Attiviste e attiviste Làbas, Aq16 e Tpo dal paese balcanico raccontano le condizioni drammatiche in cui vivono i migranti bloccati fuori dall’Unione: i tentativi di passare diventano “the game”, ma non vince quasi nessuno.
Non c’è spazio per la tua solidarietà
Arriviamo a #Subotica, città serba a pochi chilometri dal confine ungherese, con il bagagliaio pieno di cibo e incontriamo subito un gruppo di ragazzi molto giovani provenienti dal Pakistan, arrivati da un mese in Serbia attraverso la Bulgaria. Ci raccontano come la Bulgaria sia il peggior paese incontrato nel loro viaggio a causa delle violenze e delle intimidazioni subite dalla polizia di frontiera, infatti la loro schiena è ricoperta di ecchimosi e le unghie delle loro mani sono nere e gonfie a causa delle martellate ricevute. Gli diciamo che abbiamo del cibo per loro e ci spostiamo in un parcheggio adiacente alla fabbrica per poterglielo consegnare. La polizia gira spesso intorno al campo, ed è espressamente vietato aiutare in qualsiasi modo i migranti, quindi ci fanno capire di dover agire velocemente. Portiamo riso, latte, biscotti, salviette e acqua all’interno della fabbrica, e ci sediamo intorno al fuoco con loro per una sigaretta e per farci raccontare le loro storie, la situazione del posto in cui vivono e per capire come poter essere utili.
Nonostante il dramma umanitario presente in Serbia, tale da condannare centinaia di persone a rifugiarsi in vecchie fabbriche abbandonate intossicandosi con esalazioni di ogni sorta di veleno per sopravvivere al gelo, il governo ha sancito il totale divieto per le associazioni umanitarie e i gruppi di volontari internazionali di prestare aiuto ai migranti presenti sul territorio. La strategia in Serbia è quella di incanalare il flusso all’interno del sistema dei campi governativi dove è possibile applicare un filtro tra i pochi che potranno entrare in Ungheria (si parla di 10 persone al giorno), coloro che rimarranno in Serbia senza prospettiva a lungo termine e coloro che verranno deportati in Macedonia. Il ricatto è esplicito: o si entra nella detenzione del sistema governativo oppure si è condannati a morire di freddo, di fame o tentando di oltrepassare il confine.
A Subotica chi non accede al campo allestito dal governo si ripara in una ex Fabbrica di mattoni situata ad alcune centinaia di metri dal campo. La polizia si presenta ogni tre giorni con la scusa della proprietà privata del terreno costringendo le persone presenti a scappare e passare la notte nella Jungle.
Ciò che accade alla periferia di questa città è uno scenario che per quanto variabile si ripete costantemente da molti mesi, bisogna trovare il modo per rompere questo loop, non abituarsi alla drammaticità delle condizioni di vita di queste persone e disobbedire alle prescrizioni che caratterizzano i regimi di detenzione richiesti alle frontiere interne ed esterne d’Europa.
Tonight we play the game
La Long House è il più grande campo non governativo presente in Serbia, attualmente vi si riparano dalle 900 alle 1200 persone. Nonostante le sue terribili condizioni è la soluzione migliore per chi arriva a Belgrado e non vuole essere rinchiuso in un centro detentivo, ma programmare il viaggio per raggiungere i confini e provare ad oltrepassarli. Si tratta di un’ex rimessa della stazione ferroviaria composta da diversi edifici lunghi un centinaio di metri. Non ci sono porte o finestre a proteggere i migranti dal freddo e dalla pioggia, e per questo gruppi più o meno grandi di uomini stanziano intorno a dei fuochi accesi. L’odore dei fumi prodotti dalla combustione di materiale di varia natura è davvero molto forte e il fatto che i fuochi vengano accesi in spazi chiusi crea una coltre di nebbia che rende difficile vedere le persone all’interno della struttura. Anche qua incontriamo soltanto maschi e di ogni età, i bambini più piccoli vengono sistemati in alcune tende montate da Medici senza frontiere all’interno del campo.
A Belgrado tutti affrontano una o più frontiere. Lo fanno i migranti che rientrano nella grande area metropolitana (chi per la prima volta e chi dopo aver fallito l’ennesimo tentativo notturno di superare il confine), e lo fanno anche quelle organizzazioni e reti di solidarietà locale coadiuvate da quelle internazionali che disobbediscono al divieto di assistere i migranti fornendo aiuti di ogni tipo. Se per i primi la frontiera è materialmente fatta di acciaio e filo spinato per le realtà sociali che quotidianamente mettono a disposizione competenze e risorse, la frontiera è l’ostruzionismo intrinseco nel sistema normativo che reprime ogni forma di solidarietà non gestita direttamente dal governo. Ciò avviene nei confronti delle realtà locali come Info Park che da due anni ininterrottamente si sposta ed organizza per mantenere in vita uno sportello legale e una scuola di italiano dove i migranti possono sfruttare questi mesi di sosta forzata per imparare il tedesco o l’inglese. Ma la stessa situazione riguarda anche organizzazioni riconosciute come Medici senza frontiere, che ha scelto di mantenere la propria autonomia rispetto al programma governativo e che per questo si è vista ostacolata nel compiere il proprio lavoro attraverso palesi intimidazioni e dinieghi ingiustificati.
In quasi un anno dall’ingresso dei primi occupanti all’interno della Long House il numero dei migranti che hanno qua trovato riparo è cresciuto esponenzialmente e con esso anche il numero di quei collettivi, associazioni, comitati cittadini e organizzazioni che attraverso pratiche e modus operandi differenti lavorano costantemente per mantenere in vita la possibilità per i migranti di non dover pagare con la loro libertà un pasto o una tenda in cui dormire. La Long House rappresenta quindi il cuore di una città che si sta costituendo intorno ad essa, dove le associazioni prendono in affitto spazi dai quali fornire assistenza, i parchi sono centri nei quali ogni sera collettivi e cittadini distribuiscono thè e vestiti, e lungo le strade adiacenti passano le informazioni più importanti per scegliere il confine da raggiungere, per aggiornarsi sulle direttive amministrative e le zone da evitare.
È qua che inizia “the game”, come definito da un gruppo di ragazzi afgani, ovvero raccogliere le informazioni necessarie e gli strumenti indispensabili per avvicinarsi al confine, passare ore nella neve ad aspettare il momento giusto in cui agire e correre più veloci possibili nella jungle, lontani dal muro e finalmente in Europa. In questo ultimo mese pochissime persone sono riuscite ad oltrepassare, la maggior parte viene rispedita indietro e fa ritorno proprio alla Long House di Belgrado, dove si prepara per giocare di nuovo.
Dalla delegazione di attivisti e attiviste di Làbas, Lab Aq16 e Tpo partita dall’Emilia Romagna per raggiungere i migranti bloccati alle porte dell’Europa