Riceviamo e pubblichiamo un editoriale di UnivAut, portale gestito dal Cua, su piazza Verdi. E spieghiamo perchè. Poi la replica di Bartleby e di nuovo un contributo del Cua.
Da quando Zic.it esiste, la nostra redazione ha sempre evitato di dare spazio a prese di posizione che, al di là delle legittime divergenze, veicolassero dinamiche apertamente conflittuali all’interno delle realtà di movimento. Una scelta precisa. Non dettata dalla ricerca di un piatto “ecumenismo”, per altro improbabile se si tenta di raccontare un mondo mutevole e fluido come quello dei collettivi e dei centri sociali. Semplicemente, non abbiamo mai voluto rischiare che gli “scazzi” finissero per influenzare negativamente una delle sfide costitutive di questo giornale: produrre comunicazione ed informazione indipendente per dar voce alle esperienze di autorganizzazione ed autogestione, in modo trasversale e senza vincoli di appartenenza.
Nel contributo che pubblichiamo in questa pagina, è evidente, la vis polemica non manca. Non abbiamo cambiato idea. L’orientamento che esplicitavamo nelle righe precedenti è quello che continuerà a contraddistinguere l’attività di Zic. Diamo spazio al testo che segue perchè, al di là delle polemiche e della nostra condivisione o meno di tutti i passaggi che contiene, non c’è dubbio che l’editoriale su piazza Verdi inviatoci da UnivAut (portale dell’antagonismo universitario bolognese gestito dal Cua) affronti un nodo reale e problematico. Troppo spesso, infatti, non trova sufficiente attenzione la pur necessaria riflessione sulle strategie che le diverse declinazioni di potere costituito agiscono per rispondere alle piccole o grandi insorgenze, al terreno guadagnato dai movimenti e alla nascita di spazi di autonomia. Tra queste, le operazioni di istituzionalizzazione e il gioco puntuale dei “buoni e cattivi” sono le più insidiose. Per quanto riguarda gli altri soggetti collettivi chiamati in causa, sappiamo bene che ogni esperienza ha il diritto di compiere le scelte che ritiene più opportune e saranno queste stesse realtà a spiegarle. Volentieri daremo loro spazio. Così come, in questa stessa pagina, pubblicheremo altri eventuali contributi che dovessero emergere sulla vicenda. Nei confini, ovviamente, di un confronto anche schietto ma proficuo, dunque privo di invettive fini a se stesse di cui certo non si sente l’esigenza.
A questo giornale non spetta il compito di “schierarsi” dalla parte di qualcuno o di qualcun altro, nè tanto meno dispensare torti e ragioni. Quello che ci sembra giusto fare è ribadire quanto avevamo scritto in un nostro editoriale, pubblicato nel pieno delle intense giornate di piazza Verdi liberata: la resistenza messa in campo dalla composizione sociale che vive la zona universitaria, con una risposta collettiva determinata e spontanea, dimostra che il prolungato tentativo di normalizzazione e disciplinamento è ancora lontano dal vincere. Affermazione che, tra una divergenza e l’altra, speriamo resti valida il più a lungo possibile.
La redazione di Zic
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Rompere le vetrine: andare oltre piazza Verdi!
Sulla zona universitaria si gioca una partita ben più importante e decisiva che non la possibilità di organizzare iniziative culturali all’interno del perimetro di piazza Verdi. Dopo la cacciata della polizia del 27 maggio, in maniera “straordinaria” – se si pensa alla laceranti polemiche tra comune e comitati sulle rassegne musicali – si è sbloccata la duplice programmazione estiva di piazza Verdi: da una parte i comitati, dall’altra Green, rassegna legata ad un locale privato sito ai bordi della piazza. Improvvisamente quello che doveva essere un deserto diviene un piccolo palcoscenico autorizzato.
Noi, come realtà sociale del mondo studentesco universitario, stiamo continuando a costruire iniziative autorganizzate, come quella più recente con Zerocalcare, consapevoli che la legittimità per i soggetti che vivono la zona universitaria si conquista sul campo e si realizza tramite i comportamenti. Quando diciamo che oggi uno studente se vuole può leggere una poesia con un microfono attaccato ad una cassa grazie alla lotta non è retorica, è vero. Per noi liberare queste energie sociali è la posta in palio, energie che immediatamente costruiscono spazi di conflittualità e di attacco per la conquista di nuovi diritti che ogni giorno vengono negati a studenti, precari e disoccupati.
All’interno del programma di Green vediamo qualche artista, qualche musicista perlopiù giovane e legato, quantomeno idealmente, ad un’idea di città tollerante, meticcia, solidale: insomma la nostra idea. Siamo consci della devastazione che scelte politiche scellerate hanno compiuto nel mondo dell’arte e della cultura bolognese che da terreno di avanguardia, sperimentazione e opportunità è diventato una lobby di interessi privati all’insegna della precarietà e della mediocrità. Sappiamo che in questo contesto per i giovani artisti è sempre più difficile muoversi e sopravvivere.
Dunque comprendiamo la presenza di tali soggetti all’interno di questa rassegna autorizzata in quanto finalmente scorgono la possibilità di stare in piazza, di esibirsi, di fare il proprio lavoro (ovviamente gratis, ma è già qualcosa), tuttavia pensiamo che bisogna fare un passo oltre. Il nodo della cultura a Bologna è tra le tematiche più impellenti, come dimostrò a suo tempo l’emersione spontanea dell’occupazione del Cinema Arcobaleno. La posta in palio quindi non è trovare forme di rappresentazione attraverso un investimento pubblico che non c’è, ma quello di costruire percorsi di lotta e di rivendicazione anche con queste soggettività che hanno dimostrato di sapersi muovere pure sul terreno della conflittualità. Questo è il dato che bisogna avere il coraggio di raccogliere a Bologna e di fare scorgere e di praticare nel mondo della cultura. Questa è la potenzialità che non si è saputa cogliere nell’autunno del 2011.
Tuttavia non bisogna essere miopi o focalizzarsi solo su un aspetto della questione. Piazza Verdi ci parla di uno spaccato sociale molto più ampio che si muove ai bordi di una università-parcheggio dove la mobilità sociale è finita da un pezzo e dove si territorializzano soggetti e comportamenti che in maniera sicuramente ambivalente resistono all’incedere della crisi e alle politiche di austerità. La vetrina va rotta proprio perché in gioco entrano una pluralità di soggetti il cui movimento e le cui esigenze ci parlano, dentro questo spazio di possibilità, della scommessa di andare oltre e non di mostrare la realizzazione dell’esistente, anche se sotto il segno dell’alternativa underground. Qui si tratta di forzare verso la trasformazione del nostro presente, non di rappresentarla di fronte ad un pubblico sempre più scomposto e disperso dalla crisi. Nella piazza non ci sono palchi sopra cui stare, ma cassonetti da ribaltare a difesa della libertà e dei diritti fondamentali.
Per questo noi non partecipiamo alla rassegna autorizzata ma continuiamo dritti nel nostro percorso dialogando con tutti i soggetti interessati che vivono e attraversano la zona universitaria. Non ci stupiamo se la categoria molto parziale dei “residenti bolognesi” trova come forma organizzativa il comitato e propone qualche concerto sinfonico con i ragazzi del conservatorio. Magari sono forme che si potranno superare nel tempo, ma con le quali oggi è possibile sperimentare passaggi di dialogo. Ma è chiaro al contempo che le specificità vanno valorizzate, e le forme autorganizzate studentesche hanno legittimità e forza quando conformate sulle esigenze di quella soggettività studentesca e precaria che di certo ha altre forme di espressione ed organizzazione.
Ci stupiamo assai di più del fatto che dentro questo contesto ci siano realtà politiche di movimento che invece hanno dato la loro adesione alla rassegna, percependone lo spazio come una vetrina per proporre le proprie attività, slegandosi completamente da un terreno di politicità che invece per noi parla direttamente di autonomia dei comportamenti e di contropotere delle forme di vita precarie dentro/contro la crisi. Nel volantino di Green è rappresentata una cartina della piazza con delle direttrici che daPhotinia, albero della libertà simbolo della cacciata della polizia, si congiungono con i bar e gli esercizi commerciali privati della zona. Per noi è semplicemente inaccettabile questo utilizzo mercificatorio di una simbologia costruita collettivamente con tanti sforzi. Da realtà politiche in qualche modo ormai “storiche” ci aspettavamo quantomeno maggiore capacità di discernimento. Grottesco vedere iniziative amplificate grazie alla corrente presa da un noto bar della piazza che di tanto in tanto ospita kermesse di preti e frati che si scagliano contro aborto, gay e lesbiche applauditi da decine di ciellini. Noi stavamo pensando nel futuro prossimo a costruire passaggi collettivi per contestare questa situazione, invece, a quanto pare c’è chi favolosamente se ne frega. Rompere il meccanismo delle autorizzazioni istituzionali serve anche a questo. Davvero controproducente dare questo tipo di indicazioni rispetto alle potenzialità ricompositive intorno alle opzioni di movimento che i fatti di fine maggio ci hanno fatto scorgere. Dopotutto al corteo del 4 giugno c’eravamo tutt* a gridare “i diritti si conquistano a spinta!”. Ed è la strada imboccata quel giorno quella che per noi va nella direzione giusta…
Il punto è proprio questo. Si tratta di ingenuità o di deliberate scelte di andare in soccorso di quelle istituzioni – dal quartiere alla questura – che sono state messe in discussione e destabilizzate dalla conflittualità del 27 maggio? Si tratta di grossolani errori di valutazione e di leggerezze o di una rincorsa al promuoversi quali agenti di pacificazione per provare a contare (poco e male) “dal di dentro” distinguendosi da chi sta “contro e altrove”? Andare oltre Piazza Verdi sicuramente non vuol dire diventare attori del recupero istituzionale dell’autonomia dei soggetti che la cacciata della polizia aveva intravisto e tracciato. Andare oltre Piazza Verdi non vuol dire giocarsi passaggi politici avendo sempre e comunque come unico orizzonte i tavoli di trattativa con istituzioni bollite e incapaci e non significa accantonare i bisogni complessivi di chi vive e attraversa l’università per aggrapparsi a qualche briciola che viene concessa tra una provocazione poliziesca e l’altra. In questi casi “andare oltre piazza Verdi” significa solamente non fermarvisi neanche un minuto continuando a percorre via Zamboni verso un qualche ricevimento a Palazzo d’Accursio per avere, di nuovo, del fumo negli occhi. In questi casi al posto che sperimentare e immaginare nuove istituzioni collettive si ottiene l’effetto di consolidare e ri-legittimare quelle vecchie proprio nella fase della loro crisi che a noi indica, invece, la possibilità di un superamento.
UnivAut
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“Qualche volta io mi cerco la rivolta….”
Ci scusiamo per il ritardo col quale prendiamo parola – mentre tutti parlano di noi – ma concordare ogni singola sillaba con questura e istituzioni, tra un tè con la Frascaroli, un gelato bio con la Naldi e l’apertura di una start up con Teo Lepore, richiede il suo tempo.
Stare dentro i movimenti e le lotte, invece, è sempre un esercizio complesso, che merita attenzione e cura delle relazioni.
Non possiamo pertanto sottrarci al compito di fare chiarezza sulla vicenda di Piazza Verdi, senza tentare di nasconderci dietro il dito del tatticismo politico. La proposta di inserire alcune nostre iniziative dentro la rassegna ‘E’ estate anche in Piazza Verdi’ ci è giunta dal Sig. Otello Ciavatti del “Comitato Piazza Verdi e zona universitaria”; lo stesso che è stato invitato, insieme ad altri ospiti, dal Collettivo Universitario Autonomo a partecipare a una discussione pubblica attorno al “Manifesto per Piazza Verdi”. Abbiamo accettato, anche a partire dalla possibilità di relazione con una pluralità di singoli, soggettività, artisti, musicisti del Conservatorio e molti altri con i quali abbiamo sempre dialogato e che già avevano aderito alla stessa rassegna. Abbiamo scoperto soltanto lunedì 1° luglio, in occasione della partecipata conversazione con Pino Cacucci e Fabrizio Lorusso, che la rassegna estiva era sponsorizzata, tra i tanti, anche dalla “Associazione Via Petroni e dintorni”, agguerrito comitato di quartiere che ha sempre osteggiato le iniziative messe in campo da studenti e studentesse e criminalizzato le forme di vita e di socialità che rendono viva la zona universitaria. Lo diciamo chiaramente: nessuno spazio e legittimità possono essere concessi alle logiche legalitarie e securitarie che vorrebbero eliminare con un tratto di penna la presenza attiva di studenti e studentesse, di precari e precarie dal centro universitario.
Tuttavia, la presunta leggerezza che ci viene imputata è forse anche il sintomo di una sfida. Come costruire spazi politici comuni e piani di relazione reali contro la governance securitaria? Come ribaltare quelle stesse logiche che vedono una funzionale contrapposizione tra residenti e studenti, entrambi considerati identità fisse e immutabili, in esperienze trasformative tra soggetti in divenire? Vero è che la questione Piazza Verdi, che ciclicamente sale alla ribalta delle cronache, merita una riflessione dal respiro più ampio, proprio perché emblematica del fallimento delle politiche istituzionali. Il tentativo della governance cittadina di creare un vuoto in quella piazza è stato disinnescato dal pieno di vita, anche conflittuale, che quel luogo attraversa quotidianamente, e che è diventato evidente il 27 di Maggio.
E’ proprio questa conflittualità che ha aperto un nuovo campo di possibilità.
Da qui, per noi, occorre fare un passaggio ulteriore. Piazza Verdi è un luogo particolarmente complesso, come tutti i luoghi pieni di energia. Attraversato e vissuto da una pluralità di soggettività diverse, su cui insistono bisogni e aspettative differenti, anche in conflitto tra loro. Nella rassegna E’ estate anche in Piazza Verdi – ovvero un programma di iniziative – abbiamo riconosciuto, al di là delle strumentalizzazioni politiche, il tentativo di mettere in campo un processo di partecipazione e decisionalità diffusa che ha, forse, in potenza la capacità di dare spazio a forme di autogestione dei luoghi.
E’ evidente che, quando si esce dal recinto delle sicure e strette identità dei gruppi di movimento, si rischia sempre di scivolare sulle ambivalenze forti che la realtà e i soggetti che si incontrano portano in dote. Tuttavia questa ci sembra la sfida da cogliere, sicuramente difficile e rischiosa, se si intende avviare consistenti processi di trasformazione, perché non crediamo che ci siano specificità da salvaguardare, ma solo esperienze da fare. La stessa sfida che, insieme a tante e tanti, abbiamo affrontato con l’esperienza di Santa Insolvenza. Una sperimentazione di partecipazione e condivisione di bisogni, desideri, linguaggi e luoghi che ha dato vita a pratiche di riappropriazione inclusive e innovative. Se ci fossimo allora rinchiusi in quell’identità di collettivo o di “realtà di movimento” che fin dalla nostra costituzione abbiamo sentito asfittica, e non ci fossimo aperti alle tante e diverse voci che compongono lo spazio metropolitano, a Bologna non avremmo vissuto, tra le tante altre cose, anche la favolosa riapertura del Cinema Arcobaleno, o, più recentemente, dell’ex convento di Santa Marta.
Una sfida che può essere affrontata solo dispiegando il massimo dell’intelligenza tattica e strategica, che sappia modulare quando necessario prove di forza e apertura alle ambivalenze. E’ in queste ambivalenze che bisogna sperimentare la forza delle proprie prospettive politiche, senza paura di cedere in purezza. Creare concatenamenti produttivi che sappiano scioglierle. Qui ci interessa collocarci. Al contrario non ci interessano affatto le interpellazioni a mezzo stampa “borghese”.
“Forse mi volevi più cattivo
più deciso e più aggressivo
ma oggi ho trovato il giusto tono
sono buono, sono buono”
p.s. Vi invitiamo sabato 6 Luglio alle ore 19, come programmato, in piazza Verdi dove si terrà l’ultimo incontro del seminario “Inventare nuove istituzioni” – Uso, accesso e comune tra nuove tecnologie e diritto alla città, con Andrea Capocci (Università La Sapienza) e Benedetto Vecchi (Il manifesto).
Bartleby
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Tracciando la direzione giusta, tra ambivalenze ed ambiguità
“…Qualche volta io mi cerco la rivolta ogni tanto poi mi sento molto stanco…” dicono gli Skiantos. Essere stanchi non è certo una colpa. Di solito si consiglia il riposo come rimedio. Fare della propria stanchezza una scusante per non accorgersi del risultato che le proprie azioni politiche producono, fa invece riflettere. Se è vero che stare dentro i movimenti merita attenzione e cura delle relazioni, è allora davvero sorprendente che non ci si renda conto della complessità degli scenari nei quali si interagisce e degli attori che in essi si muovono. E che non ci si renda conto per esempio della distanza che intercorre tra il dialogare con alcune figure e l’adesione supina e subalterna a determinati progetti. Parteciparvi è un dato oggettivo che poco ha a che vedere con ipotetiche purezze o rarefazioni identitarie. Un fatto che al di là delle volontà soggettive innesca processi politici con ampie ricadute: sui soggetti; sulle pratiche di lotta e sulle possibilità di costruzione collettiva d’alterità che in tant* tutti i giorni provano faticosamente a legittimare e praticare. Ha ragione la redazione di Zic quando dice: “Troppo spesso, infatti, non trova sufficiente attenzione la pur necessaria riflessione sulle strategie che le diverse declinazioni di potere costituito agiscono per rispondere alle piccole o grandi insorgenze, al terreno guadagnato dai movimenti e alla nascita di spazi di autonomia. Tra queste, le operazioni di istituzionalizzazione e il gioco puntuale dei “buoni e cattivi” sono le più insidiose.”
Secondo Wikipedia il termine ambivalenza “Si usa comunemente anche in situazioni in cui una persona si trova in uno stato di confusione o incertezza o, in maniera impropria, per esprimere indifferenza e apatia, o mancanza di giudizio, piuttosto che la compresenza di giudizi fra loro in contraddizione.”. Per un uso del concetto di ambivalenza – per noi centrale politicamente – questa definizione è sicuramente sbagliata. Parlando di ambivalenza pensiamo all’uso che ne propone Romano Alquati e alle possibilità di rottura e ribaltamento immanenti ai processi sociali che con questa categoria è possibile cogliere. In contesti nei quali invece si fa un uso davvero asfittico dell’ambivalenza per coprire le ambiguità da usare con opportunismo a seconda delle vetrine che si scelgono, magari è meglio rimanere sulla più calzante definizione di Wikipedia.
Le ambivalenze sono cosa ben diversa dalle ambiguità e costruire nessi sociali è una sfida ben più ampia che il gretto opportunismo. Se ambivalenza vuol dire legittimare i preti antiabortisti e sessisti quella per noi è contraddizione: il martedì corrente e tavoli a loro, il mercoledì a me, il giovedì a chissà chi… Preti che salgono sui tetti con la digos a filmare la gioiosa cacciata della polizia del 27 maggio rivendicando sui giornali di averlo fatto per la “sicurezza” di tutti. Ambivalenza vuol dire partecipare a progetti insieme a personaggi di comitati che hanno denunciato i compagni e le compagne? No, quella è ambiguità.
Sul rapporto col Comitato Piazza Verdi l’abbiamo scritto a chiare lettere nel Manifesto per Piazza Verdi, che abbiamo discusso ad un’iniziativa autoconvocata cui era presente, oltre ad Otello Ciavatti, anche Massimo Pavarini (che per dover di cronaca il martedì di solito non viene alle assemblee del CUA), che noi il dialogo lo rivendichiamo e pratichiamo. Crediamo che siano i soggetti collettivi a dover avere parola sulla zona universitaria, da una parte gli studenti e i precari autorganizzati, dall’altra, ad esempio questo comitato, in un rapporto però di crescita e di scambio mutuale, partendo dal concreto e non dall’unzione di qualche assessorato comunale o del regolamento di Polizia Municipale che si sono mostrati assolutamente incapaci di leggere questo spaccato di città e da anni continuano a fallire. Non ci sono recinti da salvaguardare, ma singolarità differenti (con le loro specificità) che possono meticciarsi in un divenire comune. Cancellare le specificità troppo spesso non nasconde altro che un appiattimento, un ipotizzare uno spazio liscio che invece finisce per regalare il gioco al nemico…
Siamo convinti che non ci siano operazioni politiche in atto, come con magniloquenza e tendenziosità alcuni vogliono interpretare, d’altra parte le istituzioni si confrontano sui rapporti di forza, non sugli scrivani… I problemi sono altri: l’uso che queste fanno quando le si regalano, per ingenuità o calcolo, certe aperture. Che siano esse il silenzio di fronte a gravissimi atti repressivi o al limite le risposte tramite trattative private per le briciole; siano esse la loro legittimazione con la partecipazione a tavoli di dibattito o a rassegne… Accorgersi in ritardo di certi capitomboli e non trarne le opportune conseguenze prestandosi de facto a determinate operazioni politiche è un’altra cosa… I campi di sfida e di possibilità sono anche campi di tensione, e le forme di autogestione, partecipazione e decisione non sono mai neutre o in sé stesse positive, ma sempre situate.
p.s. E’ evidente che la nostra “enunciazione enunciata”, più che interpellazione, non è stata fatta a mezzo stampa. Certamente è ambivalente che il quotidiano Repubblica (da altri definito “stampa borghese”…) monitori e dia risalto agli editoriali del portale univ-aut.org, ma certo non è quello il luogo delle nostre parole e alla pretestuosità di quanto alcuni scrivono diciamo che al limite dovrebbero rivolgersi al codice deontologico di alcune agenzie di stampa o all’incapacità di produrre notizie nel periodo estivo, non certo a noi…
Infine, un po’ di musica:
“…Mi muovo nella notte piena
in faccia al cielo
dove nessuno mi conosce per davvero
e imparo a essere cattivo
perché devo
la meschinità mi accerchia
e io spingo col pensiero
va bene che non vado a mettere le bombe
va bene che non sputo sulle vostre tombe
lotto con me per primo
ogni uomo ha un motivo
per svegliarsi il mattino
e mettersi in cammino
mi muovo nella notte piena
in faccia al cielo
e cresce il desiderio
cresce il desiderio e il veleno
davanti le vetrine dell’impero
canne mozze in mano e ti prendono sul serio
ancora un giorno passa a caccia di denaro
non rido a essere trattato come schiavo
il mio vestito è nuovo
ma resto il bastardo che ero
senso dello Stato uguale zero…”
Collettivo universitario autonomo