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Opinioni / L’imbuto Expo e la normalizzazione della metropoli

Da Commonware riproponiamo un’intervista a Cs Cantiere e Collettivo universitario The take: qual’è l’effetto sulla città dei lavori per l’esposizione 2015?

17 Agosto 2014 - 12:41

(da Commonware)

Con l’avvio dei lavori per Expo, Milano è diventata un grande cantiere. Cosa sta succedendo? Come sta cambiando la città dal punto di vista dell’organizzazione urbana e non solo?

theexpoGaia: Dal punto di vista delle trasformazioni che interessano la città stiamo assistendo ad un accelerato processo di cambiamento. La città è davvero un grande cantiere. Anche lo skyline sta cambiando. Ormai l’immagine simbolo di Milano non è più il Duomo ma sono i nuovi grattacieli Unicredit che stanno sorgendo nel quartiere Isola. In questo senso, Expo rientra in una logica più generale e tutta una serie di trasformazioni urbane che erano già in atto, e che stanno avendo, attraverso lo strumento Expo una forte accelerazione. Si tratta di una logica più complessiva di trasformazione del territorio in ottica neoliberista che vediamo all’’opera in quasi tutte le grandi metropoli europee. Nel senso che la trasformazione della città non nasce dai bisogni reali di chi la vive e dunque non per esempio dall’’organizzazione o riorganizzazione dei servizi in alcune aree, ma è orientata all’accumulazione di capitale in senso fortemente speculativo, con grandi colate di cemento: la creazione di vuoti urbani che torneranno ad essere tali. Si costruiscono nuovi alloggi anche se Milano non ne ha bisogno, anche se non vi è una crescita demografica tale da giustificarli, mentre ci sono vuoti all’’intero della città o quartieri che dovrebbero essere riqualificati. Ma siccome sulla riqualificazione non ci si fanno grandi profitti ci sono interi quartieri che vengono abbandonati a loro stessi mentre ne sorgono di nuovi destinati a rimanere vuoti. Expo rientra sicuramente in questa logica.

Elena: Va anche detto che Expo funziona come un enorme dispositivo di regolamentazione che interessa il territorio e la sua organizzazione ma interessa anche le nostre vite. È cioè un dispositivo normativo che va ben al di là dell’’evento in sé, ben al di là dei sei mesi di esposizione e ben oltre i confini fisici della città.

Isa: Tutta la città sembra presa da una sorta di furore. Tutti sono in attesa di Expo, tanto chi gestisce i cantieri che preparano l’area dell’esposizione quanto chi spera di poter lavorare in quei padiglioni. E i media costruiscono l’attesa. Un attesa spasmodica, presentata soprattutto come grande opportunità per tutti, quando in realtà invece i cantieri sono spesso mezzi vuoti e la gran parte del lavoro per Expo sarà, come sappiamo,

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Più complessivamente, allora, come Expo sta cambiando Milano?

Gaia: insieme alle trasformazioni urbane in senso stretto, come dicevamo grattacieli che spuntano in ogni dove in una città dove non ci sono mai stati e zone della città che vengono, come si dice, “riqualificate” all’’insegna della speculazione, Expo sta innescando una serie di trasformazioni molto profonde che non sono immediatamente visibili ma che hanno un forte impatto sulla città. Il caso più evidente sono i 18 mila volontari che si vuole reclutare per Expo, una cosa che ci parla della più complessiva riorganizzazione del lavoro che troviamo alla base del nuovo Job Act. Si tratta quindi di un cambiamento che interessa il territorio urbano, ma anche il piano finanziario, lavorativo, politico.

Federico: è per questo che parliamo di Expo come un grande processo di normalizzazione sociale: un grosso processo di trasformazione urbana che colpisce direttamente la società. Lo vediamo, per esempio nella guerra ai writers che il comune ha aperto ormai da due anni, perché per Expo i muri devono essere bianchi. Il rischio che noi vediamo è che la normalizzazione richiesta da Expo possa essere tacitamente accettata anche al di là dell’’evento in sé. È la stessa domanda che ci stiamo facendo a proposito contratti di lavoro volontario che Expo promuove: diventeranno procedimenti standard anche dopo Expo? Il Job Act sembra dire di sì.

Elena: insieme alla guerra ai graffiti, è partito anche l’attacco agli spazi sociali e alle case occupate. Negli ultimi tempi, abbiamo visto il rapido aumento di sgomberi e sfratti. In alcuni dei quartieri interessati dalle trasformazioni urbane in atto, nella zona ad esempio della Fiera, riqualificazione vuol dire anche l’aumento esponenziale del numero di famiglie che hanno perso la casa. Interi quartieri popolari anche molto estesi, cominciano ad essere considerati fuori posto. Questo è quello che sta accadendo ad esempio a San Siro, dove abbiamo le nostre occupazioni abitative e lo spazio sociale. San Siro è il quartiere popolare a maggior densità in Europa, pieno di case popolari, di migranti e case occupate, e oggi si ritrova nel bel mezzo di quella che sarà la vetrina di Expo.

Gaia: in realtà San Siro non è direttamente interessata dai progetti che riguardano Expo. Si trova però lungo quel’asse di sviluppo interessato dalle trasformazione che stanno investendo la città, dunque nella direzione dell’’area dove sorgeranno i padiglioni dell’’esposizione universale, lungo la nuova linea metropolitana che attraverserà la periferia Nord, che ha già cominciato a funzionare come potente strumento di gentrification. Con l’aumento dell’accessibilità, che è ovviamente un’ottima cosa, aumenta anche il valore immobiliare e crescono gli appetiti speculativi. Le dinamiche di trasformazione che stanno interessando San Siro, dunque, non sono direttamente “per” Expo ma stanno piuttosto dentro una logica più complessiva di sviluppo della città che, ripeto, sta avendo in Expo uno straordinario acceleratore.

Dunque, possiamo dire che Expo è solo la cartina di tornasole di un più complessivo processo di trasformazione dello spazio urbano dentro il modello neoliberalista?

Gaia: senz’’altro. La stessa scelta del sito per l’esposizione è emblematica in questo senso. Solitamente, per le esposizioni universali si scelgono terreni di proprietà pubblica. In questo caso, l’area è invece privata. È stata acquisita da una società costituita ad hoc, all’interno della quale naturalmente ritroviamo il proprietario dell’area, oltre al comune di Milano e il comune di Rho, la Fondazione FieraMilano e costruttori come Cabassi. Nel dopo Expo, l’area, che è attualmente un’area a destinazione agricola, sarà rivenduta con tanto di master-plan circa la sua futura destinazione, tuttavia, questo non è vincolante, nel senso che chi acquisterà l’area non è tenuto a seguire quel progetto. Così, con molta probabilità l’area sarà edificata e vedrà crescere in modo esponenziale il suo valore. Tuttavia, il segno della dinamica speculativa in atto lo si vede chiaramente se si considera che di recente Milano aveva spostato il quartiere della Fiera nel comune di Rho, in quell’area di cerniera tra Milano e Rho che è Rho-Fiera, con un progetto futuristico dell’architetto Fuksas. I padiglioni di Expo sorgeranno proprio vicino alla Fiera che però rimarrà vuota. Tutto sarà spostato nei vicini padiglioni dell’Expo. Si stanno cioè lasciando vuoti spazi di esposizione già esistenti per cementificarne degli altri. Il problema di fondo è che non c’è un’idea chiara dello sviluppo che si vuole. Così vediamo nascere quartieri che finiscono per essere … diciamo decontestualizzati.

Federico: è l’intero modello di sviluppo ad essere profondamente problematico. La specificità di Expo è però piuttosto rintracciabile nel come i grandi eventi funzionano nell’’ispirare e produrre accelerazione a questi processi. Quello che voglio dire è che i grandi eventi come Expo a Milano o i mondiali di calcio in Brasile diventano dei veri e propri modelli di sviluppo che saranno poi ripresi anche altrove.

Gaia: è anche emblematico vedere come in Italia quelle che vengono chiamate grandi opere, sono sempre promosse dalle stesse società: CMC è l’impresa che lavora alla costruzione del Tav in Val Susa e dell’Expo. Impregilo Spa sta costruendo sia i padiglioni per l’Expo che la Pedemontana. Ma soprattutto è emblematico che le grandi opere non sono né un motore di sviluppo né qualcosa che serve. Sono piuttosto fatte per non essere fatte, l’importante non è l’opera in se ma il processo di costruzione e la creazione di un modello per lo sviluppo. È il cantiere e non tanto l’opera in sé che interessa, perché è il processo e non la realizzazione dell’opera che crea profitto. E questo lo si vede in modo chiaro a partire da tutti i casi di corruzione legati alle grandi opere, a cominciare proprio dagli scandali che sono venuti alla luce intorno a Expo.

Elena: possiamo dire che il guadagno non sta nel realizzare l’opera ma piuttosto nel non realizzarla.

Gaia: infatti si costruiscono grandi grattacieli che poi rimangono vuoti. Non c’è interesse a costruire quartieri vivibili. L’importante è costruire. Così vediamo che spesso rimangono delle grandi incompiute come per esempio il quartiere di Santa Giulia dove solo una parte è stata costruita perché poi la magistratura ha bloccato i lavori.

Federico: il tema degli scandali intorno a Expo, porta poi in primo piano anche un altro meccanismo intrinseco ai processi di trasformazione e sviluppo urbano del modello neoliberista: la creazione dell’’emergenza. A Milano, dopo gli arresti ai vertici di Expo è venuto fuori che siamo entrati in una fase di “emergenza”, visto che i lavori sono tutti in ritardo. Occorre dunque accelerare. E per far questo, si abbassano i controlli, per esempio antimafia o della sicurezza sul lavoro, che potrebbero rallentare i lavori.

Gaia: l’emergenza diventa l’esasperazione del momento: i pieni poteri che Renzi a conferito al commissario straordinario sono il chiaro via libera a un processo di sviluppo incontrollato.

Tutti questi processi, tuttavia sono a lavoro ben oltre Milano e la realizzazione dell’Expo…

Elena: Expo è interessante proprio perché ci permette di mettere a fuco tutta una serie di trasformazioni che interessano il presente: i grandi eventi come volano dell’economia, che poi producono solo speculazione; il lavoro gratuito che poi ritroviamo nel Job Act; gli sgravi sui controlli per le costruzioni del Piano Casa, eccetera. In questo senso Expo è un modello. A mo’ di provocazione, nella campagna Expo-per-chi? che stiamo costruendo come momento di riflessione sull’impatto che Expo avrà sulla città, diciamo che Expo non è a Milano proprio per sottolineare la dimensione paradigmatica delle trasformazioni in atto. Quello che ci interessa sottolineare è innanzitutto quanto le questioni che riguardano Expo siano deterritorializzate, nel senso che non interessano solo Milano e i quartieri dove sorgeranno i padiglioni per l’esposizione. Come già si diceva, Expo sottende un dispositivo normativo riconducibile al più generali modello neoliberista. In questo senso Expo non è che un tassello di una logica più complessiva. Nello stesso tempo, però, dire che Expo non è a Milano vuol dire anche che non è questa la Milano che vogliamo, che in Expo c’è solo una parte di Milano. Così se San Siro è un quartiere popolare che si trova nella Milano che hanno deciso di mettere in Expo è inevitabile che Expo dichiari guerra a San Siro. Così, come diciamo che Renzi, a livello nazionale ha iniziato una guerra contro i poveri, ugualmente possiamo dire che Expo, ha iniziato una guerra contro i poveri della periferia Nord di Milano.

In questo senso, è utile anche guardare ad alcune frasi o slogan che stanno accompagnando la costruzione di Expo e che, dentro la logica dell’’emergenze che abbiamo imparato a conoscere bene in questo paese, puntano a raccogliere il consenso dei cittadini. Così ci dicono che dobbiamo sbrigarci, che “spetta a tutti sennò facciamo brutta figura”; ci dicono che “Ci sarà il mondo” e che questa è un’occasione imperdibile. Tutti espedienti retorici per legare la città all’’evento.

Isa: è anche interessante notare che lo slogan di Expo sarà “energie per la vita”. A me questo slogan ha restituito l’immagine di Expo come un grande imbuto che raccoglie tutte le energie delle persone e le reindirizza. Il risultato è una identificazione totale dell’’evento con la vita. Dove la vita è intesa in termini utilitaristici, e si produce un problematico cortocircuito tra la vita stessa e lavoro, soldi, e altre dinamiche che non ci appartengono direttamente.

Gaia: un’altra cosa su cui riflettere è il comitato scientifico che è stato costruito dai sette rettori delle università milanesi che, insieme alle scuole secondarie, si sono messi a disposizione di Expo. Hanno cioè messo le proprie competenze e conoscenze al servizio di Expo chiarendo bene qual è il livello complessivo di coinvolgimento della città nell’’evento Expo. Sempre in questa direzione, stanno inoltre arrivando grossi finanziamenti alle scuole per la promozione di iniziative legate a Expo. E questo mentre nelle scuole mancano i banchi.

La campagna Expo-per-chi? si prefigge allora l’obiettivo di rovesciare l’ordine del discorso che sostiene Expo?

Elena: Expo viene spacciata come un’enorme opportunità. E noi ci stiamo chiedendo: un’opportunità per chi? Quello di Expo è un modello strettamente privato, legato agli interessi di pochi individui. Noi vogliamo sfatare il mito che Expo riguardi tutti e stiamo facendo un lavoro di inchiesta per vedere chi realmente ci guadagna, e non solo in termini economici. Per esempio, a partire dallo slogan “università per Expo”, abbiamo cominciato a chiederci, come studenti e studentesse, noi, cosa ci guadagniamo? Perché in mezzo a questo sfacelo l’università dovrebbe essere per Expo? Considerato anche che sono stati tagli 15 milioni dalla ricerca e che lo scorso anno crollava il tetto della mensa della Statale. Un altro punto su cui vogliamo insistere è il modo in cui Expo in università sta mettendo e a profitto il general intelect. Non ci stanno proponendo un modello da studiare, ma come studenti e studentesse ci mettono direttamente a lavoro per produrre questo modello.

Quindi a chi si rivolge la campagna?

Isa: si rivolge a tutti coloro che si interessano della questione e vogliono interrogarsi su Expo e le dinamiche che gli stanno intorno. Noi andremo ad approfondire alcune macroaree: quella del sapere tra scuole e università; quella urbanistica e in particolare il tema della gentrification; e poi vogliamo indagare gli slogan usati da Expo e intervenire con una sorta di “sbranding”.

Gaia: inoltre, parlare di Expo e di Expo-per-chi? È importante se vogliamo costruire un terreno di conflitto. Ci interessa capire come le contraddizioni di Expo possano essere spese sul piano della conflittualità e non solo per quanto riguarda il terreno della speculazione edilizia. Expo tocca diversi piani, dal sapere al lavoro, alla speculazione urbanistica. È quindi interessante vedere se e come intorno a Expo si possa dare un terreno ricompositivo. Dunque partire da Expo per tirare fuori tutto il resto. Ad esempio il Notav ha avuto la capacità di tenere insieme lotte tra loro differenti ma che avevano una comune idea di cosa debba essere il mondo. Expo potrebbe fare nello stesso modo visto che le questioni in campo sono tante e toccano tutti.

Expo sta rendendo evidente a tutti l’immagine del potere e della speculazione del cemento. Siamo inoltre in una fase nella quale il modello di sviluppo neoliberista è evidentemente è in crisi. È quindi il momento di pensare a un modello alternativo di sviluppo e provare a proporlo. Nello Spazio di muto soccorso SMS, ad esempio, stiamo tentando, come altre realtà italiane, a portare avanti nuove forme di vita, di relazioni sociali, di lavoro, che sono del tutto contrapposte al modello di sviluppo del tutto orientato al profitto. Ad esempio mettiamo il sapere a valore per noi invece che a profitto per qualcun altro. Pratichiamo un idea di abitare in senso lato che comprende anche le relazioni, il lavoro e non solo la questione della casa.

Le prossime tappe della campagna?

Elena: la campagna è in costruzione. Stiamo ragionando molto sull’’idea di illusione e disillusione. Expo è una macchina di mega illusione. Nella disillusione vi è invece un momento cruciale per la soggettivazione. Noi però vogliamo parlare anche agli illusi che sono la stragrande maggioranza. E questa è la sfida più grande.