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Richiedente asilo e invalido, ma niente cure gratuite dal Ssn

La vicenda resa pubblica dal Laboratorio Salute Popolare. Intanto, “che fine hanno fatto le migliaia di ricorsi per la richiesta di asilo bloccati nel Tribunale?”. A chiederlo è il Coordinamento Migranti, che pubblica inoltre il resoconto dell’assemblea del 3 ottobre “rivolta a tutte le donne che lottano contro violenza maschile, razzismo, sfruttamento e povertà”.

12 Ottobre 2020 - 10:24

A raccontare la vicenda è il Laboratorio salute popolare: “Ibrah (nome di fantasia) è un richiedente asilo che in seguito alla scadenza del suo permesso di soggiorno – e all’impossibilità di rinnovarlo durante il lockdown – si è ritrovato preclusa la possibilità di riavere una tessera sanitaria in corso di validità. Ibrah ha subito gravi violenze nel suo paese di origine. Violenze che gli hanno procurato un danno permanente alla gamba destra e che gli compromettono la deambulazione. Ibrah ha chiesto aiuto al Laboratorio di Salute Popolare perchè da solo non riusciva a districarsi nel delirio burocratico necessario per poter chiedere di essere nuovamente iscritti al servizio sanitario nazionale. Insieme a lui anche noi abbiamo fatto un’incredibile fatica, nonostante ciò che chiedessimo non fosse altro che il rispetto di un diritto di Ibrah. Un diritto che la Costituzione descrive come ‘fondamentale’ e ìgratuito’, ma il cui accesso per molti e molte è un percorso ad ostacoli”.

Non è un lieto fine: “Ciò che abbiamo ottenuto – prosegue il racconto – non è affatto una vittoria: superato il primo ostacolo, come molte volte avviene, ci siamo scontrati con quello dopo. Ibrah è stato iscritto al servizio sanitario nazionale, ma non potrà accedere alle cure gratuite. Nonostante si ritrovi senza un lavoro e senza una casa, Ibrah ha già utilizzato i due mesi ‘bonus’ di esenzione ed attualmente, per poterla ottenere nuovamente, dovrebbe dimostrare la sua disoccupazione con un regolare contratto concluso. Un lavoro che a causa di un precario permesso di soggiorno e di un’invalidità che non gli consente di svolgere molte attività non ha mai potuto ottenere, costretto invece a sopravvivere con piccoli lavoretti in nero. Ibrah dunque si ritrova a saltare da una gabbia burocratica all’altra in un sistema che, di fatto, costruisce ostacoli piuttosto che percorsi accessibili e inclusivi di cura. Noi però non ci arrendiamo. Ibrah ha diritto ad essere curato e di poterlo fare in maniera gratuita. L’affermazione del suo diritto è la rivendicazione di un sistema sanitario senza barriere, per e di tutte e tutti”.

“Che fine hanno fatto le migliaia di ricorsi per la richiesta di asilo bloccati nel Tribunale di Bologna?”. A chiederselo è il Coordinamento Migranti: “Se la questura è ancora in lockdown, il tribunale di Bologna non si è certo messo a correre dopo i mesi estivi. Le donne e gli uomini migranti che, dopo il diniego della commissione territoriale, hanno fatto ricorso per l’asilo attendono da più di due anni l’esito senza avere alcuna notizia delle loro pratiche. Per chi è costretto a questa attesa infinita la gabbia dell’accoglienza significa soltanto sfruttamento attraverso contratti di lavoro a giornata, tirocini non pagati o pagati una miseria, oppure lavoro nero. Sempre più imprese, agenzie e cooperative non si accontentano infatti della ricevuta che certifica la domanda di asilo o la richiesta di rinnovo per assumere regolarmente i migranti. Il 17 ottobre manifesteremo in piazza Nettuno a Bologna per chiedere che tutte le domande d’asilo e tutti i ricorsi siano esaminati e accolti in fretta”.

Inoltre, ha avuto luogo il 3 ottobre a Vag61 la prima assemblea pubblica delle donne del Coordinamento Migranti, rivolta “a tutte le donne che vogliono lottare contro la violenza maschile, il razzismo, lo sfruttamento e la povertà”. Di seguito il resoconto dell’incontro: “Donne nigeriane, tunisine, italiane, moldave, senegalesi, curde e sierraleonesi si sono incontrate per proseguire il percorso di lotta nato ormai da mesi. Viviamo condizioni diverse, ma sappiamo che queste condizioni sono legate l’una all’altra, e che per affrontarle abbiamo bisogno di uno spazio collettivo di confronto, di parola e di organizzazione, in un momento in cui la pandemia rischia di rendere le nostre vite ancora più dure e di ridurci al silenzio. Noi questo silenzio non lo possiamo accettare.Essere donne, essere nere, essere migranti, essere povere, essere tutte queste cose insieme rende più difficile lottare, ma lo rende anche essenziale. Che significa però lottare insieme? Come coinvolgere e parlare a tutte quelle donne che non possono partecipare perché il lavoro, il razzismo istituzionale, la famiglia o la paura le rinchiudono? Quando cerchiamo di coinvolgere altre donne, alcune rispondono “non posso parlare, sto aspettando il documento e devo stare buona”; “ora che ho trovato lavoro se mi faccio vedere in pubblico mi possono licenziare”; “se mi vedono protestare perdo il posto nel centro di accoglienza”. Oppure “manifestare non serve, l’ho fatto altre volte e sono ancora qui, mentre mi spacco la schiena facendo tre lavori diversi per sentirmi dire che il mio reddito è troppo basso per rinnovare il permesso o per ottenere la cittadinanza”. Sappiamo che molte donne, migranti e italiane, sono ormai rassegnate a questa normalità, anche se la affrontano e la combattono ogni giorno. Non possiamo negare questa realtà, ma non per questo la vogliamo subire.Affrontare questa realtà significa dare voce a tutte queste condizioni. Significa riconoscere che sono un nostro problema e che se le ignoriamo, se le mettiamo a tacere, non potremo avere la forza di combattere la violenza che ci opprime tutte. Con questo percorso vogliamo raggiungere tutte quelle donne migranti e italiane che non hanno la possibilità di lottare, perché se vogliamo che qualcosa cambi non possiamo più essere divise”.

“Questa assemblea – si legge poi è nata perché in piazza ognuna di noi ha trovato la sua voce nella voce delle altre. Riconoscere questo spazio comune è il primo passo per rifiutare la normalità della violenza e per dare concretezza al nostro femminismo. Per rifiutare le infinite leggi come la Bossi-Fini pensate apposta per logorarci e farci arrendere, che ci impediscono di essere autonome anche se ci spezziamo la schiena per diventarlo. Per non dover più sentire l’avvertimento di un padre che ti dice fin da piccola che in quanto donna, nera e musulmana la tua vita sarà più difficile di quella degli altri. Per rifiutare il razzismo che comincia a scuola e continua quando a 18 anni i nostri figli si ritrovano a dover chiedere il permesso per restare nel loro paese, o rischiano di essere aggrediti e ammazzati per strada. Per rifiutare che come donna sia normale avere un reddito più basso, essere povere. Vogliamo che le parole della nostra lotta esprimano la rabbia di tutte le donne che stanno vivendo “sottoterra”, perché a casa hanno un marito che le opprime, perché a lavoro i padroni le trattano come macchine, perché il permesso di soggiorno le ricatta e mette in pericolo la loro vita, perché il lavoro domestico le confina in casa, perché i turni di lavoro impossibili rendono difficilissimo lottare e anche vivere. La nostra voce collettiva è nelle lotte che ovunque le donne continuano a portare avanti. Abbiamo costruito, insieme a donne e lavoratrici provenienti dall’Est Europa e non solo, la rete E.A.S.T. per connettere le lotte femministe, sul lavoro, nelle case, che in questi mesi sono state la risposta allo sfruttamento e alla gestione razzista e patriarcale della pandemia. In questi mesi molte di noi hanno partecipato con il Coordinamento Migranti al Transnational Migrants Coordination e si sono organizzate anche attraverso i confini. Grazie a questa iniziativa transnazionale la nostra lotta si intreccia a quella delle lavoratrici domestiche migranti che in Spagna lottano contro le misure di confinamento che negano la loro salute e la loro libertà, a quella delle donne e degli uomini curdi che in Turchia stanno portando avanti la battaglia transnazionale contro il razzismo e sfidando la repressione di un governo autoritario e a molte altre lotte che oggi sono unite da un progetto condiviso. Siamo legate a queste lotte e dobbiamo farle vivere in ogni luogo, perché ci danno la forza di sapere che non siamo sole e perché il coraggio si conquista collettivamente. In ogni progetto di vita noi sentiamo il peso della differenza, del colore della nostra pelle, del nostro modo di parlare, del permesso di soggiorno e dei lavori che siamo costrette a fare in quanto donne. È il momento di far sentire il peso della nostra differenza per rovesciare questa situazione. La prima occasione per farlo è la giornata di lotta transnazionale del 17 ottobre per un permesso di soggiorno europeo slegato dal lavoro, dal reddito e dalla famiglia e per la nostra libertà! In quella piazza ci faremo sentire ancora per urlare a gran voce che non c’è libertà possibile per le donne se non combattiamo ogni giorno la violenza razzista e lo sfruttamento che ci opprimono. Questo è il nostro progetto, verso il 17 ottobre e oltre”.