I siriani, se anche alla fine della guerra civile riusciranno a liberarsi di Assad, dovranno fare i contri con la presenza ormai radicata del movimento fondamentalista. Ripubblichiamo un reportage da Aleppo di Gabriele Del Grande.
Di Gabriele Del Grande da Fortress Europe
ALEPPO – “Polizia di infedeli, aspettate alawiti, veniamo a tagliarvi la gola. Sciiti, veniamo a sgozzarvi!”. A cantare non è un ragazzo siriano. Dall’accento si direbbe un saudita. Barba folta, camicia a quadretti e giacchetta viola. Tiene il microfono davanti alla folla e canta quello che ormai è diventato un tormentone: l’inno contro gli sciiti delle brigate di Al Qaeda in Siria. “Il nostro capo è Bin Laden. Il nostro capo è il mullah Omar. Abbiamo distrutto l’America. Un volo di linea ha ridotto in polvere le torri gemelle!”. È un video girato a Taftanaz, nella provincia di Idlib, e caricato su youtube. Wassim clicca su pausa e mi fa notare un frame dove si leggono slogan di solidarietà con Al Qaeda nel Mali. Poi rimette in play. Intorno al cantante, si vedono decine di ragazzi e ragazzini che sventolano le bandiere nere di Al Qaeda e ripetono in coro gli slogan: “Ci chiamate terroristi, ma così ci fate soltanto onore”. E di nuovo “Vi verremo a sgozzare sciiti, vi taglieremo la gola!”.
C’è una bella differenza tra gli slogan del 2011 del movimento nonviolento siriano e le parole dell’odio che ha infettato la Siria della guerra. Wassim è uno dei pochi attivisti del movimento civile siriano rimasti ad Aleppo. Per un po’ scherza continuando a canticchiare la canzone, poi spegne il computer, accende una sigaretta e si fa serio. “Quando è iniziata la rivoluzione cantavamo ‘Uno, uno, uno. Il popolo siriano è uno’. Oggi è finita. Gli attivisti all’estero ti diranno che non è vero, che la società siriana è moderata e tollerante e che il settarismo, su cui il regime ha puntato tutto per salvarsi, non avrà la meglio. Forse è ancora vero per noi civili, ma non per chi ha preso le armi. Almeno un terzo dei combattenti dell’esercito libero crede di combattere una guerra contro gli alawiti e più in generale contro gli sciiti, complici le alleanze di Bashar con l’Iran e Hezbollah. Sono ragazzi semplici, delle classi povere, non hanno istruzione e le armi gli hanno dato alla testa, sono diventati feroci. Uccidere è diventato banale. Vogliono solo il sangue del nemico”.
È come se il regime avesse acceso una bomba a orologeria. Sin dall’inizio delle proteste, Asad ha giocato a dividere la popolazione, bombardando i quartieri sunniti dai quartieri alawiti e arruolando tra gli alawiti i suoi squadroni della morte. Ed è bastato niente perché tornasse fuori un odio secolare, figlio delle tante guerre del passato tra sunniti e sciiti. E se la guerra settaria rappresenta la deriva di una parte dei ragazzi dell’esercito libero, per le milizie degli islamisti radicali è un ordine, una certezza, una dottrina. Per loro, alawiti e sciiti sono il nemico, sono gli infedeli, sono quelli il cui sangue deve lavare il sangue dei centocinquantamila martiri sunniti, massacrati in questi due anni dalle forze del regime. Lo dicono le loro canzoni. E lo dicono i ragazzi che ci hanno combattuto fianco a fianco.
Abu Abed è uno di loro. Due anni fa era soltanto uno studente di ingegneria con una grandissima passione per il calcio. Alle prime manifestazioni ci andava insieme a Wassim. Poi hanno preso strade diverse. Wassim ha continuato con l’attivismo civile. Abu Abed è passato alle armi. E lo stesso hanno fatto i suoi fratelli. Un’intera famiglia in armi: cinque figli, tutti al fronte. Lui con la sua brigata che ha tirato su con una trentina di amici. Gli altri quattro con le due principali formazioni di Al Qaeda in Siria: due con la al-Dawla al-Islamiya fi al-‘Iraq wa-l-Sham (Stato islamico in Iraq e nella Grande Siria) fedele all’emiro Abu Bakr Al Baghdadi in Iraq, e due con la Jabhat al Nusra (Il fronte della salvezza) comandata da Mohammad Al Julani e fedele ad Ayman Al Zawahiri. In competizione e in conflitto l’una con l’altra, le due formazioni hanno però in comune il progetto di creare un califfato islamico in Siria. Per questo non riconoscono l’autorità dell’opposizione siriana, né tanto meno i vertici dell’Esercito libero, pur collaborando con loro sul terreno in alcune operazioni militari.
Pur essendo forze minoritarie (si stima che insieme non raggiungano il 10% delle forze armate dell’opposizione) i qaedisti in Siria stanno facendo molto parlare di sé per i successi militari ottenuti grazie all’esperienza dei loro veterani di guerra e all’utilizzo di attentatori suicidi contro le postazioni del regime. Tuttavia non c’è dubbio che tra le due, Jabhat al Nusra goda di una maggiore popolarità tra i civili. Sia perché conta tra le sue fila più siriani che stranieri, sia perché vanta una presenza sul territorio fatta di attività sociali e umanitarie, nonché di tribunali islamici che hanno riportato ordine e sicurezza nelle zone che controllano. Al contrario, la Dawla Islamiya è vista con terrore da buona parte dei civili siriani, sia perché è fatta in gran parte di combattenti stranieri che non conoscono il paese, sia per il fanatismo con cui amministra i suoi territori nella città di Raqqa e nelle campagne di Aleppo e Idlib, dove ogni sospetto collaboratore del regime viene ucciso a fil di spada senza il minimo processo.
Abu Abed ha partecipato a molte operazioni militari con gli uomini della Dawla Islamiya: “Sono quasi tutti stranieri, la milizia più importante è quella del Kavkaz, i ceceni, ma giusto una settimana fa si sono ritirati dalla brigata, accusandoli di essere troppo estremisti, e se lo dicono loro! Gli altri sono soprattutto libici, tunisini, algerini, e poi tanti ragazzi dal Pakistan, dall’Australia e dall’Europa. Controllano la zona di frontiera di Atma, da dove fanno entrare clandestinamente le armi e i volontari che arrivano dall’estero. Molti sono bravissimi ragazzi. Vengono qui con l’idea di difendere la comunità sunnita e fare il califfato islamico. Ma in mezzo a loro c’è di tutto. Ho conosciuto un tipo del Daghestan che ha ancora un grosso tatuaggio della croce sull’avambraccio. Mi ha raccontato che un anno fa era per strada a Mosca alcolizzato. Poi ha conosciuto un ceceno, ha smesso di bere, si è convertito ed è venuto qui a combattere. Un altro, un tajiko, un uomo di cinquant’anni, ma gliene dai il doppio, ha iniziato a combattere trent’anni fa, quando aveva soltanto diciannove anni. Trent’anni nel jihad. Te lo immagini? Ha fatto l’Afghanistan, l’Iraq, la Cecenia, la Somalia, e prima di venire qui era in Mali. Con gente così, hanno esperienza militare da vendere. Sono i più forti in battaglia. E poi hanno un sacco di armi, non so da dove gli arrivino tutti quei soldi.”
Tre giovani francesi spiegano perché si sono arruolati con Al Qaeda in Siria (video in francese)
Abu Abed ne parla con il sorriso sulla bocca. Dice di non preoccuparsi, che sono fanatici sì, ma che finirà tutto con la fine del regime. “Noi siriani siamo un popolo moderato. Anche io sono islamista, ma islamista moderato, siamo nel ventunesimo secolo! E poi devi sapere che tanti ragazzi siriani si arruolano nella Dawla Islamiya o nella Jabhat al Nusra solo per avere le armi migliori. Sono i più riforniti, ti pagano pure un minimo di stipendio, sulle 5mila lire (20 euro) al mese. Conosco un gruppo di amici che sta con loro e che poi fuma di nascosto, perché per loro anche le sigarette sono haram. Per tanti siriani questa dell’islamismo è diventata una specie di moda, non ti devi preoccupare”.
Intanto però, in dieci giorni ad Aleppo, Abu Abed ha rifiutato di farmi incontrare i suoi amici della Dawla Islamiya. Per paura che mi potesse succedere qualcosa. “Sono un po’ paranoici. Basta che pensino che sei una spia e ti ammazzano”. I primi ad avere paura di loro sono gli attivisti del movimento civile. Ad Aleppo gli uomini della Dawla Islamiya si vedono poco o niente in giro. Eppure i ragazzi con cui mi muovo hanno continuamente paura. Di essere fermati, di essere arrestati e magari di finire davanti a una corte islamica per il solo sospetto di avere a che fare con il regime, magari soltanto perché sei curdo, cristiano o alawita. E per i traditori c’è soltanto una pena: la morte. E la morte per spada, con il taglio della testa.
All’inizio pensavo che le loro paure fossero esagerate. Ho cambiato idea quando ho visto sbiancare Bushkin, il giorno in cui il nostro taxi è passato davanti a un posto di blocco della Dawla Islamiya. Dieci ragazzi, il volto nascosto dietro ai passamontagna neri e i kalashnikov puntati contro di noi. Il tassista ha rallentato e si è fermato. In macchina è calato il silenzio. Con la bocca asciutta e il cuore in gola, abbiamo visto uno dei miliziani squadrarci lentamente e quindi dare un colpo sul cofano con la mano, facendo cenno all’autista di ripartire. Ci siamo salvati per un pelo. Se ci avessero chiesto i documenti, molto probabilmente ci avrebbero sequestrato e forse ucciso. È già successo a decine di attivisti siriani e centinaia di civili, giustiziati per un sospetto, un’apostasia o l’appartenenza a una minoranza sbagliata. L’ultimo a essere finito nelle loro mani è padre Paolo Dall’Oglio. Nella città di Raqqa, dove ha sede il quartier generale della Dawla Islamiya, sequestri e esecuzioni sono talmente tanti che da mesi le manifestazioni dei cittadini non sono più contro il regime ma contro gli islamisti.
Raqqa, 19/06/13. Familiari dei prigionieri politici manifestano davanti alla sede di Jabhat al Nusra
Ciononostante, tra le brigate dell’esercito libero sembra prevalere un ingiustificato atteggiamento ottimista. Khaled Hayani è un ex pescivendolo. Oggi è a capo della milizia Shuhada Badr. Gira su un suv nero della Bmw rubato in qualche concessionaria di Aleppo. Occhiali da sole Rayban e due pistole ficcate nella cintura. Degli islamisti dice: “Sì i ragazzi a volte esagerano, ma ci stanno dando una grossa mano nei combattimenti grazie ai loro attentati suicidi contro i posti di blocco del regime. Appena finiremo con Asad, penseremo noi a mettergli la testa a posto”.
Intanto però hanno piede libero nel paese. Grazie ai loro attentati suicidi, stanno conquistando molte caserme militari e relative armi e munizioni. E sulle montagne sopra Ladhiqiya sono i principali protagonisti della battaglia più importante. Quella che si combatte nelle regioni costiere degli alawiti, la minoranza a cui appartiene il presidente Bashar, i vertici dell’esercito e buona parte della mafia che ha in mano il paese da 40 anni. Secondo fonti attendibili, ad agosto gli islamisti sono riusciti ad avanzare in alcuni villaggi alawiti e, prima di battere in ritirata, hanno fatto stragi e prigionieri tra i civili, causando almeno un centinaio di vittime. È questa la gente di cui dovrà sbarazzarsi la Siria libera se e quando il regime cadrà. E non tutti sono convinti che sarà così facile.
Bassam è uno di loro. È un signore sulla quarantina, padre di due figli. Porta la mimetica e gli occhiali da lettura. E in tasca ha una penna accanto alla pistola. Fa parte dell’ufficio politico della milizia curda Komala dell’Esercito libero. Da laico nonché ex dirigente del partito comunista siriano, Bassam vede tutti i rischi dell’islamizzazione della rivoluzione. “Eravamo un movimento laico, interconfessionale, democratico, nonviolento. Di quel movimento non c’è rimasto niente. Niente. Migliaia di noi sono stati uccisi nelle manifestazioni, migliaia sono stati arrestati e migliaia sono fuggiti all’estero come rifugiati. Oggi nell’esercito libero i laici non arrivano all’1%. Ma cosa dovevamo fare? Lasciarci ammazzare fino all’ultimo uomo? Andare con le rose contro i carri armati? Hanno massacrato donne, bambini, anziani, non hanno pietà. E cosa pretendete dal popolo! I nostri combattenti sono ragazzi poveri, contadini, non hanno istruzione. E davanti alla ferocia del regime, si aggrappano all’unica ideologia che conoscono: la religione. La Siria per 40 anni è stata tenuta a digiuno da qualsiasi idea politica. L’unica parola per dire quello che stanno facendo è jihad. E questo sia per la forza degli uomini di religione, sia per la debolezza del fronte laico. E questo è quello che mi fa più male.”
Bassam si interrompe per un attimo. Ha un nodo alla gola. Mi guarda con un misto di rabbia e di sconforto. Sa che comunque vada avrà perso. E con gli occhi carichi di lacrime aggiunge: “Il mio destino è scritto. Morirò in battaglia. Forse domani, forse tra un mese. Ma morirò felice, pensando che la mia morte sarà servita a dare un futuro migliore a mio figlio. Invece mio figlio mi tradirà. Sarà solo a piangere sulla mia salma. E succederà che qualche imam andrà a consolarlo e piano piano lo renderà cieco, fino a quando lo convincerà di venire a farsi esplodere in Italia per il bene del mondo. E quando tua figlia morirà nell’attentato, tu non potrai lamentarti con nessuno. Perché gli unici responsabili di questa tragedia siete voi che per due anni siete rimasti immobili di fronte al massacro del nostro popolo, voi che non avete sostenuto il fronte laico e liberale dell’opposizione, voi che avete lasciato che gli unici a prendere il sopravvento fossero gli islamisti radicali e i loro finanziatori occulti”.
Ma come si è arrivati a tutto questo? Abu Faisal ha le idee chiare. Lui è un comandante di una delle più forti brigate dell’esercito libero, la Liwa Tawhid, islamisti moderati finanziati dal Qatar e ben visti dagli americani. Per lui c’è un solo responsabile, ed è il regime. “Per sei mesi, nel 2011, abbiamo manifestato pacificamente, con la polizia che ci sparava addosso. A giugno di quell’anno, il regime ordinò un’amnistia per i prigionieri politici. Sembrava un’apertura, ma di fatto servì a rimettere in libertà centinaia di uomini di Al Qaeda, che il regime aveva manovrato negli anni passati per gli attentati in Iraq. Le loro milizie sono ancora minoritarie, tuttavia in questi due anni sono cresciuti molto. Io mi chiedo chi li finanzi. Mi chiedo se sia un caso che gli arrivano così tanti soldi e così tante armi. Mi chiedo se sia un caso che tra i loro muhajirin la maggior parte siano proprio ceceni, i nemici di Putin. Ne saranno arrivati un migliaio in Siria. Chi li manovra? È lecito chiederselo, dopotutto il regime è il principale beneficiario della loro presenza. Aveva bisogno di un nemico per serrare le fila. Aveva bisogno di un mostro per dire al mondo: o me o loro. E devo dire che ci sta riuscendo abbastanza bene. Perché in questo momento noi non abbiamo la forza per combattere su due fronti. E dobbiamo concentrare i nostri sforzi contro il regime. Ma appena prenderemo Damasco, per forza di cose inizierà una seconda guerra contro di loro. La Siria non sarà mai governata da questi fanatici.”