Opinioni

Serafino… O’ Piennolo

Serafino D’Onofrio è scomparso a 69 anni dopo una vita tra politica e associazionismo. Un ricordo dedicato a lui e a quella volontà di “sostenere i bisogni dei soggetti sociali più deboli, per via della loro diversità o delle tasche vuote o del colore della pelle”. L’ultimo saluto domani alle 10 nel Pantheon della Certosa.

23 Marzo 2022 - 11:59

di Valerio Monteventi

Quando ho avuto la notizia, mi sono reso conto che Serafino D’Onofrio non c’era più, se n’era andato per sempre. Mi ero preparato al peggio da diverse settimane, quando arrivavano informazioni sempre più brutte, ma, in questi casi, a questo tipo di “peggio” non ci si riesce a preparare. Con Serafino non eravamo diventati amici da sbarbi, le nostre vite, tanto diverse, non si erano mai incrociate per più di trent’anni. Solo in età avanzata, per via di un altezzoso “principe di Bali”, si saldò tra noi una amicizia vera che andò ben oltre i paletti della “temporanea” comune militanza tra i banchi del Consiglio comunale. Il nostro fu un unico “piano quinquennale” di impegno politico per cercare di costruire “un’altra sinistra”, per difendere coi denti e con la ragione la libertà di comportamenti sociali che davano fastidio alle congreghe moralizzatrici di questa città e a coloro che nelle istituzioni le volevano rappresentare. Era il volere interpretare e sostenere i bisogni dei soggetti sociali più deboli, per via della loro diversità o per le loro tasche vuote o per il colore della loro pelle. Era il volere combattere con forza contro una “guerra tra poveri” che le “ruspe cofferatiane” alimentavano anche attraverso insensate campagne.

La stravaganza dell’altra sinistra a Palazzo d’Accursio stava in primo luogo nelle differenze di vita e di sensibilità politica di noi che ne facemmo parte. Una delle poche condizioni imprescindibili che stavano alla base di quella incredibile avventura era il vincolo del sorriso e dell’indispensabile uso dell’ironia. A queste due clausole Serafino aggiungeva la dolcezza che risultò essere un collante straordinario. La sua sintesi politica era molto efficace: “Io sono sempre stato socialista, tu sei sempre stato un comunista con la ‘c’ minuscola, considerato da tutti un estremista di sinistra. La cosa buffa sai qual è? Io, rimanendo praticamente fermo, mi sono visto, in questi anni, sorpassare a destra da una miriade di ‘compagni’. E così, anch’io, a furor di popolo, sono diventato un estremista di sinistra”.

Ci siamo divertiti molto in quegli anni… a prescindere… Serafino riconosceva a quella strana aggregazione che avevamo messo in piedi l’opportunità di avergli fatto vivere un clima da “Amici miei” e certe situazioni che non aveva mai aveva sperimentato in gioventù.

Per dire: dopo il fallimento del progetto di Bologna città libera, che rimase un sogno senza diventare un incubo, io e Serafino scrivemmo insieme “Berretta Rossa”, un libro sulla storia dei centri sociali in città. Peccato che lui, fino a quel momento, non ne avesse mai frequentato uno.

Poi, insieme, incrociammo le nostre scritture anche in “Ballate sediziose”, in cui lui, con alcuni racconti, poté sprigionare quella napoletanità di cui andava fiero. Per esempio, il suo capitolo sui “sette ignoti delle quattro giornate di Napoli” fu emozionante. Ecco come lo cominciò: «Napoli fu la prima città d’Europa a liberarsi da sola dall’occupazione tedesca. L’insurrezione, nata quasi per caso, era cresciuta in modo improvvisato, con uno spirito molto “napoletano”. E i ragazzini ne erano stati i protagonisti. Una città, martoriata dai lutti, dalla miseria e dai bombardamenti, si era sollevata in una guerra di popolo. Alla testa dell’insurrezione, intellettuali liberali, dirigenti del Partito Comunista, socialisti, donne, ufficiali dell’esercito. I veri eroi delle quattro giornate di Napoli furono, però, gli scugnizzi, i figli del sottoproletariato napoletano. I lazzari che, per una volta (dopo aver osteggiato i giacobini nella Repubblica partenopea del 1799), si erano schierati dalla parte giusta. Ragazzi senza famiglia, che si sarebbero trasformati in sciuscià, con l’occupazione anglo-americana. Napoli, con quattro giorni di scontri, guadagnò la Medaglia d’oro al valor militare. Ma gli scugnizzi fecero di più…».

E, sempre nelle “ballate sediziose”, fu la sua napoletanità che mi suggerì un personaggio, “O’ Piennolo”, con cui lo voglio ricordare: «La sua specialità era di diminuire l’importanza e il valore simbolico della rivoluzione. Per questa proprietà particolare era considerato il “principe dei contraltari”. A causa di simili posizioni controcorrente, Salvino Guadagno era stato accusato di essere un seguace del movimento neo-borbonico. Ma lui aspirava semplicemente ad essere un ambasciatore della napoletanità nelle regioni del Nord. Il soprannome di O’ Piennolo che gli avevano affibbiato stava a dimostrare che non era un nostalgico della monarchia borbonica, ma un cabarettista prestato alla narrazione storica, un “arrangiatore prestato al socialismo”: “La democrazia italiana ha le caratteristiche del pomodoro, è complicato coltivarla…”. Fu un suo amico ferroviere della Circumvesuviana a chiamarlo così, a riconoscimento del suo “fascino contro il tempo”, come i pomodorini che si raccolgono alle pendici del Vesuvio in piena estate, si appendono attorcigliati intorno a un filo di canapa, compattati nei grappoli e lasciati sospesi. E lui, orgoglioso dell’appellativo, ribadiva spesso: “Come o’ piennolo, che per vivere non ha bisogno dell’acqua ma del sole… che si raccoglie d’estate ma si consuma, ancora fresco, in autunno e in inverno… io sono un uomo per tutte le stagioni… che, come la pasta, deve essere accarezzato e non strapazzato”».

Ciao Serafino, amico mio.

(foto in pagina: agenzia Dire – www.dire.it)