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Opinioni / Me a sån Ciarliebdò, ovvero: Miseria dell’ateneo e della città di Bologna

L’Ateneo e la vignetta da ritirare, Wu Ming: “Luogo chiuso, che vuole mantenersi impermeabile ai conflitti, schivare gli attriti, soprattutto con le forze clericali e con le lobbies politiche. Anche a costo di ricorrere alla censura”.

11 Aprile 2015 - 17:58

(da Giap)

Religious censorship. Protecting you from reality.Accade all’Università di Bologna, la più antica del mondo, quella che non perde occasione di vantare i suoi nove secoli di vita. Chi oggi la governa intima a un’associazione studentesca di ritirare dalla circolazione il numero della rivista che redige (si chiama Fornofilia e Filatelia) e di cambiare stile editoriale, lasciando intendere che in caso contrario ci saranno ripercussioni. Dato che l’associazione riceve finanziamenti dall’università per il suo progetto culturale, le ripercussioni consisterebbero nel ritiro dei finanziamenti stessi. Il motivo dell’ingiunzione? Sull’ultimo numero della rivista compare una vignetta ritenuta blasfema e oscena, ovvero lesiva dell’immagine dell’ateneo. [scarica il pdf e guarda la vignetta nel contesto per cui è stata pensata]

L’inverno è passato, è arrivata la primavera e i «Je suis Charlie Hebdo» ed nuèter hanno dismesso il lutto al braccio per rimettersi la cravatta. E’ bastato che la componente ciellina dentro l’università abbaiasse contro una vignetta perché il prorettore Roberto Nicoletti inviasse una raccomandata minacciosa: ritirate la rivista e non azzardatevi più a pubblicare niente del genere. Questo perché, fa sapere il prorettore, siamo in un paese cattolico e una bestemmia in una vignetta non ci può stare: offende gli studenti cattolici. La medesima vignetta potenzialmente offende anche islamici ed ebrei, ma evidentemente non sono lobbies che contano dentro il senato accademico.

L’aspetto più grottesco di questa vicenda è che la vignetta incriminata si accompagna a un articolo nel quale si fa notare come la solidarietà a Charlie Hebdo in Italia, fin dal giorno dopo l’attentato, si sia riempita di se e di ma, malcelando una reale volontà di censura, nonché di repressione antislamica e xenofoba. La censura di Nicoletti e del senato accademico diventa quindi una sorta di verifica di quanto sostenuto nell’articolo: le radici illiberali di questo paese non smettono di dare i loro frutti nemmeno mentre ci si stringe in difesa della libertà di satira. È evidente che i censori non hanno letto l’articolo, altrimenti forse avrebbero saputo contestualizzare la vignetta o almeno si sarebbero sentiti un po’ ridicoli.

A proposito di ridicolaggini, lo sforzo di leggere se lo sono risparmiato anche alcuni commentatori della vicenda. Dalle pagine di Repubblica di sabato scorso, Michele Smargiassi – in altre occasioni acuto osservatore di quanto accade in città – ha voluto rifilare agli studenti censurati una lezioncina di antagonismo: non potete pretendere di rivoltare il mondo con i finanziamenti pubblici, dovete praticare il conflitto sociale, non capite che essere censurati è la vostra vera vittoria. Non è passato per la mente di Smargiassi che gli intenti dei soggetti in questione possano essere diversi dal sovvertimento dell’ordine costituito; che Fornofilia e Filatelia non è Battaglia Comunista; che forse quei ragazzi non sono proprio tanto ingenui da pensare di cambiare il mondo con una vignetta; che magari volevano soltanto scrivere un pezzo su Charlie Hebdo, accompagnandolo con una meta-vignetta che citasse lo stile di Charlie Hebdo, e adesso a buon diritto stentano a credere di essere censurati per questo; che riesumare la vetusta diatriba tra apocalittici e integrati in questo frangente c’entra più o meno come i cavoli a merenda.

Il palmarès delle figuracce però spetta alla cronista Brunella Torresin, anche lei di Repubblica, che si lancia in una critica femminista alla vignetta incriminata, ancora una volta senza contestualizzarla, addirittura scambiandola per humour goliardico, dando degli «idioti» e degli «sfigati» ai redattori della rivista. Parafrasando la chiosa della Torresin, si può dire che raramente abbiamo letto qualcosa di più ignorante.

Certo, spiegare una vignetta è terribile come spiegare una barzelletta, ma davanti a tanto spreco di sacro furore – antisessista, per giunta – non si può non richiamare l’attenzione sulla scritta che campeggia in alto:

«Charb era un ingenuo, bastava spiegare tutto con dei cartelli».

La vignetta prende in giro la pretesa di applicare alla satira i principi del politicamente corretto, come se appunto si potesse disinnescare il potenziale offensivo della satira specificando con cartelli che il papa ritratto non è l’attuale pontefice, che l’uomo con il turbante non è Maometto, che la donna non è Anna Frank, ma soltanto una che le somiglia, che la bestemmia non è una bestemmia ma un’insulto a Louise Veronica Ciccone in arte Madonna.

Certamente ognuno è libero di pensare che la vignetta in questione sia stupida. Resta il fatto che in quel disegno la satira di Charlie Hebdo non viene né imitata, né ripresa, ma semmai citata, messa tra virgolette. Ritenerla blasfema è come giudicare blasfema la frase: «”Dio boia” è una bestemmia molto usata in Emilia-Romagna».

Un caso come questo farebbe soltanto cascare le braccia se non fosse che allude alla miseria intellettuale e politica nella quale versa la città in cui viviamo. Miseria che è ben rappresentata dalle polemiche innescate dalle compagini più retrograde, sempre attive nel distogliere l’attenzione dai problemi concreti e reali: povertà, precarietà, disoccupazione, emergenza scolastica e abitativa.

Pochi giorni fa gli ambienti curiali chiedevano al comune di sospendere la convenzione con il circolo «Il Cassero», storicamente gestito dall’Arcigay, a causa di una festa blasfema a tema pasquale, le cui immagini hanno scandalizzato anche molti difensori dei diritti civili all’acqua di rose. Gli attacchi all’Arcigay sono arrivati da tutta la destra cittadina e dal PD.
Lo stesso PD che sostiene a spada tratta i finanziamenti comunali (un milione di euro all’anno delle nostre tasse) alle scuole materne paritarie private, tutte di ispirazione confessionale, anche contro il parere espresso dalla cittadinanza attraverso il referendum consultivo di due anni fa.
Lo stesso PD la cui classe dirigente ha permesso ai clericali di dedicare per una sera Piazza Maggiore alla condanna dell’adulterio.
Lo stesso PD, guidato da bersaniani saliti di corsa sul carro di Renzi, che alle ultime elezioni regionali ha subito un’emorragia di consensi impressionante, tanto che alcuni suoi esponenti hanno parlato di «sciopero del voto».
Lo stesso PD dove in questi giorni volano gli stracci in seguito al nuovo scandalo su cooperative e malaffare.

E adesso – ma forse non proprio da adesso – i vertici dell’ateneo prendono la linea dallo Student Office, il potente braccio universitario di CL, gente che forse dovrebbe riservare lo spirito crociato alle magagne di casa propria, come il caso di don Mauro Inzoli (ex-presidente del Banco Alimentare e vicepresidente della Compagnia delle Opere condannato dalla chiesa stessa per abusi su minori), anziché farvi ricorso per sbranare una piccola associazione studentesca.

Insomma, a Bologna le libertà civili e la laicità si enunciano, riempiono bocche e ganasce (tra una forchettata di tagliatelle e l’altra), ma a conti fatti rompono i coglioni. L’Università non fa eccezione, tanto meno fa eccellenza. Lo sappiamo tutti che dietro la retorica e le fanfaronate con il tocco in testa c’è un ateneo che da tempo ha perso il suo smalto, ampiamente provincializzato, trasformato in laureificio per allocchi. Basta farsi un giro per il centro in questa stagione e ascoltare gli usignoli:

«Dottooore, dottooore, dottore del buco del cul!».

Quelli che governano il mondo accademico hanno le loro belle responsabilità nel togliere spazio e aria a chi va in controtendenza. Sono gli stessi che qualche anno fa non rinnovarono la convenzione a una delle rare realtà culturalmente interessanti nate nel mondo studentesco bolognese e la scacciarono dai locali di via San Petronio Vecchio. Si chiamava Bartleby, era un posto dove si faceva e si fruiva cultura gratis, frequentato da centinaia di studenti, scrittori, docenti, musicisti. A quella realtà venne offerto di spostarsi in periferia, oltre la tangenziale, lontano dalla vita universitaria e cittadina, oppure di affrontare i manganelli della polizia.

Ecco, la stessa gente, lo stesso rettore e prorettore che fecero chiudere Bartleby a manganellate, oggi si propongono alla città nella veste di censori contro chi avrebbe leso l’immagine dell’Università di Bologna con una vignetta. E oggi come allora minacciano di chiudere una convenzione con un collettivo studentesco in nome del quieto vivere accademico.

Quale immagine dell’ateneo emerge da vicende come queste?
Quella di un luogo chiuso, che vuole mantenersi impermeabile ai conflitti, schivare gli attriti, soprattutto con le forze clericali e con le lobbies politiche. Anche a costo di ricorrere alla censura.
Viene da chiedersi se non sia proprio l’azione del prorettore Nicoletti e del senato accademico a ledere la reputazione dell’ateneo, in violazione degli articoli 15 (comma 1 e 4) e 19 (comma 1) del Codice Etico Unibo, improntato alla tutela delle libertà costituzionali e alla salvaguardia dell’immagine dell’Università:

«Art. 15:
1. L’Università richiede a tutti i componenti della comunità di rispettare il nome e il prestigio dell’Istituzione e di astenersi da comportamenti suscettibili di lederne l’immagine […]
4. L’Università richiede a tutti i componenti della comunità di mantenere un comportamento rispettoso delle libertà costituzionali, del prestigio e dell’immagine dell’Istituzione, anche nell’utilizzo dei “social media.»

«Art. 19:
1. L’Università promuove un contesto favorevole alle occasioni di confronto e riconosce le libertà di pensiero, di opinione ed espressione, anche in forma critica, al fine di garantire la piena esplicazione della persona, fatti salvi i limiti previsti dall’articolo 15 del presente Codice.»

Di un ceto politico-accademico tanto mediocre, pavido e insipiente non si può che auspicare la rovina. Ma non c’è da farsi illusioni, soprattutto se si guarda al contesto. La città è messa com’è messa, ampiamente ridimensionata nelle sue aspirazioni, dietro la spocchia balanzonesca, abbarbicata intorno a una farlocca mitopoiesi della magnazza. Senza il manifestarsi di una dialettica sociale e politica reale – al netto di ogni evocativa rappresentazione o messa in scena del conflitto – non potrà profilarsi nulla di nuovo sotto il sole delle elezioni accademiche e amministrative. Tuttavia, il pessimismo non è mai stato un buon motivo per voltarsi dall’altra parte.

Wu Ming