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Opinioni / “Who run the world? Girls”

“La marea è tornata a inondare le strade del mondo”, le #WomensMarch “una conferma”: la rete romana Io Decido rilancia verso “il prossimo 8 marzo per il primo sciopero globale delle donne”.

30 Gennaio 2017 - 17:39

di Io Decido da Non una di meno

La marea è tornata a inondare le strade del mondo e in questo fine settimana si è tinta di rosa; il rosa dei cappelli simbolo della #WomensMarch. Le donne si sono messe in marcia in questo sabato appena trascorso: centinaia di migliaia di corpi si sono riversati nelle strade di tantissime città statunitensi e non solo. Milioni di passi mossi assieme contro l’insediamento del neo-presidente Trump e contro la cultura sessista, misogina, prevaricatrice, razzista e xenofoba che Trump incarna e che rappresenta immediatamente la violenza del capitalismo neoliberale.

Le parole pronunciate sabato da Angela Davis risuonano ancora nelle teste; emozionano, fanno riflettere:

“This is a women’s march and this women’s march represents the promise of feminism as against the pernicious powers of state violence. And inclusive and intersectional feminism that calls upon all of us to join the resistance to macis […] to capitalist exploitation”

“Questa è una marcia di donne e questa marcia delle donne rappresenta la promessa del femminismo contro i funesti poteri della violenza di stato. Ed è il femminismo inclusivo e intersezionale che invita tutt* noi a unirci alla lotta di resistenza al razzismo […] e allo sfruttamento capitalistico”

Il messaggio è questo ed è incontrovertibile: la lotta delle donne è lotta contro il capitalismo globale, contro quelle condizioni di vita che producono violenza; una violenza che si abbatte con ferocia principalmente sulle donne stesse. È la lotta contro ogni confine, geografico e relazionale; è la lotta per l’autodeterminazione dei popoli, dei corpi e delle vite in ogni campo dell’esistente, da quello domestico a quello lavorativo e sanitario. La lotta delle donne, quella femminista, è immediatamente lotta per la libertà.

È a nostro parere miope leggere le Women’s March come una mera operazione di purplewashing diretta dall’opposizione democratica a Trump. Certo, dobbiamo dirci che quando le strade e le piazze vengono riempite da centinaia di migliaia di persone la composizione non può che essere eterogenea e striata, ma ciò definisce, semmai, l’eccedenza di quelle piazze, esattamente nel segno che ha indicato Angela Davis nel suo intervento: quello della resistenza al sistema patriarcale, razzista e classista incarnato dal neo-presidente, resistenza di certo non racchiudibile nell’alveo del Partito Democratico americano. Questa complessità non può essere quindi semplificata attraverso l’uso di categorie predefinite e inadeguate: si parla molto, in questi giorni, di femminismo liberale e di femministe pret-à-porter. Sappiamo bene, per parafrasare le parole di Nina Power, che negli ultimi venti anni i repubblicani americani, a loro volta, hanno abusato del termine “femminismo” storpiandolo e utilizzandolo in maniera opportunistica per giustificare la guerra in Medio Oriente e altre ignobili operazioni politiche. Ebbene, queste manovre strumentali cominciano a saltare, finalmente; con buona pace di chi sostiene (avvalendosi di non si sa bene quale valido strumento divinatorio) che, se avesse vinto la Clinton, tali manifestazioni non ci sarebbero state. Dimenticando però che in tutto il mondo il protagonismo delle donne continua da mesi a irrompere nello scenario pubblico, con la sua forza virale, con la radicale e immaginifica determinazione che abbiamo visto  il 3 Ottobre con il Black Monday polacco; abbiamo vissuto sulla nostra stessa pelle il 26 e 27 Novembre a Roma; nelle intense giornate di lotta delle donne argentine e sudamericane che hanno segnato profondamente quest’autunno.

Sono queste le lotte che hanno accompagnato il passaggio al nuovo anno e che negli ultimi mesi hanno aperto uno spazio di soggettivazione e di produzione di discorso politico radicale che sta determinando una risignificazione delle pratiche femministe e quindi delle pratiche politiche tout court.

Le #WomensMarch americane confermano che un nuovo movimento di donne è in cammino e che essere protagoniste dello spazio politico che si è aperto significa anche rovesciare le contraddizioni che porta con sé, innervandolo dello sguardo e del metodo femminista, transfemminista queer e meticcio che assieme stiamo costruendo.

Questo movimento conserva memoria e se ne fa forte. Ma non ha né madri né, tanto meno, padri e assume fino in fondo le pratiche femministe, quelle che rovesciano le forme della politica classica e dunque maschile; quelle, cioè, che non passano per l’autorità, la leadership e la rappresentanza, che non rivendicano diritti proprietari, di veto o di primogenitura sulle lotte, né accampano pretese in base a presunte quote azionarie fondate sul numero degli iscritti, se non dei follower.

E allora la domanda che abbiamo collettivamente formulato all’indomani del 26-27 Novembre è assolutamente attuale e indicativa: chi ha paura della marea?

Le prossime settimane forse sapranno consegnarci una risposta che, in parte, già si sta delineando. Una cosa però la possiamo dire con forza, la marea non ha paura del possibile che ha espresso, anzi! Lo scopo è proprio quello di trasformare quel possibile in azione concreta! Il piano femminista contro la violenza – che continueremo a scrivere in assemblea il 4 e 5 febbraio a Bologna – diventerà pratica di lotta il prossimo 8 marzo per il primo sciopero globale delle donne.

E per citare nuovamente le parole di Angela Davis (riprese da quelle di Ella Baker):

“We who believe in freedom cannot rest until it comes”

Non ci fermeremo finché non avremo conquistato la libertà per tutt*!