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Quelli che… buttiamo via la chiave / Parte II

Approfondimento realizzato da Zeroincondotta dopo le rivolte che in piena emergenza coronavirus sono scoppiate nelle carceri di tutta Italia, compresa la Dozza di Bologna. In questa seconda parte: quelle 13 morti nel silenzio e la narrazione in coro dei sindacati della Polizia penitenziaria.

24 Marzo 2020 - 14:57

La diffusione drammatica del coronavirus ha investito anche le carceri italiane, sono esplose rivolte sono morti 13 detenuti. L’emergenza sanitaria sortisce l’effetto di rafforzare lo stato d’eccezione, a spese dei più deboli, repressione e contenimento sono ancora la ricetta. L’urgenza di una campagna per l’amnistia, l’indulto e per misure alternative alla detenzione.

Quella che segue è la seconda parte dello speciale realizzato da Zeroincondotta.

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Tredici morti e il silenzio assordante della politica, delle istituzioni e dei media ufficiali

C’è una cosa in più che dimostra come le forze politiche, il governo e tutto il sistema dell’informazione mainstream, per mantenere il consenso politico costruito sul “giustizialismo” di bassa lega, abbiano deciso di abbandonare al proprio destino chi in carcere ci vive. La tragica morte di tredici persone detenute durante i giorni delle proteste è stata volutamente rimossa, coprendola con un silenzio sconcertante.

Tutti coloro che vivono nel carcere, vi lavorano o lo frequentano, i famigliari e in generale la società e la pubblica opinione, avrebbero avuto il diritto di conoscere quello che è successo nei particolari e di essere informati con una certa tempestività.

E invece tutto è passato con una scrollata di spalle, si ha l’impressione che l’opacità, la disinformazione e l’incertezza siano gli approcci con i quali la “società ufficiale” si sia rapportata e continui a confrontarsi con il cosiddetto mondo delle “istituzioni totali”.

E’ miserabile che sia passata come veritiera, senza nessuna richiesta di ragguagli e chiarimenti, la versione ufficiale che ha descritto i tredici sventurati che hanno perso la vita durante le sommosse come soggetti che non hanno avuto altro pensiero se non quello di cercare disperatamente metadone e psicofarmaci e imbottirsene fino a morire. Ci vuole veramente molta “fiducia” per immaginare che nella concitazione, negli scontri, tra gli incendi e le distruzioni, l’unico modo per lasciarci le penne sia la “drammatica conseguenza” dell’overdose.

Se non fosse stato per l’Associazione Yairaiha Onlus che, nel suo profilo Facebook il 19 marzo (dieci giorni dopo i fatti), ha deciso di pubblicare i nomi dei tredici morti, la cappa di silenzio e di “omertà istituzionale” avrebbe già nascosto definitivamente sotto lo zerbino dell’oblio quelli che vengono considerati meno della polvere.

Dice Yairaiha: “Ben undici delle persone decedute erano straniere: nomi e numeri a cui è difficile associare una storia e che un po’ frettolosamente sono state archiviate come decedute a seguito di loro comportamenti. Nessun elemento vi è per sostenere ipotesi diverse da quelle fin qui formulate dalle autorità che indagano, ma colpisce la rapida dimenticanza delle loro storie – a uno mancavano solo alcune settimane prima del termine dell’esecuzione penale – il loro non essere nemmeno menzionate nel riportare gli episodi al Parlamento, il loro essere solo un numero. Tredici, ben superiore anche a eventi drammatici del passato nel periodo di insorgenze carcerarie che si connettevano con una realtà esterna in sommovimento”.

Un numero sconvolgente quel 13, guardando al passato viene in mente solo un altro episodio in qualche misura paragonabile: l’incendio nella sezione femminile del carcere torinese delle Vallette, avvenuto il 3 giugno 1989, nel quale rimasero uccise nove recluse e due vigilatrici. Allora vennero definite “morti per incuria e inefficienza”, perché 300 materassi infiammabili erano stati accatastati sotto le finestre della sezione femminile, perché i soccorsi tardarono, perché nel carcere non esisteva un piano antincendio, e il tentativo di aprire decine di celle era affidato a due sole agenti, che trovarono pure loro la morte.

Ma almeno in quel caso, i media garantirono adeguate informazioni e approfondimenti, si aprirono polemiche, se ne discusse, si lottò per mesi, ma alla fine, con il sostegno dall’avvocata Bianca Guidetti Serra, si arrivò al processo.

Sugli episodi di questi giorni, al contrario, ci si imbatte in un’informazione sbrigativa e superficiale sulle cause e gli accadimenti che hanno provocato quelle morti. Un offuscamento mediatico e politico che non ha nessuna giustificazione, se non il tornaconto politico che il giustizialismo manettaro ha garantito in questi anni.

Se a tutto questo aggiungiamo poi che da anni, parlamentari e consiglieri regionali non svolgono più quella funzione di controllo che gli compete e non entrano quasi mai negli istituti di pena (solo Rita Bernardini del Partito Radicale ed Eleonora Forenza, finché è stata al Parlamento Europeo, hanno molte visite), la pietra tombale sull’universo carcerario ormai è innamovibile.

Se non ci fossero state associazioni e realtà informali, come Yairaiha, Leagal Team, l’Associazione Bianca Guidetti Serra, Osservatorio Repressione (che hanno aperto un indirizzo di posta elettronica emergenzacarcere@gmail.com per ricevere segnalazioni), o come Antigone, Papillon Rebibbia, Ristretti Orizzonti o Movimento Antipenale e varie forme di “solidali”, che hanno raccolto informazioni, preoccupazioni e allarmi di gruppi di famigliari, che hanno sollecitato con appelli e petizioni gli organi istituzionali e i Garanti dei detenuti, che hanno promosso presidi davanti alle carceri, il tutto sarebbe già stato accantonato per il bene supremo della ragione di Stato.

Il 19 marzo l’associazione Antigone, in un comunicato ha dichiarato: “Esprimiamo grande preoccupazione per le numerose segnalazioni di violenze e abusi che sarebbero stati perpetrati ai danni di persone detenute a noi arrivate negli ultimi giorni”.

 

I sindacati della Polizia penitenziaria

Gli agenti della polizia penitenziaria sono sicuramente la categoria con il maggior numero di sindacati che si fanno concorrenza per rappresentarli. Un groviglio di sigle (Sappe, Sinappe, Coisp, Spp, Osapp, Siulp, Fc-Cgil Polizia Penitenziaria, Uilpa, Fns-Cisl Pol.Pen., DirPolPen) che sarebbe giustificato se ogni singola organizzazione rappresentasse posizioni tra loro diverse, sulla vicenda delle rivolte di marzo, invece, se mettessimo comunicati e dichiarazioni in un sacchetto e li estraessimo come per la tombola, sarebbe difficile accreditarli a questa o quella struttura sindacale, perché è come se fossero tutti uguali, non differenziati nemmeno sulle sfumature.

Del resto, sono stati loro l’unica voce che è uscita compatta dall’interno degli Istituti di pena, quella che, nella sostanza, ha scritto la “narrazione ufficiale” delle proteste in carcere, dando una lettura univoca e proponendo una via d’uscita peggiore dell’entrata.

Parlano di “grimaldello usato da certi personaggi per ottenere sconti di pena e provvedimenti di clemenza”, che i “disordini erano facilmente prevedibili e i vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dovevano mettere in atto tutte le misure per impedirli”. Per questo quasi tutti chiedono le dimissioni del capo del Dap Basentini e alcuni anche del ministro Bonafede. E’ per una gestione troppo lasciva che le carceri si sarebbero ritrovate in una situazione di sfascio: “A fronte di un così lampante fallimento delle politiche penitenziarie, improntate esclusivamente sul benessere dei detenuti, viene richiesto un commissariamento urgente del Dap”.

I sindacati rivendicano di aver segnalato prima della sommossa “la totale mancanza di sicurezza”, per via dell’attuale regime di “custodia aperta” che vede i detenuti “liberi di circolare all’interno delle sezioni ormai senza controllo”. Poi ci sono le richieste di amnistia che “hanno avuto l’effetto di buttare benzina sul fuoco, legittimando la diffusione delle rivolte”.

Per esempio, è molto esplicita la leader dell’Associazione nazionale dei dirigenti e funzionari di Polizia penitenziaria nel richiedere “la punizione severa di coloro che stanno fomentando le rivolte e l’interdizione da subito di ogni accesso a esponenti o associazioni che in ragione delle loro campagne storiche di tutela e promozione dei diritti dei detenuti possano vedere la loro voce strumentalizzata da facinorosi e violenti”.

Il segretario generale del Siulp parla di “’rivoluzione orchestrata a tavolino”, con “una logica predeterminata di qualche regista occulto che soffia su un fuoco i cui risvolti non gli sono ben chiari. Si tratta di sommosse attuate ad orologeria e con una sequenza ben definita… La violenza, la premeditazione e la chiara regia unica con cui si stanno consumando questi atti di violenza inaudita, non consentono di arretrare di un solo centimetro perché se così dovesse verificarsi, ci sarebbe la resa dello Stato all’antistato”.

Anche il segretario del Coisp sostiene che “la contemporaneità delle rivolte all’interno delle carceri italiane lascia pensare che ciò a cui stiamo assistendo sia tutt’altro che un fenomeno spontaneo”.

Il segretario dell’Spp sostiene di avere fondato motivo per “ritenere che in caso di ulteriori sommosse si potrebbero aggiungere problemi derivanti da ‘attacchi’ provenienti dal di fuori delle strutture”.

Il Sinappe, invece, in suo comunicato in Lombardia dichiara: “Ancora una volta, mentre gli uomini e le donne della Polizia penitenziaria cercavano di contenere la devastazione delle carceri, compiute da orde barbariche di detenuti allo sbando, mentre le sezioni si riempivano di fumo, i cancelli cadevano sotto le spinte della massa, c’è ancora chi ipotizza che in quel frangente si siano consumati ‘maltrattamenti’ ai danni di alcuni reclusi”.

L’Osapp insiste su commissariamento del Dap e “chiede che il governo e in particolare il presidente del Consiglio Conte prendano in mano, con urgenza la situazione delle carceri italiane prima che il sistema penitenziario collassi definitivamente”.

Il coordinatore regionale veneto della Fp-Cgil Penitenziaria ha dichiarato: “Faccio questo lavoro dal 1983. Ne ho viste tante: brigatisti rossi, autonomi, detenuti extracomunitari, Mala del Brenta. Ma questo è un momento da bollino rosso, siamo in allerta continua… Questa emergenza dovrebbe far riflettere. Pensiamo a cosa è successo in altre nazioni, Brasile, Argentina, dove un’epidemia ha innescato una sorta di bomba in alcuni istituti di pena con fughe di massa. Ecco, noi non siamo preparati a far fronte all’emergenza. Ci sono piani anti-evasione ma non direttive o protocolli per situazioni come quella che stiamo vivendo”.

Insomma, quasi tutti chiedono il pugno di ferro e misure più restrittive, perché c’è stata troppa accondiscendenza nei confronti dei detenuti e non sono state ascoltate le indicazioni del personale di custodia. Altra richiesta ribadita da molti è l’utilizzo dell’esercito intorno alle mura di cinta e di dotare i gruppi di pronto intervento di pistole taser.

In più, si sollecita l’introduzione di norme che prevedano pene severissime per chi organizza o partecipa a sommosse e devastazioni; turbi l’ordine e la sicurezza negli istituti di pena; usi la forza nei confronti del personale penitenziario.

Sentendo tutte queste prese di posizione, verrebbe da dire che gli strascichi delle rivolte delle scorse settimane dovrebbero portare a modalità di gestione della quotidianità detentiva ai livelli del 41 bis… Tutti provvedimenti che acuirebbero la già grave situazione di disagi e tensioni che esisteva già prima delle proteste di marzo.

(continua)