siete comportati da teppisti’. Fu la rottura. Prendemmo un tavolo con salamini e vino e bagna cauda e lo sbattemmo in faccia ai dirigenti. E quella sera, per la prima volta fra compagni, finì con altre botte.

Questo episodio mi riempì di disgusto. Per qualche tempo avevo cercato di reinserirmi nell’attività politica e pensavo che la fabbrica me l’avrebbe permesso; forse, pensavo, era stata la mia condizioni di artigiano a farmi vedere le cose in modo estremista e anarcoide. Ma mi accorsi che ormai c’era dappertutto al tendenza al riformismo, al compromesso, anche nella fabbrica; fu un’esperienza nuova, certo, ma alla fine si trasformò in un rafforzamento della convinzone che fosse necessaria veramente l’azione individuale. Dopo piazza Statuto riuscimmo a ritrovarci tutti e tre per una messa a punto delle rispettive intenzioni e dei progetti per il futuro”.

Oggi: “Fu la rottura con il Pci. Noi volevamo la rivoluzione”

http://www.infoaut.org/images/stories/Storiadiclasse/8luglio1962.png“I progetti per il futuro furono che mettemmo su una banda che ebbe una vita molto attiva, ma anche delle grosse contraddizioni. Questa è una storia, ma l’aspetto più importante è che ho sempre ritenuto che il ’68 non fosse altro che una lunga incubazione nata da piazza
Statuto”. Perchè “la rottura con il Pci nasce sicuramente in piazza Statuto nel 1962. Per un casino di militanti a Torino: noi tre poi abbiamo fatto altre cose, ma c’erano molti compagni che rosicavano da anni. L’attacco era soprattutto alla dirigenza, perchè non era chiara. In parte l’avevano anche detto, con l’ottavo Congresso e con la via italiana al socialismo. Però non ci stava bene, soprattutto per la una generazione come la nostra che veniva subito dopo la Resistenza e che ha sempre avuto come riferimento la Resistenza, più che tutto il resto. E com’era finita quella storia, con tutta una serie di atti politici… Insomma ‘Noi vogliamo fare come in Russia’, era la parola d’ordine, ‘vogliamo fare la rivoluzione’. Noi pensavamo che ci fossero tutti gli ingredienti giusti perlomeno per far lievitare un dibattito di quel genere. Ma avevano deciso altro, e la minoranza fu schiacciata”.

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