Opinioni

Si consuma l’ultimo rumore

“Non è in discussione l’inattualità di un contesto di assembramento”, scrive il Cua, ma “rifiutiamo la dicotomia del buoni o cattivi, ligi o irrispettosi, timorati o untori. Piazza Scaravilli è reale e con lei la manifestazione del disagio prodotto dalla pandemia, che non termina col lucido metallo delle transenne, semmai si sposta e acutizza altrove”.

09 Febbraio 2021 - 10:11

di Collettivo universitario autonomo

“Il passato è perso!”. Con queste parole, appena un anno fa, analizzavamo il radicale stravolgimento che stava per investire l’esistenza umana. Dall’intimità delle nostre case alla possibilità di relazione col mondo, siamo stat catapultat in un “presente senza tempo” chiamato pandemia, costrett alla creazione di una nuova e precaria routine capace di sopportare repentine metamorfosi. A Bologna, questa eruzione magmatica ha sicuramente sovrastato le reliquie della vecchia normalità che le si ponevano davanti, scorrendo però in canali di fattura ben più antica rispetto allo scorso marzo, inscrivendosi in tendenze già individuabili nella realtà pre-covid. Anzi, si potrebbe dire che in fin dei conti il virus abbia realizzato i sogni più agognati dalle schiere di benpensanti: una zona universitaria letteralmente spoglia e deserta, snaturata, priva di quel suo calore esuberante, moribonda, in cui ormai il marmo vuoto dei portici riecheggia della socialità che un tempo lo attraversava. Non si può certamente negare quanto la crisi economico-sanitaria abbia influito nella nuova conformazione delle nostre vite, ma bisogna essere sinceri e riconoscere i giusti meriti a tutti gli altri attori – da sempre – in campo nella partita per la città, che con gran ingegno hanno saputo sfruttare al meglio l’occasione fornita dalla tragedia pandemica.

A colpi di burocrazia, le varie amministrazioni sono riuscite ad ottenere il passaggio semantico su cui da tempo lavoravano, ovvero la traslazione da “zona universitaria” (quindi della comunità studentesca con la sua essenza fortemente meticcia) a “zona dell’università” (quindi dell’istituzione in sé e per sé). Una differenza tanto formale quanto sostanziale, capace di fare inaridire quelle strade un tempo rigogliose di vita, fino a renderle calpestabili esclusivamente se necessario, cioè per prendere un libro in prestito, o per studiare in biblioteca, o per andare seguire una lezione in presenza. Un velo intinto di utilitarismo e cloroformio ricopre via Zamboni, preservandone il torpore.

Ed ecco che arriviamo a qualche sera fa, a piazza Scaravilli piena e alle camionette schierate, alla limpida manifestazione di malessere sociale e all’unica volontà di soffocarlo piuttosto che attenuarne i sintomi. La socialità rappresentata da quel quadrato di portici a cielo aperto parla una lingua ormai distante, vive dei ricordi di un’altra Bologna che per quanto ci manchi in maniera viscerale, si rivela assolutamente fuori-tempo.

Crediamo però che quella piazza debba suscitare più domande che giudizi. Al suo interno sono contenuti dodici mesi di non-vita, dodici mesi di reclusione e solitudine, dodici mesi in cui abbiamo naufragato nelle nostre paure. Siamo arrivat allo stremo, mangiat viv dalle conseguenze di una crisi sanitaria senza alcun tipo di aiuto economico, con la gravosa mole di stress dettata dai ritmi universitari. Già Mark Fisher sosteneva che essere giovani equivalesse ad una patologia nell’epoca tardocapitalista, figuriamoci in piena pandemia globale!

La risposta istituzionale non ha tardato ad arrivare, con un suo topos letterario: transenne, multe e militarizzazione. Pur di non affrontare l’attuale smodatezza della socialità per quello che esprime, ovvero malessere e istintuale pretesa di una vita dignitosa soprattutto in uno stato di semi-quarantena, vengono indette crociate idealizzando la movida come fantomatico nemico contemporaneo. Lo abbiamo già espresso chiaramente ma a scanso di equivoci lo ripetiamo, non è messa in discussione l’inattualità di un contesto di assembramento del genere, in un periodo ancora caratterizzato da una così alta percentuale di morti e contagio. Detto questo, dato che di instabilità umana di fronte ad una pestilenza si sta parlando, sul sociale – e non contro il sociale – è necessario agire, nel miglioramento concreto delle condizioni di vita complessive.

Ma non finisce qui: se questura e comune propongono disciplinamento incondizionato, l’università non può essere da meno. In un’intervista rilasciata alla stampa martedì scorso, Mirko Degli Esposti, prorettore vicario dell’UniBo, esplicitava il suo più sincero appoggio verso l’operato delle forze dell’ordine, chiedendo addirittura che si iniziassero a consegnare le generalità delle persone multate all’amministrazione universitaria, così da procedere con delle sospensioni nel caso in cui si trattasse di student. Parole che fanno rabbrividire e disgustare. In nome del codice etico, obbrobrioso testo che sull’altare del prestigio rende lecita qualsiasi forma di sopruso istituzionale, assistiamo ad un rettorato che pretende il ruolo di carnefice nello spettacolo di questa mattanza. Assumendo come orizzonte la formula del “colpevole fino a prova contraria” rinuncia perfino ai panni del giudice, si accinge ad indossare un cappuccio nero di lino e dei guanti in pelle, interpretando a tutti gli effetti la parte del boia.

Insomma, sembra che il ragionamento trasversale delle leadership metropolitane voli sulle ali del celebre monologo firmato Petri-Volonté “L’uso della libertà minaccia da tutte le parti i poteri tradizionali, le autorità costituite. Noi siamo a guardia della legge che vogliamo scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne. La città è malata”. Ci troviamo di fronte al ricatto della doppia pena, in cui l’attuale rettorato ha già mostrato innata dimestichezza negli anni in carica, ma ora più che mai non lasceremo passare alcun tipo di prevaricazione.

Rifiutiamo questa satura dicotomia del buoni o cattivi, ligi o irrispettosi, timorati o untori. Piazza Scaravilli è reale e con lei anche la manifestazione di quel disagio prodotto dalla pandemia, che non termina col lucido metallo delle transenne, semmai si sposta e si acutizza altrove. Disdegniamo ancor di più questo frastuono disciplinare, se a produrlo è proprio quell’amministrazione universitaria che invece di venire incontro alle esigenze della comunità studentesca, ha rincarato la dose di stress esistenziale col perpetuo ricatto dei Cfu e del fuoricorso.

Certamente il passato per come lo conoscevamo è perso, ma pretendiamo che la costruzione del futuro – a partire dall’immediato presente – sia dettata dal raggiungimento del nostro benessere psico-fisico, dalla certezza di una vita degna a prescindere dalle contingenze temporali. Torneremo ad ubriacarci di luna, di vendetta e di guerra.