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Opinioni / “Il paradigma voucher: le novità di un vecchio sfruttamento”

I buoni, sotto forma di contratti di prestazione occcasionale, “sono tornati per la loro qualità di eccellente strumento di governo del tempo”, ma la tendenza verso l’informalità “investe l’intero mercato del lavoro”.

13 Luglio 2017 - 13:00

di Lavoro Insubordinato da ∫connessioni precarie

Le novità nel campo della regolamentazione del mercato del lavoro continuano a sorprenderci, ma non ci colgono impreparati. Le nostre perplessità in riferimento all’abrogazione dei voucher sono state confermate ieri, quando sono riapparsi sulla scena sotto nuove forme, che però manifestano le medesime problematiche che ne avrebbero dovuto sancire la fine perenne. Così non è stato, a quanto pare. I voucher per natura eccedono le regole tecniche e formali che tentano di limitarne gli abusi. Non esiste nessun escamotage normativo che riesca a contenerne gli effetti e forse è proprio per questo che a Confindustria piacciono così tanto. Sono utili da sempre per gestire in un modo del tutto informale i rapporti di lavoro: il mercato del lavoro attuale non può proprio farne a meno e infatti sono tornati per la loro qualità di eccellente strumento di governo del tempo di lavoro, perfettamente funzionale ad aggirare forme di resistenza che ancora vengono messe in campo da parte di lavoratrici e lavoratori. Sebbene i buoni lavoro non siano certo gli unici responsabili della precarietà, di sicuro sono stati e continuano a essere un modello esemplare da seguire per disciplinare le forme contrattuali, livellare i salari e adeguare le modalità di messa al lavoro ai capricci della produzione, affinché le aziende non sprechino nemmeno un centesimo. Il nudo scambio lavoro-denaro che i voucher hanno inaugurato in un modo del tutto legale caratterizza di fatto anche il contratto indeterminato a tutele crescenti, grazie al quale le aziende risparmiano nettamente sui costi del lavoro avendo al contempo il potere di licenziare in qualsiasi momento i propri dipendenti. E questo è solo un esempio: il paradigma voucher è applicabile pressoché a tutti i rapporti di lavoro in essere.

Ma vediamo nello specifico quali novità ci riservano i nuovi voucher. Innanzitutto non esisterà più un unico modello uguale per tutti ma ci saranno delle modalità specifiche di attivazione dei voucher: da un lato, quelle che riguardano le famiglie che utilizzeranno la prestazione di un collaboratore domestico, gestendo il tutto attraverso il «libretto famiglia». Lavoro domestico e di cura a chiamata e just in time, con gli sgravi che permettono a precarie e precari di conquistarsi a una quota di welfare monetizzato pagando, con il loro salario a ribasso, un lavoratore o (molto più probabilmente) una lavoratrice-voucher con un salario altrettanto al ribasso. Dall’altro lato, ci sono le modalità che riguardano le aziende, che dovranno sottoscrivere un contratto detto PrestO, ovvero di prestazione occasionale. Sì, lo sappiamo, l’idea di un contratto per le prestazioni occasionali fa sorridere. Eppure, il governo pare fermamente convinto che i nuovi voucher equivalgano a dei veri e propri contratti, in quanto contengono sia i contributi previdenziali sia l’assicurazione infortunistica. In realtà, è un discorso del tutto coerente, visto e considerato che, dal Jobs Act in poi, gli stessi contratti di lavoro hanno perso qualsiasi carattere vincolante. La sostanziale continuità tra il tipo di rapporto che producevano i «vecchi» voucher e quello che producono i nuovi testimonia una volta di più come l’informalità delle prestazioni lavorative non incontri nessun freno nella contrattualizzazione. Evidentemente il carattere informale del rapporto di lavoro non è un problema specifico dei voucher, come molti dei loro stessi detrattori sindacali sembrano credere, ma investe l’intero mercato del lavoro. Questo perché il lavoro assume una «forma» che non obbliga nel tempo nessuna reciprocità di prestazione, eliminando qualunque vincolo per il datore di lavoro, tanto che anche le clausole di un contratto a tempo indeterminato possono essere modificate o rifiutate in ogni momento.

I nuovi voucher, di cui si registra un restyling a dir poco sommario e superficiale, s’inseriscono pienamente in questo quadro consolidato di informalità. La paga minima per un’ora di lavoro prestato all’azienda sarà di 9 euro netti, a fronte dei 7,50 precedenti, per un lordo di 12,41 euro. La differenza tra il lordo e il netto andrà all’INPS per coprire i costi di previdenza sociale, l’INAIL e costi di gestione. Le famiglie, invece, pagheranno i buoni 10 euro di cui 8 andranno ai loro collaboratori. Il tetto massimo annuale della retribuzione a voucher per i lavoratori si abbassa dai 7.000 euro renziani ai vecchi 5.000, mentre i padroni possono «assumere» ogni singolo lavoratore per un monte ore che corrisponde a un massimo annuale di 2.500 euro. Se però i lavoratori – ora ribattezzati «prestatori d’opera» ‒ rientrano in categorie specifiche (pensionati, studenti sotto i 25 anni, disoccupati, cassintegrati o beneficiari di prestazioni di sostegno al reddito quali REI e SIA) allora i padroni ‒ ora noti come «utilizzatori» ‒ avranno un abbattimento dei costi pari al 75% e potranno allargare il tetto massimo annuale fino a 6.667 euro, mentre per i lavoratori il limite annuo rimarrà invariato. Per il loro impegno a estendere lo sfruttamento a quanti in un modo o nell’altro sono usciti dal mercato del lavoro, a ridurre i costi sociali della povertà, a introdurre i più giovani sull’impervia via del regime del salario, i padroni vengono in questo modo premiati e ricompensati.

Tutto questo, come è prevedibile, non garantirà un uso più ragionevole dei voucher, che continueranno indisturbati a garantire un comando pieno sul tempo di lavoro e salari della miseria. Infatti, i dati sul loro utilizzo nel 2015 parlano chiaro: mediamente quasi nessuno ha guadagnato più di 500 euro con i voucher, e difficilmente potrà fare la differenza il fatto che il nuovo voucher preveda per i disoccupati, gli studenti e i pensionati un massimale superiore del 25% rispetto a quello delle altre categorie. Ciò che cambia è il monte ore giornaliere obbligatorie: un lavoratore non può lavorare meno di 4 ore al giorno e più di 280 ore l’anno per azienda. Se verranno riscontrate delle irregolarità, il rapporto di lavoro sarà trasformato in un tempo indeterminato. I vecchi problemi qui ritornano: rimane praticamente impossibile tracciare i voucher, anche se il processo sarà d’ora in avanti completamente telematizzato. I voucher sono i Lupin del mercato del lavoro: incatturabili.

Non si capisce, poi, come la novità del minimo orario di 4 ore possa risolvere il problema del lavoro povero che i voucher producono. Forse nella contabilità del governo non risultano le consistenti somme talvolta restituite dai voucheristi a quei padroni che, anche quando hanno pagato i lavoratori con un numero di voucher adeguato alle ore di lavoro svolto, risultando formalmente in pace con la legge, si sono fatti risarcire in contanti dai lavoratori, garantendosi un risparmio netto senza ricadere nell’irregolarità. D’altra parte, quale azienda rischierebbe di superare le 280 ore, nel momento in cui uno dei tanti vantaggi del lavoro a voucher è la possibilità di avere a disposizione un esercito di lavoratori, sempre sostituibili, che a fatica raggiunge il massimale di 5000 euro ed è perciò sempre e pienamente disponibile? Se poi, infine, c’è l’obbligo di comunicare telematicamente la prestazione almeno un’ora prima che questa venga erogata, esiste anche una clausola per cui, se la prestazione non viene effettuata, il datore di lavoro ha la possibilità di revocare la comunicazione entro tre giorni. Ah, ma allora il trucco c’è! Se in quei tre giorni non è stato effettuato alcun controllo, si possono riprendere indietro i voucher e pagare i prestatori d’opera in nero. I voucher sono fatti così, senza lavoro nero non ci sanno stare. Con o senza PrestO, la situazione è più o meno la stessa di prima. Anzi, adesso non c’è nemmeno l’obbligo di pagare in giornata, ma entro il 15 di ogni mese. C’è tutto il tempo per pianificare al meglio l’economia aziendale e macchinare loschi traffici.

Gli unici a poter denunciare il proprio sfruttamento e le irregolarità subite rimangono i singoli lavoratori. Tuttavia, per come è alto il livello di ricattabilità, questa soluzione non può bastare: da soli contro il padrone non si vince. Ma questi lavoratori e lavoratrici frammentati, pagati con i buoni lavoro, possono smettere di essere buoni al lavoro. Essi sanno di essere parte di un sistema complessivo di sfruttamento, di un regime del salario che prevede modalità di messa al lavoro ben integrate e funzionali alle necessità della produzione e della riproduzione sociale. Essi sanno anche che solo la costruzione di forme di comunicazione tra di loro può colpire l’organizzazione del lavoro che li sovrasta e li opprime. Smontare e cancellare il paradigma dei voucher è un compito urgente.