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Opinioni / Il nuovo governo e un vecchio problema politico

∫connessioni precarie sul nuovo Governo e sulla scomparsa “senza rumore e senza cordoglio” del ministero per l’integrazione.

28 Febbraio 2014 - 17:27

Il nuovo governo e un vecchio problema politicoSenza rumore e senza cordoglio il ministero per l’integrazione è scomparso. La prospettiva politica dell’integrazione non ci ha mai appassionato particolarmente. Lo sforzo a senso unico che essa pretende da parte degli immigrati affinché si adeguino alla cultura nazionale o locale ci è sempre apparso per quello che è, ovvero il modo per riaffermare uno specifico dominio politico. La scomparsa senza rumore dell’apposito ministero merita però qualche considerazione. Parte della colpa è senz’altro della sua ultima titolare, Cécile Kyenge. Per tutto il tempo del suo breve mandato la prima ministra nera della Repubblica ha continuato a rassicurare gli italiani dicendo loro che non sono razzisti. La conseguenza inevitabile è stata che il razzismo, lo sfruttamento del lavoro migrante, la presenza oscena dei Cie non sono diventati un problema di tutti, perché in un paese democratico la differenza non deve essere un problema per nessuno. Contro tutto questo, nei dodici mesi che ci separano dal 23 marzo dello scorso anno, i migranti non hanno mai smesso di lottare. Perduta nel sogno della società meticcia, la ministra ha cercato invece di presentare gli aspetti di normalità di una situazione che è ostinatamente drammatica. Ciò nonostante, in un’indifferenza più o meno generalizzata, è stata insultata con le espressioni più volgari e minacciata nei modi più truci. Al massimo, con un tono che variava dal malcelato divertimento allo scandalo di maniera, i grandi organi di informazione hanno dato notizia dei nuovi e originali modi escogitati da fascisti e leghisti per mettere la donna nera al suo posto. Le minacce e gli insulti sono stati considerati come un problema di costume che non doveva in nessun caso diventare politico. Non è dato sapere se la signora Kyenge abbia avuto l’onore di una telefonata che le annunciava il suo licenziamento. Si sa invece che la vena del leghista giovane Salvini non si è esaurita: lui, infatti, ha già stabilito che, essendo incinta, Marianna Madia non dovrebbe fare anche la ministra. Bianche o nere le donne per lui devono stare a casa. Anche questa posizione è stata però derubricata a problema di costume. In un paese in cui l’opposizione parlamentare, dal M5S alla Lega, si riduce all’insulto programmatico e al dileggio persino fisico degli avversari un problema di costume innegabilmente esiste.

Ciò non toglie che il razzismo e il patriarcalismo non sono trasgressivi esperimenti linguistici che mostrano i limiti e le ipocrisie della correttezza politica. Essi sono invece modalità che cercano disperatamente di nascondere un problema politico, cioè la presenza di differenze e contrapposizioni radicali e inconciliabili, affermando e difendendo un’impossibile unità. Lo sfruttamento del lavoro migrante e l’orrida presenza dei Cie sono appunto un problema politico e non di costume. Con o senza ministero per l’integrazione, essi sono il frutto di una scelta consapevole e continuata che non si risolve con il compromissorio riconoscimento di un timido jus soli. Così come non è possibile cancellarlo con le espulsioni e gli insulti, il problema politico dei migranti non si lascia nemmeno ridurre a una questione di buone maniere.

Anche la presenza della ministra Madia è un problema politico, sebbene non per la sua gravidanza e nemmeno per il nome del padre, come qualcuno si è affrettato fastidiosamente a scoprire. Marianna Madia è diventata ministra per la pubblica amministrazione e la semplificazione dopo aver dimostrato la sua radicale incompetenza amministrativa poche settimane fa quando, nelle vesti di incompetente responsabile lavoro della segreteria del Pd, è andata a presentare le sue originali proposte di riforma del mercato del lavoro al ministero sbagliato. Visto che confonde i ministeri, l’hanno subito promossa a gestire e semplificare quella che è non solo la macchina organizzativa dello Stato, ma anche il più importante datore di lavoro del paese. Le sue due incompetenze possono così felicemente coniugarsi all’interno di un governo che è letteralmente dei padroni. Dirlo non significa declamare uno slogan e nemmeno cedere in modo sconsiderato al richiamo del vintage. Si tratta della semplice descrizione di coloro che siedono nel consiglio dei ministri. Accanto al padrone pubblico siedono infatti un’esponente di punta degli industriali italiani e il presiedente della lega delle cooperative. Li guida quella sorta di giovane e giulivo maschio alfa che sembra essere il presidente del consiglio. La scenografia dell’uomo solo che si sceglie i suoi seguaci e, pariteticamente, le sue seguaci conferma così anche in Italia quella preminenza dell’esecutivo sul legislativo che caratterizza i sistemi rappresentativi contemporanei. Sfuma fino a scomparire la distinzione tra governo tecnico e governo politico, così come non basta un pigro riferimento al populismo per descrivere il modo in cui viene ricercata la legittimazione. Se non si soccombe alla nostalgia per le vecchie rappresentanze parlamentari, si può invece notare che il governo diviene la rappresentazione immediata del potere sociale. Ciò non significa la fine di ogni mediazione, ma che ogni mediazione avviene solamente a partire dal riconoscimento del potere sociale del denaro, il padrone universale. Proprio per questo, nel governo Renzi, il lavoro esiste solamente se visto dalla parte della domanda di lavoro, cioè appunto dal punto di vista dei padroni. A decidere che cos’è o non è il lavoro, in quali condizioni deve essere erogato, quanto salario spetta alla forza lavoro saranno una signora che rappresenta nel modo migliore l’imprenditorialità italiana e un signore che si vanta di aver sempre creato lavoro. La prima è un’esperta in delocalizzazioni, il secondo è al vertice di un sistema di sfruttamento del lavoro che grazie all’invenzione dei soci lavoratori ha svuotato di diritti, tutele e salario ogni riferimento alla cooperazione. In entrambi i casi il lavoro migrante è stato una risorsa insostituibile per la produzione di valore, grazie anche al fatto che la cittadinanza in Italia è stata mediamente concessa agli stranieri dopo 15-20 anni di lavoro intensivo, ricatti e razzismo istituzionale.

Questo governo rappresenta nella maniera più precisa i modi nei quali negli ultimi decenni in Italia è stato domandato e comandato il lavoro. Il padrone pubblico ha vessato fino all’umiliazione i funzionari di ogni ordine e grado, ignorando non solo le loro necessità, ma anche quelle della macchina amministrativa. Gli industriali hanno prodotto profitti globali grazie al ricatto della delocalizzazione, comprimendo i salari e abbassando il più possibile le condizioni di lavoro. Le cooperative si sono affermate come strumenti di sfruttamento generalizzato e senza limiti. Il rischio reale è che il modello del futuro JobsAct sia proprio il lavoro nelle cooperative, rappresentato nel governo anche dai ministri in quota a Comunione e liberazione che di cooperazione se ne intendono tanto quanto il titolare del ministero del lavoro comandato. Non stupisce che in questo quadro venga completamente cancellato il pallido riferimento ministeriale al lavoro migrante che vive in maniera intensiva tutte quelle condizioni. L’importante è sapere che la sua cancellazione non corrisponde alla soluzione del problema e nemmeno stabilisce delle condizioni migliori che consentano di risolverlo. Le differenze e le contrapposizioni radicali e inconciliabili che pure ci sono non si lasciano esprimere politicamente grazie ai proclami. Nonostante la risentita immaginazione di qualcuno, lo stato presente delle cose richiede molto lavoro e molta intelligenza per essere abolito.

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