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Opinioni / Insegnare Idomeni, “dove i profughi non si danno per vinti”

La testimonianza dei docenti bolognesi di Cobas e Cesp: “La difficoltà è comunicare il senso profondo” di quanto sta accadendo.

15 Maggio 2016 - 18:44

(da Quando suona la campanella)

Idomeni (foto di Giulia Piselli da Melting Pot)Alessia è un’avvocata. Nella sede Cobas bolognese viene una volta a settimana; oltre a darci la consulenza per le problematiche degli insegnanti, difende i lavoratori del settore privato. Ma in questi giorni – qualora la cercaste – non è in sede, perché, insieme ad altre donne del collettivo Mafalda, è ad Idomeni, località greca al confine con la Macedonia, posta lungo uno dei percorsi di fuga dalla guerra in Siria e quindi divenuta tappa importante per tanti profughi del cosiddetto Medio Oriente.

Nel campo dove si trova Alessia da diversi mesi vivono profughi partiti in gran parte dalla Siria, ma anche iracheni, curdi e addirittura afgani. Sono più o meno 10mila, di cui il 40% bambini e bambine – e circa 600 le donne in stato di gravidanza. Sono bloccati in questo campo – non ufficiale – perché difendono il loro diritto a fuggire dai luoghi di guerra, a cercare una via d’uscita, nelle strade e nelle città dell’Europa, dai bombardamenti e dalle armi: hanno rischiato la vita per darsi questa speranza. Difficile per noi europei capire fino in fondo.

Alessia ci scrive tramite whatsapp: “Il campo è senza luce e elettricità fatta eccezione per la tenda creata dai volontari. La polizia controlla entrata e uscita, di fatto non è materialmente possibile chiedere asilo politico. I migranti non vogliono andare nei campi governativi perché là non hanno nessuna garanzia”. Non si possono fidare. Ora l’Europa ha scelto di pagare i rimpatri e di mettere al lavoro la Turchia abbondantemente monetizzata. Così Idomeni è il luogo in cui resistono i profughi che non si danno per vinti, che vogliono mettersi alle spalle quella guerra affermando il loro diritto di esseri umani alla fuga, oltre che il diritto internazionale a chiedere asilo e protezione internazionale.

Il gruppo di legali e di traduttrici volontarie porta i computer perché l’unico modo nel campo per chiedere il diritto d’asilo è via skype, ma l’elettricità scarseggia. La richiesta è complessa, per farne 10mila occorrerebbero anni, intanto però si comincia, e si denuncia la disumanità della situazione all’opinione pubblica europea, quell’opinione pubblica che spesso preferisce voltarsi dall’altra parte e magari votare il partito dei costruttori di muri. Infatti Alessia conta anche su di noi per fare circolare queste foto, perché la sua esperienza diretta diventi patrimonio di molti, da proteggere e da accompagnare un passo in avanti. Le foto poi con cui accompagna le sue parole sono già di per sé eloquenti: una tenda del campo con un bambino, le tende sotto un arcobaleno, “il treno dismesso” in cui “dormono molti minori non accompagnati”, perché appunto il campo di Idomeni è in gran parte fatto di bambini e bambine, ragazze e ragazzi, “molti minori non accompagnati che sono accuditi dagli altri migranti che non vengono accolti”. Alessia aggiunge telegrafica: “unica nota di normalità, i bambini bellissimi e affettuosissimi”. Ci manda anche otto bellissimi e drammatici disegni. L’autore è un bambino curdo di Kobane, la città siriana al confine con la Turchia che ha resistito strenuamente contro l’Isis facendo fronte persino ai boicottaggi di Erdogan. Sono disegni simbolici di un ragazzo che mostra una coscienza politica fuori dal comune oggi in Europa: ogni immagine ha un significato, l’Isis è un mostro dalla cui coda spunta una bandiera nera mentre la patriota combattente curda ne schiaccia il capo; in un altro disegno ci siamo noi, l’Europa, tra gli indifferenti giocatori di calcio che si rimpallano una sfera piena di profughi che nessuno vuole; un altro è tutto azzurro, un grande mare che avvolge i corpi capovolti di donne e bambini.

In futuro ricorderanno la nostra epoca come quella in cui l’Europa non volle prestare aiuto ai bambini che scappavano dalle guerre. Siamo talmente occupati a santificare la memoria e a celebrare le vittime del passato che non siamo in grado di agire collettivamente sul presente per affrontare queste tragedie. Anche nelle scuole troviamo difficoltà a trasmettere l’eccezionalità della situazione. Facciamo fatica a renderci conto fino in fondo di quello che sta accadendo, quindi ancora di più a comunicarlo a studentesse e studenti, bambini e bambine. La difficoltà non è di contenuto, ma di senso: spiegarlo in fin dei conti è facile, è un problema tecnico; il difficile è comunicarlo, comunicarne il senso profondo. Quando si organizzano i treni studenteschi per Auschwitz lo si fa proprio per colmare questo baratro di comunicazione, per trasmettere con l’empatia ciò che la distanza storica e l’enormità disumana dell’accaduto ci rende così arduo rappresentare. Servirebbe qualche treno studentesco per Idomeni.

Così spesso a scuola si sceglie di parlare d’altro, ci si rifugia nel programma, nel lavoro dell’insegnante inteso in senso burocratico. Eppure questi disegni ci chiedono qualcosa, queste immagini che Alessia ci sta inviando ci offrono un’occasione. Ci chiedono di essere guardati ora, non di essere messi in mostra tra trent’anni. Ci chiedono di diventare l’occasione per parlare di profughi, di migranti, di guerra, di frontiere, di diritti, di confrontarci in classe con bambini e ragazzi, costruendo percorsi per renderci conto insieme, per provare a capire il mondo in cui stiamo vivendo. Ci chiedono di ripartire dai bambini e dalle bambine non accompagnati che, come tanti altri diseredati con la sola colpa di essere nati lontani dall’Europa e dal Nord America, cercano di fuggire dalla fame e dalla guerra. Come si insegna, come si comunica la divisione internazionale del lavoro e della ricchezza? Come si trasmette ai giovani – ma prima di tutto come possiamo imparare noi stessi – l’idea che il mondo così com’è non è una realtà destinale e immodificabile? La vecchia domanda riaffiora: si può insegnare come se niente fosse?

Alessia ogni sera ci manda nuovi aggiornamenti. Poi tornerà a Bologna e ci racconterà quello che ha fatto, che ha visto, che le hanno raccontato, che ha provato: quanto ci faremo cambiare, noi insegnanti, da quello che ci sta comunicando?